Gheorghiu, Dragos (ed.) : Fire as an Instrument: The Archaeology of Pyrotechnologies (BAR S1619). vii+118 pages; A4, illustrated throughout with figures, maps, plans, drawings and photographs, 13 chapters, ISBN 9781407300313, £30.00
(Archaeopress, Oxford 2007)
 
Reviewed by Paolo Cimadomo, Università di Napoli
 
Number of words : 2293 words
Published online 2014-02-20
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1009
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          Il volume curato da Dragos Gheorghiu raccoglie undici interventi che si concentrano sull’utilizzo del fuoco in contesti archeologici per lo più preistorici e protostorici, ai quali si aggiungono due contributi relativi a contesti di età medievale. La maggior parte dei testi è stata presentata al nono incontro della EAA (European Association of Archaeologist) tenutosi nel 2003 in Russia, a San Pietroburgo, i restanti contributi sono più recenti. Gli interventi sono tutti scritti in lingua inglese, tranne uno redatto in francese. Obiettivo dichiarato dallo stesso editore Gheorghiu nella prima pagina del volume è quello di offrire una percezione “materiale” del fuoco studiato come oggetto, quindi anche con il supporto materiale che permette la produzione di fuoco.

 

          Il primo testo, intitolato “Hearth, Heat and Meat” di Ulla Odgaard, offre una dettagliata analisi delle caratteristiche dei focolari dell’Età della Pietra, formati da vari elementi che vanno scomposti per poterne capire le relazioni. In particolare l’Autrice dopo aver suggerito un approccio metodologico allo studio delle componenti singole fornisce esempi di ricostruzione di tre diversi tipi di focolari. Il primo modello è desunto da una ricostruzione basata sui ritrovamenti da Lakeview sull’isola di Ellesmere in Canada databili tra 2500 e 1900 a.C.: esso è composto da piccole pietre circolari posizionate in modo da formare un circolo atto a sostenere una tenda teepee, capace di essere abbastanza ampia per contenere un fuoco al centro. Il secondo esempio è il modello supposto dai ritrovamenti effettuati a Polaris, in Groenlandia, sito della tarda cultura Dorset (750-1300 d.C.): in questo caso i focolari sono due, divisi da un corridoio centrale. L’ultimo modello è dedotto dallo studio effettuato presso il sito mesolitico di Lollikhuse in Danimarca: all’interno di piccole depressioni artificiali, utilizzate per costruire delle abitazioni in legno, sono state ritrovate varie fosse utilizzate come focolari per cuocere i cibi.

 

          Attraverso questi esempi la Odgaard non si prefigge di individuare il modello migliore o di capirne gli usi legati a determinate condizioni ambientali, ma cerca di indicare la possibilità di studiare le relazioni tra i vari elementi, come suggerito nella prima parte dell’articolo.

 

          Silje Evjenth Bentsen, autrice del secondo intervento dal titolo “A Social Instrument: Examining the Chaîne Opératoire of the Hearth”, prosegue per alcuni aspetti l’analisi del testo precedente parlando del focolare non solo come risultato di un processo di costruzione e abbandono, ma anche come assemblaggio di differenti manufatti. La catena operativa è costituita principalmente da quattro fasi: preparazione e posizionamento del focolare; uso dello stesso; riuso; abbandono. Esso è inoltre il maggior simbolo domestico e ha quindi una funzione sociale molto importante, poiché creando il fuoco e lavorando grazie ad esso i popoli hanno potuto creare occasioni per rafforzare le pratiche sociali.

 

          Il terzo articolo, scritto da Claude Sestier e intitolato “Etude du profile thermique d’une structure de combustion en meule (pitkiln): four ou foyer simple?”, analizza il problema del buon funzionamento di strutture di combustione. Lo studio focalizza l’attenzione sulla necessità per l’uomo di saper usare lo strumento, sulle sue abilità e competenze.

 

          Dagli esperimenti effettuati e descritti si evince che il supporto materiale è importante, ma non dipende esclusivamente da questo la qualità della cottura. Il saper riconoscere il grado di abilità dell’artigiano facilita l’interpretazione dei resti archeologici, che spesso risultano frammentari e di non facile attribuzione.

 

          Con l’articolo di Judit Regenye, dal titolo “Preserved in Fire. Late Neolithic Settlement Structures in Western Hungary”, inizia una serie di testi basati su casi specifici analizzati in contesti precisi: in questo caso sono stati presi in considerazione i forni, la ceramica e i resti architettonici di un sito datato al tardo neolitico attribuibile alla cultura Lengyel e situato nell’area transdanubiana. Il fuoco permette spesso la conservazione del materiale archeologico, soprattutto di quello fatto con argilla: l’Autrice mette in evidenza una serie di elementi di argilla che possono conservarsi grazie al fuoco.

Il primo esempio riguarda le case datate al Neolitico nell’Europa centrale: esse infatti, sebbene fatte di legno, possedevano una base in argilla che a volte si è conservata grazie al fuoco. Nel sito di Szentgál-Teleki-dűlő, oggi in Ungheria, sono stati trovati numerosi frammenti di intonaco mantenuti in buone condizioni grazie ad un grosso incendio.

 

          La seconda analisi riguarda i forni: nell’Europa centrale è difficile trovare testimonianza di essi negli scavi relativi al Neolitico, sebbene dovevano ovviamente esistere. Per l’Autrice è possibile che ciò sia dovuto all’esigua ampiezza delle superfici scavate. Un caso interessante è quello del sito neolitico transdanubiano di Kup, nel quale sono state rinvenute fosse con pietre utilizzate probabilmente per la cottura dei cibi. Ad ogni modo non esistono molti confronti per rafforzare questa teoria.

 

          L’ultimo esempio è quello dei manufatti ceramici, che rappresentano la maggior parte dei ritrovamenti durante uno scavo archeologico. Dragos Gheorghiu è autore di “Chalcolithic Pyroinstruments with Air-Draught – An Outline”, nel quale si concentra su una particolare classe di manufatti di diverso materiale databili al Calcolitico nell’area sud-orientale dell’Europa i quali possiedono una superficie perforata. Secondo l’Autore questa tecnologia serviva per tirare l’aria e permettere un flusso costante di ossigeno in diverse situazioni ambientali. L’analisi degli oggetti legati al fuoco non deve isolarli, ma essi devono essere visti come un insieme in relazione a tutta la casa. Per questo motivo sono analizzati gli esperimenti effettuati nel 2003 nel parco archeologico di Vadastra, in Romania, che hanno dimostrato come tutto l’insieme domestico poteva servire da grosso focolare, con sistemi di aspirazione ed evacuazione del fuoco attraverso finestre e il soffitto.

 

          Jacqui Wood concentra il suo articolo, “A Re-Interpretation of a Bronze Age Ceramic. Was it a Cheese Mould or a Bunsen Burner?”, su alcuni oggetti ceramici di forma conica e forati sulla superficie. Essi sono stati in passato considerati matrici per il formaggio. Attraverso esperimenti pratici su diversi esemplari provenienti da diverse località l’Autrice dimostra che essi sono mediocri se usati per fare il formaggio, ma risultano molto più efficaci nella fusione dei metalli.

 

          In “Chalcolithic Copper Source-material and End-products: Early Trade between Israel and Jordan” Sariel Shalev analizza il problema della produzione di manufatti di rame nel V e IV millennio a.C. nell’area tra Giordania ed Israele. In particolare lo Studioso studia una lama rinvenuta nel villaggio di Ein Assawir risalente al Calcolitico. Dalle analisi metallurgiche appare chiaro che il metallo estratto provenisse dalle cave di Faynan, in Giordania. Queste analisi forniscono un ulteriore contributo, seppur molto piccolo, alla ricostruzione della catena produttiva del rame nell’area del Levante meridionale. I numerosi studi riguardanti la metallurgia di V e IV millennio a.C. effettuati soprattutto nella seconda parte del secolo scorso danno ragione alle analisi quivi pubblicate.

 

          Nel titolo dell’articolo successivo, “Iron Production in the Northern Eurasian Bronze Age”, Stanislav Grigoriev riassume il campo del suo lavoro: partendo dai processi di produzione del metallo nell’area degli Urali nella tarda Età del bronzo. l’Autore tenta di mettere in evidenza le relazioni che esistono tra questa regione, il Vicino Oriente e l’Europa centrale. I primi oggetti in ferro ritrovati nell’area indagata sono databili tra III e II millennio a.C.: alcuni hanno supposto che si potesse trattare di materiale di provenienza meteoritica, a causa della presenza di una grossa quantità di nichel, ma Grigoriev dimostra attraverso analisi chimiche che in realtà la consistente percentuale di nichel presente nella maggior parte dei manufatti in ferro è di natura terrestre.

 

          Sebbene l’origine della metallurgia in ferro resti avvolta nel mistero, si può affermare che queste nuove conoscenze nate nel Levante furono poi largamente diffuse sul continente europeo dall’area degli Urali. Secondo l’Autore ciò fu possibile perché alla fine dell’Età del Bronzo nell’area compresa tra gli Urali e la Siberia occidentale comparvero culture che avevano origini vicine a quelle del Vicino Oriente.

 

          “Pyrotechnology of Titelberg Iron Age Coin Production” di Ralph M. Rowlett e Dragana Mladenovic è un testo che affronta in particolare il problema della coniazione. Gli Autori pubblicano alcuni dei risultati degli scavi effettuati dall’Università del Missouri nel sito dell’Età del Ferro di Titelberg, attualmente nel Lussemburgo sudorientale. Il sito produsse moneta per secoli, prima e dopo la conquista romana. A causa della presenza di fornaci di varie epoche nella stessa area, è stato possibile ricostruire il processo di coniazione, il suo sviluppo e le variazioni nel tempo. Il processo pirotecnologico consta di più fasi fino a raggiungere una temperatura di 1300°C per la fusione del rame. Per la difficoltà di raggiungere tale temperatura e per la continuità dell’attività legata alla produzione di moneta, il sito di Titelberg risulta essere particolarmente interessante.

 

           Jes Mertens, autore dell’intervento “Fire Cult? – The Spatial Organization of a Cooking Pit Site in Scania”, interpreta alcuni siti dell’Età del Bronzo in Norvegia come luoghi di culto connessi con l’uso del fuoco. Infatti in un’area piuttosto ampia, comprendente le attuali Norvegia, Svezia meridionale, Danimarca e Germania settentrionale, sono state trovate numerose fosse con tracce di utilizzo del fuoco che hanno lasciato aperto il dibattito riguardo il loro uso. Si tratta di buche usate sicuramente per la cottura di cibi, ma potrebbero avere una funzione rituale. Questa ipotesi pare trovare conferma nel sito di Glumslöv nel quale alcune fosse allineate delimitano lo spazio sacro grazie al fuoco. L’alta presenza di fosfati infatti potrebbe essere stata lasciata dalle frattaglie degli animali sacrificati.

 

          Gli usi del fuoco nei contesti funerari sono studiati nell’articolo di Seth Schneider, “Ashes to Ashes: The Instrumental Use of Fire in West-Central European Early Iron Age Mortuary Ritual”. L’autore mette in evidenza le relazioni tra pire funerarie, cerimonie di cremazione e altre attività collegate al fuoco, che permette la purificazione e il passaggio nel mondo ultraterreno. Nella tarda Età del Bronzo e nella prima Età del Ferro nell’Europa centrale il fuoco ha giocato un ruolo fondamentale nei rituali di inumazione e cremazione, come dimostrano i numerosi resti di carboni. In particolare le evidenze dell’area di Heuneburg, nella Germania meridionale, testimoniano l’intensa attività di uso del fuoco durante la prima Età del Ferro e un calo progressivo nei periodi successivi.

 

          “Roasters from the Early Medieval Hillfort at Stradów, Czarnocin Commune, South Poland, in the Light of the Results of Specialist Analyses” è il primo dei due articoli che affrontano il tema dell’uso del fuoco in età medievale. Gli autori dell’articolo, Bartlomiej Szymoniewski, Andrzej Kielski, Maria Lityńska-Zając e Krystyna Wodnicka, hanno analizzato un particolare tipo di vaso, simile ad un bacino, diffuso nell’Alto Medioevo nell’Europa centrale, meridionale e orientale. Si tratterebbe di manufatti utilizzati per essiccare e conservare meglio i granelli, poiché in tal modo si bloccava il processo di germinazione. Con questo sistema i vantaggi che ne sono seguiti sono stati di natura sociale e demografica, poiché divenne più semplice conservare il cibo. In realtà la funzione di questi vasi non è ancora ben chiara: quelli trovati a Stradów potrebbero essere stati usati anche come coperchi, come sembra evidente nei ritrovamenti in alcuni villaggi della Romania di VI-VII secolo.

 

           Marta Caroscio, nell’ultimo articolo “Pyrotechnology and Local Resources in Chianti Shire: From Clay, Limestone and Wood to Bricks, Lime and Pottery Making. Some Preliminary Notes”, analizza i primi dati ricavati da una serie di ricognizioni e scavi di emergenza effettuati in Toscana tra Firenze e Pisa. Dopo una lunga disamina sui contesti storici e ambientali nell’area toscana, effettuata per specificare che spesso le differenze nell’uso di vari materiali siano segni caratteristici di un determinato sistema produttivo in uno specifico periodo, l’Autrice passa a descrivere le caratteristiche e le posizioni delle fornaci di età medievale: esse sono inserite in un sistema complesso, che comprende cave d’argilla, gli spazi per la creazione di mattoni o di vasi e per conservare il prodotto finito. L’Autrice cerca dunque di ricostruire il modello produttivo della Toscana dell’XI secolo: la presenza di risorse naturali fu un elemento essenziale nel decidere il luogo di produzione poiché era necessario abbattere i costi di trasporto. La praticità e l’economicità di queste scelte hanno portato ad una lunga longevità di questi centri di produzione, che arrivarono fino al XIX secolo.

 

          L’originale idea di pubblicare un volume sulla pirotecnologia ha portato ad interessanti conclusioni. Molti interventi si sono concentrati su contesti specifici, mostrando singolari casi-studio per specialisti nel settore. D’altronde voler coprire un periodo così ampio senza limiti territoriali ha portato inevitabilmente ad una assenza di testi concentrati su determinati periodi o aree.

 

          Punto di forza del libro resta quello di aver scelto una tematica poco studiata in maniera specifica in passato, dando punti di vista differenti che suggeriscono al lettore i tanti possibili usi del fuoco: esso può così essere strumento di riscaldamento, di illuminazione, di cucina, ma anche un forte fattore di coesione o affermazione sociale.

 

 

Table of contents

 

Introduction / Dragos Gheorghiu 1-5

Hearth, heat and meat / Ulla Odgaard 7-18

A social instrument: examining the chaîne-opératoire of the hearth/ Silje
Evjenth Bentsen 19-24

Etude du profil thermique d’une structure de combustion en meule (pit kiln):
four ou foyer simple? / Claude Sestier 25-31

Preserved in fire, Late Neolithic settlement structures in Western Hungary /
Judit Regenye 33-40

Chalcolithic pyroinstruments with air-draught: an outline / Dragos Gheorghiu
41-51

A re-interpretation of a bronze age ceramic. Was it a cheese mould or a Bunsen
burner? / Jacqui Wood 53-56

Chalcolithic copper source-material and end-products: early trade between
Israel and Jordan / Sariel Shalev 57.61

Iron production in the Northern Eurasian Bronze Age / Stanislav A. Grigoriev
63-69

Pyrotechnology of Titelberg Iron Age coin production / Ralph M. Rowlett and
Dragana Mladenovic 71-77

Fire cult? The spatial organization of a cooking pit site in Scania/ Jes
Martens 79- 84

Ashes to ashes: the Instrumental use of fire in west-central European early
Iron Age mortuary ritual / Seth A. Schneider 85-95

Roasters from the Early Medieval hillfort at Stradów, Czarnocin commune, South
Poland, in the light of the results of specialist analyses Bartlomiej Szymon
Szmoniewski ... [et al.] 97-103

Pyrotechnology and local resources in Chianti shire: from clay, limestone and
wood to bricks, lime and pottery making. Some preliminary notes / Marta
Caroscio 105-118