Venturi, Gianni - Cappelletti, Francesca (a cura di): Gli Dèi a Corte. Letteratura e immagini
nella Ferrara estense. 17 x 24 cm , x-516 p. con 102 fig. n.t. e 16 tav f.t. a colori. (Ferrara paesaggio estense, vol. 3)
€ 52,00 - ISBN 978 88 222 5914 1
(Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze 2009)
 
Compte rendu par Paulina Spiechowicz
 
Nombre de mots : 2166 mots
Publié en ligne le 2010-08-27
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Questo volume riunisce numerosi saggi che ruotano attorno al binomio “letteratura e arte”, redatti in occasione del convegno tenutosi a Ferrara nel 2006. Seguendo il filo conduttore dell’interdisciplinarità, gli scritti raccolti da Gianni Venturi e Francesca Cappelletti si concentrano sul Rinascimento Estense e sull’arte di Corte e indagano le fervide relazioni tra parole ed immagini nella Ferrara dei secoli XV e XVI. I rapporti tra le arti sorelle risultano, in tal modo, acquistare uno spessore nuovo, mettendo in risalto la fragilità della linea di demarcazione tra le differenti discipline.

 

 

 

          Il primo esempio di questo metodo di lettura plurisettoriale è offerto dallo scritto di Claudia Cieri Via, la quale apre il volume con un saggio sull’analisi della tradizione dei cicli pittorici del mito di Amore e Psiche. La ricerca proposta paragona gli scomparti pittorici alle fonti scritte del mito, tramandate originariamente tramite le Metamorfosi di Apuleio e divulgate, a partire del Medio Evo, attraverso la trattazione del Boccaccio, la traduzione del Boiardo e il commento del Beroaldo. La circolazione del mito è pertanto passata al setaccio seguendo da un lato le direttive dell’emulazione letteraria, dall’altra le linee dell’imitazione pittorica.

 

 

 

          Il mito rappresenta certamente un elemento essenziale nella diffusione del pensiero politico di corte, come dimostra un altro celebre ciclo pittorico ferrarese, il Salone dei mesi del Palazzo Schifanoia. Tre saggi prendono spunto dagli affreschi, al fine di analizzare la presenza del mito di Vulcano in ambito estense: si tratta degli scritti di Marco Bertozzi, Vincenzo Farinella ed Eleonora Erta.

 

 

 

          Marco Bertozzi, da tempo specialista dell’ambito astronomico ferrarese, riassume le differenti interpretazioni date allo scomparto del mese di settembre. Riprendendo la storica analisi del Warburg, secondo il quale era stato il Prisciani l’ideatore del ciclo pittorico, Bertozzi confronta la rappresentazione del mito di Venere e Marte intrappolati nella rete di Vulcano sulle pareti di Schifanoia con le fonti letterarie dell’Astronomica di Manilio, della Genealogia deorum del Boccaccio e dell’Eneide virgiliana. Vengono invece confutate dallo studioso le interpretazioni che vedevano nello scomparto di settembre la rappresentazione di Marte e Ilya.

 

 

 

          Vincenzo Farinella esce dal contesto specifico di Schifanoia per evidenziare l’importanza del mito di Vulcano alla Corte Estense. Testimone del prestigio del mito è la Fucina di Vulcano, rilievo per lo “Studio dei marmi” di Antonio Lombardo per Alfonso d’Este. Il mito è ripresentato dallo stesso Ariosto nella prima redazione del Furioso, datata 1516, quando, celebrando le origini della casa d’Este, il poeta associa Vulcano con le imprese di Alfonso, di Ippolito e di Ercole I. Successivamente, lo studioso analizza il passo virgiliano della fabbricazione dello scudo di Enea (VIII), per accostarlo alla rappresentazione di Antonio Lombardo. Il rilievo pone, difatti, numerosi problemi esegetici, a causa del carattere giovanile di Vulcano. Il dio di norma era rappresentato storpio e anziano, come mostrano le Stanze del Poliziano, le Metamorfosi ovidiane e il dipinto del Peruzzi sul caminetto della Sala delle Prospettive nella Farnesina di Agostino Chigi. Una diversa lettura del mito è tuttavia riscontrabile, afferma Farinella, negli Inni Orfici, avendo questi dato origine ad alcune rappresentazioni di un Vulcano giovane e atletico, come il Puteale Albani del Museo Capitolino oppure il Parnaso di Mantegna. L’ipotesi ultima di Farinella riconduce la genesi della rappresentazione del mito di Vulcano del Lombardo per Alfonso alla guerra che di lì a poco Ferrara intraprese con Venezia.

 

 

 

          Secondo Eleonora Erta, la fortuna del mito prende avvio da una miniatura contenuta in un codice delle Opere di Virgilio del 1457. Per trovare la fonte di questa rappresentazione bisogna risalire a una miniatura del Virgilio Vaticano eseguito tra il IV e il V secolo a Roma. L’utilizzazione del mito sembra diminuire durante la dominazione di Ercole I, probabilmente a seguito dell’incidente avvenuto nella battaglia di Molinella, dove il futuro principe subì una ferita alla caviglia e rimase claudicante. Sarà invece Alfonso, come rilevato anche da Farinella, a rispecchiarsi nell’immagine del Dio fabbro. Dopo aver trovato esempi della rappresentazione del mito di Vulcano in epoca Erculea, Erta passa in rassegna la fortuna letteraria del mito, dal De politia litteraria di Angelo Decembrio all’Orlando Innamorato e ai Tarocchi del Boiardo, fino al Mambriano di Francesco Cieco da Ferrara e all’Orlando Furioso dell’Ariosto.

 

 

 

          Per quanto riguarda l’ambito letterario, e in particolare quello del poema cavalleresco – genere che conobbe notevole favore alla corte Estense, altrettanto numerosi sono i saggi che ripercorrono le vicende favolose presenti nella letteratura ferrarese e delle zone limitrofe.

 

 

 

          È il caso del testo di Marco Dorigatti, il quale affronta la genealogia della casata Estense tramite le vicende di Rugiero, protagonista dell’Orlando Innamorato del Boiardo. Sebbene Rugiero fosse un personaggio essenziale nell’Innamorato, poco spazio è stato riservato al capostipite della famiglia d’Este dai continuatori del Boiardo, i quali non capirono la portata encomiastico-politica del poema del conte di Scandiano. Nicolò degli Agostini e Raffaele Valcieco non svilupparono, se non in maniera marginale e sbrigativa, il lato dinastico affrontato dal Boiardo. Spetterà invece all’Ariosto la ripresa del filone encomiastico tramite l’Orlando Furioso.

 

 

 

          Il versante apologetico è affrontato anche da Gerarda Stimato. Nel suo saggio sono ripercorse le ultime strofe del Furioso, dedicate alla descrizione del padiglione nuziale costruito dalla maga Melissa: il XLVI canto del poema celebra in maniera conclusiva la casata Estense e particolarmente le gesta di Ippolito, a cui era stata dedicata la prima redazione del 1516.

 

 

 

          Sempre sulla narrazione ariostesca s’incentra il saggio di Cristina Ubaldini, con l’analisi del topos della balena, episodio presente tanto nell’Innamorato che nel Furioso. Mostro marino spaventoso e isola nella quale vivere al tempo, la figura della balena ha riscontrato un ampio successo letterario. Prendendo spunto dal Libro degli esseri immaginari di J. L. Borges, Ubaldini traccia una breve storia delle fonti della balena, fino ad approdare all’episodio emblematico narrato nel Furioso e nei Cinque Canti.

 

 

 

          Sul versante encomiastico torna invece il saggio di Bodo Guthmüller, dibattendo circa una composizione minore del Boiardo: le Pastorali. Attraverso lo spettro di un’interpretazione prettamente politica, l’Arcadia rappresenta, nel poema del conte di Scandiano, la metafora dello stato Estense, caratterizzato da un clima ameno e pacifico, descritto tramite un linguaggio aulico ed idillico. La pace ritratta dal Boiardo è tuttavia messa in pericolo dal leone nemeo, simbolo della Venezia rinascimentale. Non è difficile, attraverso queste poche righe introduttive, percepire la portata storico-politica delle analogie messe in atto dal Boiardo. La tensione politica tra Ferrara e Venezia esortò il conte a elaborare il tema caro delle Pastorali, dove la guerra tra le due città divenne il motivo centrale della narrazione.

 

 

 

          Il saggio di Elisabetta Graziosi considera un altro testo fondamentale della Ferrara tardorinascimentale, l’Aminta del Tasso, cercando di sottolineare la genesi e il ruolo dei suoi personaggi – dei e semidei. Il dramma mette in scena le sagome della corte di Alfonso II, dove le figure allegoriche illustrano i signori ferraresi. Conseguentemente, l’indagine è condotta attorno ai luoghi del testo, essendo Ferrara paragonata all’Arcadia felix dell’Italia. La città aveva, del resto, bisogno di una giustificazione che spiegasse il suo disimpegno nella guerra che aveva visto i veneziani in prima fila nell’impresa antiturca; giustificazione che trovava nel mito della pace la propria ragion d’essere. Il saggio mette pertanto a confronto le linee direttive della favola pastorale con la Ferrara di Alfonso II d’Este, in una lunga e dettagliata successione di relazioni più o meno evidenti tra la verosimiglianza del testo poetico e la realtà storico-politica del tempo.

 

 

 

          Sul poema cavalleresco, benché fuori delle cinte murarie ferraresi, s’incentra Elisa Martini, sondando il successo del genere alla corte dei Gonzaga. Passando in rassegna la biblioteca gonzaghesca, Martini rileva l’influenza della letteratura d’oltralpe nella vicina Mantova, come sottolineano gli affreschi del Pisanello e di Andrea Mantegna. La corte mantovana fu protagonista a sua volta dello sviluppo d’importanti cicli cavallereschi, come testimoniano Niccolò degli Agostini, continuatore dell’Innamorato, Francesco Cieco da Ferrara – autore del Mambriano, Folengo con il poema Orlandino e, infine, la Marfisa dell’Aretino. Giovanni Ferroni analizza, invece, un altro aspetto di un autore altrettanto fondamentale per la comprensione delle dinamiche letterarie rinascimentali: la poetica di Bernardo Tasso secondo il Libro primo degli Amori.

 

 

 

          Un poco fuori delle linee direttive dei saggi fin qui presentati si colloca l’analisi di Tommaso Casini, il quale si avvia fuori dall’entourage ferrarese per indagare la traduzione dell’Eneide di Annibal Caro, proposta nel 1581, e il suo lessico fortemente visivo. L’Eneide cariana ebbe grandissima fortuna, benché non sia mai stata considerata come une vera traduzione ma, piuttosto, una libera riscrittura del testo virgiliano. Il Caro aveva rifiutato i precetti linguistici del Bembo, elaborando una lingua elegante ed estrosa, in comune accordo con i modelli pittorici del tempo. L’autore aveva fortemente a cuore il tema delle relazioni tra le arti e le lettere, tema che affrontò sia nell’Apologia contro Castelvetro, sia in una lettera a Giorgio Vasari del 10 maggio 1548. Casini prosegue la propria argomentazione proponendo la lettura di altri testi del Caro, anche questi incentrati sul rapporto delle arti visive e della scrittura. Altrettanto interessanti appaiono le collisioni indagate da Christine Ott, la quale concentra il suo studio sugli oggetti nella poetica del Marino. 

 

 

 

          Particolare attenzione è posta al linguaggio, e specialmente al volgare, nei testi di Giorgio Patrizi e Federica Caneparo. Patrizi si focalizza sui trattati di corte dedicati all’educazione del Cortigiano, mettendo in risalto la nascita di una prima autocoscienza intellettuale, mentre Caneparo analizza i volgarizzamenti di Ovidio a opera del Dolce e di Giovanni Andrea dell’Anguillara i quali, nel trattare il testo delle Metamorfosi, seguirono il metodo romanzesco adottato dall’Ariosto. Particolare riguardo, inoltre, è riservato all’episodio di Perseo e Andromeda, il quale, a seguito dell’elaborazione ariostesca, modificò la ricezione iconografica del mito.

 

 

 

          Anche Caterina Volpi mette in evidenza l’importanza del contesto culturale romano nel dibattito inter artes, confrontando l’opera di Pirro Ligorio e di Michelangelo. Ligorio, successore delle iniziative artistiche al Vaticano nel 1558, fu un ostinato nemico del suo predecessore Michelangelo. Costretto a lasciare la Capitale per rifugiarsi a Ferrara a seguito dell’arrivo di Pio V, ivi redasse il suo Trattato sulle Arti, riassumendovi la polemica contro l’ambiente artistico romano. Tuttavia, Volpi pone l’accento sull’importanza, benché spesso apertamente rifiutata dal Ligorio stesso, dell’influenza dell’opera michelangiolesca sui disegni a sfondo mitologico dell’artista napoletano.

 

 

 

          Tra la Roma e la Ferrara di Ippolito II d’Este si muoveil saggio di Tiziana Ceccarelli, la quale esamina quattro manufatti del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, con particolare attenzione al Cofanetto di Tivoli, probabilmente appartenuto al cardinale estense. A partire dalle indagini di De Winter e di Mazzoni, Ceccarelli spiega il metodo d’indagine da utilizzare per l’interpretazione della manifattura, dei materiali utilizzati e per i processi di realizzazione, e approda a nuove ipotesi sul Cofanetto di Tivoli.

 

 

 

          L’indagine del mito è ripresa da Cecilia Vicentini, che mette in risalto il prestigio di Bacco e Arianna nella Ferrara di Alfonso II. Perpetuando il tema centrale del convegno sulle relazioni tra le arti e la parola, l’accento è posto sull’esame delle fonti letterarie del mito, in stretta corrispondenza con le rappresentazioni pittoriche rinascimentali. Sullo stesso versante, il saggio di Giovanna Rizzarelli indaga il testo del Doni, I Marmi, dove scritto e corredo iconografico sono intrinsecamente correlati. Sull’aspetto nuziale si sofferma invece Francesca Curti, con le Nozze di Peleo e Teti di Giovanni Francesco Romanelli.  

 

 

 

          Il volume termina dando una svolta diacronica al percorso dei numerosi interventi. Ilaria Calisti indaga la scrittura cromatica e tendente all’ut pictura poesis – dietro l’influenza longhiana – della scrittrice novecentesca Maria Bellonci, autrice di un romanzo su Lucrezia Borgia. Un’apertura cronologica è quindi attuata all’interno di un ciclo di conferenze che, sebbene apparentemente strette in un lasso di tempo specifico, cercano di ravvisare influenze inedite e nuovi spiragli d’analisi.

 

 

          In conclusione, nonostante la varietà dei saggi, l’ambito estense del XV e del XVI secolo si presenta ancora oggi come fonte di dubbi e d’interrogazioni che interessano settori estremamente diversi tra loro. Numerose appaiono, infatti, le questioni che andrebbero affrontate specificamente, e che purtroppo non possono trovare spazio in un unico volume. Restano difatti aperte le indagini, in parte intraprese da Marco Folin, sull’analisi delle architetture presenti sugli affreschi degli scomparti bassi del Salone dei mesi. Inoltre, accanto alla figura di Prisciani, andrebbero certamente ricercati ulteriori collaboratori direttamente implicati nella concezione ideologica degli affreschi del Palazzo Schifanoia. Sul Prisciani stesso, del resto, ancora troppo poco è stato fatto, benché sia considerato da più di un secolo una figura di centrale interesse per comprendere la filosofia artistica all’epoca di Borso. Si tratta però solamente di suggestioni le quali, come accennato, non potevano essere inglobate in un unico ciclo di conferenze, ma che necessitano, prima o poi, di essere intraprese.  Il volume riesce in ogni modo a riassumere la complessità del dibattito incentrato attorno alle relazioni interdisciplinari di cui l’epoca rinascimentale rappresenta, senza tema di smentita, uno dei cenacoli di più intenso sviluppo, perpetuando la ricerca in direzione inedita e apportando certamente una migliore comprensione delle forme paradigmatiche –  artistiche, politiche e letterarie – della corte Estense.