| Frommel, Sabine - Bardati, Flaminia (dir.): Francesco Primatice, architecte (1503-1570). Collection De Architectura. 21 x 27 cm. 352 pages, 300 ill. dont 25 en couleurs. ISBN 2708408542. 75 € (65 € jusqu’au 31.07.2010). (Picard éditeur, Paris 2010)
| Reseña de Paolo San Martino Número de palabras : 1090 palabras Publicado en línea el 2010-11-22 Citación: Reseñas HISTARA. Enlace: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1122
Julius von
Schlosser quando diede alle stampe l’edizione italiana della sua celebre Letteratura
artistica si disse felice di ritrovare quella che secondo lui era la lingua
propria del libro. Lo stesso può dirsi di questo ponderoso volume curato da
Sabine Frommel con la collaborazione di Flaminia Bardati, che
restituisce il primo architetto moderno di Francia nell’edizione francese.
La mostra
di Parigi del 2004 aveva posto l’accento sulla centralità di Primaticcio, ma è
con le iniziative della successiva esposizione bolognese, nella patria del
Primaticcio, che si affrontava il problema sino ad allora irrisolto
dell’architettura.
Il
presente libro approfondisce temi e problemi dell’architettura di Primaticcio
in Francia ed è arricchito da nuove, importanti acquisizioni. La nutrita
bibliografia sul pittore, scultore e architetto non ha mai preso seriamente in
considerazione la sua attività di costruttore anche perché la definizione del
catalogo delle sue opere, rimaste molto spesso incompiute o scomparse, trovava
difficoltà nell’esegesi dei disegni. Primaticcio restava un problema filologico
imponente, tanto che Adolfo Venturi, nella sua monumentale storia dell’arte
italiana, non lo inserisce tra gli architetti e ne parla quale debole pittore,
che gratta con la lima bastarda il plasticismo di Giulio Romano e le finezze
introverse del Rosso: insomma un disegnatore di silhouette molli e sdolcinate.
La sua architettura era oggetto di infinite discussioni dall’intervento nel
cantiere di Fontainebleau alla restituzione della Rotonda dei Valois.
Il libro
ha il merito di presentare in prospettiva la stratificazione storiografica
(come fa molto bene Flaminia
Bardati) dando risposte molto convincenti ai ricorrenti
quesiti attributivi e culturali sull’artista (si veda l’ampio percorso
tracciato da Sabine Frommel).
Giorgio
Vasari, biografo in progress del Primaticcio, colloca l’artista in un
preciso ambiente artistico e sociale, ne sottolinea la discendenza dai
protagonisti della Maniera, lo circonda d’un atelier di valorosi artefici e lo
eleva a fiduciario dei Re di Francia, che si serve dei suoi differenti talenti
e della sua capacità di coordinatore e negoziatore. Della tradizione
tosco-romana, in cui Michelangelo è il vertice, raccoglie l’eccellenza del
disegno, e lo stesso biografo aretino ricorda «una carta di sua mano dipinta
delle cose del cielo, la quale è nel nostro libro e fu da lui stesso mandata a
me, che la tengo, per amor suo e perché è di tutta perfezione, carissima».
Come un
Sebastiano del Piombo, ma senza retroscena moralistici, Primaticcio è vissuto
« non da pittore et artefice, ma da signore », tanto da risultare « molto
amorevole ai nostri artefici », che « lo chiamano et onorano come padre ».
Di diverso
parere Baldinucci, che cita brani della Vita celliniana allora inedita:
l’animoso scultore che criticava la « mala maniera Franciosa », riconosce al
« Bologna » di avere « assai buon disegno » ma ciò che « faceva di buono, l’aveva
preso dalla mirabil maniera » del Rosso. Secondo lui Primaticcio briga, con
l’appoggio di Madame d’Etampes e della corte, per tagliarlo fuori dalle
commissioni più importanti a Fontainebleau. Primaticcio lo accoglie nella sua
casa con affettate « Lombardesche accoglienze » ma venuto al sodo avrebbe detto
al rivale: « Oh Benvenuto, ognun cerca di fare il fatto suo in tutti i modi che
si può ».
Ci
troviamo di fronte quasi ad un topos dell’accesissima competizione tra
gli artefici del Rinascimento. Vasari che aveva subìto a Firenze l’ostracismo
della « setta del Tasso », l’amico di Cellini, stava dalla parte del bolognese e
sorvola, o ignora, le scellerate intemperanze non verbali dell’autore del Perseo.
Al di là
delle dispute municipalistiche (Bolognini Amorini parteggia per il nostro
contro il « facinoroso orefice ») resta da stabilire il quesito capitale per la
storia dell’arte; chi ha introdotto per primo la « bella maniera » in Francia.
Per molti è Primaticcio l’iniziatore di quel classicismo che approdando al Gran
Goût e all’eclettismo settecentesco, porterà la Francia a nuovi primati
nell’arte. Il fatto non è da poco. Se Primaticcio viene dopo Leonardo, Rosso e
convive faticosamente col Cellini, non v’è dubbio che è lui ad imprimere una
svolta anche quantitativa al processo di modernizzazione dell’arte francese.
Rosso
appartiene a quella generazione di eccentrici su qui si sono dilungati
Wittkower e Zeri. Un battitore libero, un solitario talento dall’estro
imprevedibile, non certo un organizzatore artistico. Primaticcio proviene da
tutt’altro mondo: da buon emiliano si accosta al raffaellismo felsineo e avrà
riferimenti nel Bagnacavallo quanto in Girolamo da Carpi, in Garofalo. Ma è il
contatto col metodo raffaellesco frequentato a Mantova presso Giulio Romano che
lo matura. Il gusto per un disegno senza errori, minuto, dalle dolcezze
parmigianinesche, si innesta su un’arte di grandi superfici per grandi
fabbriche e l’organizzazione del cantiere accoglie gentilmente il frutto
migliore del Rinascimento.
In
italiano si dice primaticcio il frutto che matura prima degli altri. E
Primaticcio, nomen homen, porterà la primizia della Maniera moderna in
Francia. Un risultato fondamentale, che getta i semi d’una pianta germogliata
nella scuola di Fontainebleau e cresciuta robusta nel secolo delle manifatture
reali.
Sarà un
caso ma la toponomastica di Parigi colloca rue Primatice (fra i pochi artisti
italiani celebrati) al centro del tridente di Place d’Italie, accanto ad Avenue
des Gobelins. Ancora un secolo dopo il proto neoclassico di Claude Perrault
convive col tradizionalismo degli ultimi esiti gotico flamboyant e la
lingua del classicismo italiano viene tradotta anche troppo puristicamente per
chi deve fare i conti con strade strette e vecchi edifici; sarà poi il XVIII
secolo a sciogliere definitivamente un nodo stilistico che nei paesi
anglosassoni non verrà mai del tutto risolto.
Nella
Grotte des Pins L’architetto si dimostra degno discepolo di Giulio Romano
monumentalizzando l’ordine rustico, con esiti accolti o paralleli di
Sanmicheli, Serlio, Vignola, di Tasso nella porta di via Leoni a Firenze, nelle
ville venete e nelle porte urbiche di Verona. Un’idea forte, chiaroscurata, da
pittore, che contasta la geometria e la travata ritmica del Castello.
Nella
ricostruzione del Mausoleo dei Valois emerge tutta la pratica antiquaria, la
teoria architettonica e la sintesi compositiva del Rinascimento italiano. La
pianta centralizzata è la massima aspirazione del tempo, la forma di una
perfezione cosmologica racchiusa nel cerchio e nel quadrato vitruviano.
C’è un filo che riannoda Vasari a Du Cerceau, Percier a Geymüller,
Dimier a Frommel, ed è la consapevolezza della centralità della figura di
Primaticcio nel Rinascimento maturo non solo in Francia, dove, secondo Chastel,
la sua presenza fu decisiva per tutti i settori artistici tra il 1540 e il
1570. Quando il versatile artista viene nominato « Surintendant général des
bâtiments », il 12 luglio 1559, è definito « bon et suffisant
personnage…expérimenté et entendu en l’art d’architecture », circoscritto, in un
certo senso, nella formula ambivalente, e molto amata da Vasari, del
professionista. Ma è proprio quello di cui ha bisogno il re: maestri, tecnici
versati in tutte le arti (come Leonardo a cospetto del Moro), come farà ancora
Louis XIV, con Le Brun e gli italiani nelle manifatture. E’ la personalità di
Primaticcio ad emergere da questo confine quasi ingegneresco: la sua arte, la
sua sensibilità ci parla ancora a dispetto dei secoli e se il messaggio ci
giunge chiaro e intellegibile, lo dobbiamo agli autori di questo bel libro
amorevolmente stampato dall’editore Picard.
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