Peña Cervantes, Yolanda: Torcularia: La producción de vino y aceite en la Hispania romana. 279 p. col. : 61 il. i 21 t. ; 1 cd-rom amb 765 p. i 336 il. Text en castellà. Resum en anglès. ISBN: 978-84-937734-1-0. 65 €
(Institut Català d’Arqueologia Clàssica, Tarragona 2010)
 
Compte rendu par Maurizio Buora, Società friulana di archeologia
 
Nombre de mots : 1705 mots
Publié en ligne le 2011-05-23
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Tutti sanno quanto siano importanti dall’antichità a oggi prodotti tipicamente mediterranei, quali il vino e l’olio, che costituirono e costituiscono ancora una fondamentale base non solo per l’alimentazione ma anche per l’economia di ampi territori. Nella loro storia di lunga durata ci sono  dettagli assai curiosi. Prendiamo, ad esempio, il famoso vino Pedro Ximenez del sud della Spagna: nel sito www.pedroximenez.es leggiamo che esso avrebbe avuto origine alcuni secoli fa. A questo proposito tra le numerosissime notizie che l’A. fornisce in questo volume si dice  che  è del tutto analogo al passum romano e che il medesimo processo di produzione è di origine punica (p. 172). Una riflessione sul passato aiuta, anche in questo caso,  a comprendere il presente.

 

          Il volume  espone i risultati di una tesi di dottorato elaborata dal 2003 (p. 21) e pubblicata nel 2010. In esso  “la autora realiza un extraordinario esfuerzo de catalogación del vino y del aceite ein Hispania”, come sostiene, con parole sommamente laudative (p. 17),  Carmen Fernández Ochoa.

 

          L’interesse per le strutture produttive si afferma in Europa e nel mondo mediterraneo solo  a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, mentre negli anni Novanta si registra una “archeologia del vino “ (p. 26), che si giova del confronto con le ville vesuviane, le quali documentano tutte le fasi della produzione vinicola.

 

          L’opera, di ampia impostazione, segue e perfeziona sul suolo iberico molte indagini di Brun (in bibliografia sono citati 27 contributi suoi o pubblicati in collaborazione con altri) che è stato un pioniere di queste ricerche in Provenza a partire dalla metà degli anni Ottanta, in contemporanea con l’interesse che lo Tchernia manifestava per la produzione vinicola in Italia. Essa si presenta come una lettura storica e archeologica delle infrastrutture. Al volume cartaceo, che dopo aver trattato i processi di trasformazione del vino, dell’olio e i sistemi di torchiatura (p. 29-49) si diffonde su un’analisi tecnologica (p. 65-90) e quindi su un’analisi storica (p. 151-194), è annesso un CD, con 764 pagine che analizzano gli impianti considerati. Per ogni impianto è redatta una scheda, ovviamente di lunghezza diseguale a seconda dei dati disponibili. Essa contiene nell’intestazione una serie di campi definiti (provincia, tipo di insediamento, metodo di indagine effettuata, cronologia, stato dei resti e prodotto) con descrizione, a volte accompagnata da disegni, e bibliografia.

 

          La premessa è che gli impianti per la torchiatura dell’uva e delle olive sono del tutto simili. Il concetto viene ripetuto più volte nell’opera, che si avvale delle  attestazioni disponibili, in gran parte da indagini di superficie. Come dunque distinguere tra l’una e l’altra produzione, quando non sussistano impianti fissi per la conservazione delle olive o per la conservazione e fermentazione del vino e il suo stoccaggio? Occorrerebbe affidarsi alle analisi chimiche dei piani di lavorazione (rare) con risultati  talora ambigui (p. 49). D’aiuto sono anche le indagini palinologiche e carpologiche. E’ indubbio che  mentre la vite è coltivabile in tutta la Spagna, l’olivo ne interessa solo la metà meridionale. Inoltre chiare tracce archeologiche di  impianti specifici  – ovvero resti murari indubbi – possono essere ipotizzati solo nella produzione su larga scala, mentre per l’autoconsumo potevano essere utilizzati torcularia più piccoli, in legno, facilmente trasportabili. C’è una evidente asimmetria, in quanto per l’epoca romana si dispone di (poche) fonti letterarie e di una documentazione archeologica relativamente abbondante che ovviamente per le età anteriori si fa molto più scarsa. Ciò porta a  ritenere che in età preromana al posto della torchiatura con impianti fissi si usasse soprattutto la pigiatura coi piedi, che può essere sopravvissuta a lungo senza lasciare alcuna traccia.

 

          Tutto ciò premesso, l’A. studia un complesso di 551 giacimenti (p. 22) che se non rappresentano tutto quanto un tempo fosse utilizzato, offrono nondimeno una campionatura sufficientemente ampia, che si allarga a tutta la penisola iberica, comprendendo anche il Portogallo e Andorra.

 

          L’accurata analisi condotta dall’A. sui resti archeologici disseminati nella penisola iberica ha condotto a una sintesi storica di grande interesse, che qui si sintetizza per comodità del lettore.

 

          L’analisi storica, seguendo il Brun,  prende le mosse addirittura dalla preistoria e precisamente dall’inizio del VI millennio a. C., quando in  Georgia è documentata la vite, cui fa seguito la produzione del vino almeno intorno al 5800 a. C. a Çatal Höyük. Più difficile pare seguire il percorso della domesticazione dell’olivo, presente fin dal Paleolitico, ma forse coltivato per la produzione dell’olio sulla costa siro-palestinese dal 3700-3500 a. C. Nella penisola iberica pare che la coltivazione delle due piante sia stata introdotta con la colonizzazione fenicia, nell’VIII sec. a. C.: da quell’epoca furono prodotti localmente vino e olio (p. 157), persino in luoghi rupestri (p. 154). L’aristocrazia iberica pare aver prodotto e commercializzato il vino fin dal VI sec. a. C.

 

          In alcuni momenti storici produzione e importazione di vino non si escludono reciprocamente, ma si integrano in maniera complementare (p. 13). Spesso per la produzione eccedente di vino si fabbricano anfore, di cui restano alcune fornaci (p. 154).

 

          Molti indizi fanno pensare che la produzione del vino e dell’olio grazie anche agli apporti punici, fosse molto sviluppata in età preromana. Valga per tutti il caso del molino rotatorio cilindrico, citato da Catone (De agr., 10.4) come mola hispanica, che in seguito si sarebbe affermato in tutto il Mediterraneo per i cereali oppure quello del vino locale detto coccolobis (citato da Plinio il Vecchio e Columella), presumibilmente anteriore alla conquista romana.

 

          Lo sviluppo della viticoltura nel nord-est si manifesta in seguito a un influsso italico (p. 158); esso si manifesta fin dal II sec. a. C. con innovazioni tecnologiche, come ad es. l’introduzione di grandi contenitori ovoidi seminterrati per la fermentazione del mosto (dolia de fossa) (p. 161), mentre permangono elementi della tradizione indigena, ad es. nei contenitori ceramici cari alla popolazione indigena. In quel tempo pare di poter individuare installazioni produttive realizzate con chiari intenti speculativi. Alla fine del I sec. a. C. entra in crisi il modello della piccola proprietà, rappresentato da insediamenti rurali di piccole dimensioni.

 

          In età augustea paiono aver avuto importanza gli investimenti della classe senatoria e l’immissione di nuovi immigrati in seguito alle redistribuzioni di terra agli ex soldati (p. 159). In quel tempo si ristruttura la produzione del vino con un evidente incremento del volume commerciale del prodotto e l’introduzione di nuove forme anforiche, quali la Dressel 2-4. Tuttavia la maggior parte degli apprestamenti costruiti nella seconda metà del I sec. a. C. o in età augustea (area del nord-est e Levante) posti in relazione esclusiva con la commercializzazione del vino, entrano in crisi alla fine del I sec. d. C., mentre lo stesso non accade alle villae, che mantengono la loro produzione e la incrementano nel corso del II sec., e alcune ancora nel III, forse perché poggiano su una base economica più completa e perciò in grado di resistere meglio ai cambiamenti.

 

          Per l’olio della Tarraconense parlano le anfore olearie fabbricate nel territorio (imitazioni di Dressel 20 prodotte fin dall’inizio del I sec. d. C.) ma le condizioni climatiche fanno escludere una produzione estensiva e abbondante. Diversa la situazione della Betica, per cui le fonti scritte (anche tramite il gaditano Columella) e archeologiche (anfore Haltern 70, dall’età augustea,  e Beltràn 68, fino alla fine del IV sec.) ci danno molte informazioni, mentre gli scavi hanno indagato un solo torcularium per vino (p. 171-172). Estremamente significativo è il fatto che in questa regione si mantenga il processo di vinificazione descritto da Columella e probabilmente più antico. La scarsità di scavi e il fatto che probabilmente molte strutture di pigiatura erano lignee impedisce di riconoscere gli impianti nei luoghi di produzione, tanto per il vino quanto per l’olio. Il Monte Testaccio – ove si è calcolato che fossero raccolti i resti di circa 25 milioni di anfore - è prova eloquente delle importazioni di olio dalla Betica Roma fino alla metà del III sec. La cessazione di anfore Dressel 20 sul Testaccio, tra 247 e 255) non significa, come ha dimostrato J. Remesal, la fine della produzione betica, quanto una riorganizzazione dell’annona, per cui la Betica da allora rifornisce la Gallia e il limes, mentre il Nordafrica rifornisce Roma. Nella valle del Guadalquivir sappiamo che esisteva un funzionario superiore, il procurator ad ripam Betis, incaricato di mantenere la navigabilità del fiume (p. 175), cui forse accedevano da punti determinati – anche per un eventuale controllo fiscale – i carichi. Purtroppo anche in quest’area le informazioni si devono sostanzialmente a indagini di superficie (a partire da quelle svolte dal Ponsich) la cui affidabilità è relativa.

 

          Anche a Malaga pare esistessero piccole fattorie dedite prevalentemente alla produzione dell’olio. Lo schema della produzione e del consumo fin qui esposto pare poter valere anche per altre regioni, ad es. per la Lusitania, ove peraltro abbondano i contrappesi per i torchi.

 

          Di grande interesse l’alto numero di installazioni (47 documentate) per la produzione del vino e dell’olio nei secoli IV e V. Esse risultano integrate nel processo di monumentalizzazione delle ville che si manifesta tra fine III e inizio del IV sec. ma paiono destinate più all’autoconsumo che all’esportazione; diverso naturalmente è il caso dell’olio betico.

 

          Si notano anche alcuni fenomeni di vasta portata, come la creazione dei latifondi, specialmente in area catalana. Molto interessante è la conversione degli spazi da un uso residenziale a uno produttivo, spiegabile, forse, con il cambiamento dei proprietari: impressionante è il caso della cella vinaria di Mataró (figura 48 a p. 142) dove il pavimento musivo viene rovinato per l’inserimento dei dolia. Terzo aspetto di grande interesse, documentato nel suburbio dell’antica Tarraco, è il grande complesso formato da una basilica, alla metà del V secolo, con atrio e impianti destinati alla torchiatura. In epoca romana si mantengono la produzione e l’esportazione (in anfore Dressel 23) dell’olio della Betica, ma con volume ridotto.

 

          Ancora minori sono i dati disponibili circa la produzione di vino e olio  nei secoli VI e VII, cui appartengono solo sette nuovi torcularia (p. 192), localizzati nel nord-est e nelle Baleari. Questi dati si inseriscono nel dibattito circa la fine delle villae, che dalla metà degli anni Novanta è stata progressivamente spostata nel tempo. Tuttavia in Lusitania sembra di osservare una persistenza degli insediamenti e della produzione fino alla conquista araba.

 

          Il volume presenta, dunque, un’enorme documentazione e si giova anche di una  bibliografia che occupa 47 pagine finali, con ben 1700 titoli. Il testo, molto chiaro ed esauriente, è accompagnato da nitide carte di distribuzione (da p. 205 a p. 212) che da sole sono in grado di sintetizzare e chiarire la struttura del discorso.

 

          L’opera ha il duplice merito di inquadrare gli elementi archeologici – qui in gran numero e analizzati dettagliatamente – in un quadro economico molto puntuale e convincente che diviene di per sé una trattazione storica. Indagine archeologica e dati storici sono dunque integrati in maniera indissolubile e difficilmente superabile finché non sarà stato oggetto di scavo e di trattazione analitica (quando?) un numero di impianti tale di permettere analisi più sofisticate o di integrare/modificare i dati qui esposti.