Coen, Paolo: Il mercato dei quadri a Roma nel diciottesimo secolo la domanda, l’offerta e la circolazione delle opere in un grande centro artistico europeo. 17x24 cm , 2 tomi di 816 p, 80,00 €, ISBN 978-88-222-5895-3
(Leo S. Olschki, Venezia 2010)
 
Recensione di Paolo San Martino, Università degli Studi di Torino
 
Numero di parole: 1087 parole
Pubblicato on line il 2011-06-29
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1209
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          Questo imponente, analitico lavoro sul mercato d’arte a Roma nel Settecento, si inserisce nella decennale attenzione di Paolo Coen su un fenomeno ancora piuttosto malnoto, specie anteriormente al XIX secolo. I saggi di Coen sui calcografi Giuseppe e Mariano Vasi (2001), su mercanti quali James Byres of Tonley (2002), Giuseppe Sardi (2004), Ludovico Mirri (2006 e 2008), Giovanni Rumi e Giovanni Barbarossa (2006), oltre a riflessioni sull’ambiente di Caravaggio, Cozza e Piranesi (2009-10), dimostrano la continuità e lo spessore delle ricerche, che hanno consentito un esito così originale.

 

          In una prospettiva da storia sociale dell’arte, Coen analizza, con una potente lente d’ingrandimento, l’ambiente artistico in cui si muovono attori d’ogni tipo e con variegati interessi.

 

          L’indice del libro (composto da due tomi, il secondo occupato interamente da una copiosissima appendice documentaria) è programmatico. Dopo una densissima introduzione che ricostruisce i meccanismi del mercato sin dall’alto Medioevo, la prima parte è dedicata agli individui che operano nel commercio, ovvero «quadrari», rigattieri e negozianti. Seguono gli artisti mercanti, categoria tipica, gli esperti, ossia «intendenti», eruditi e collezionisti, e la costellazione pulviscolare ma non meno efficace dei mediatori e sensali, una terminologia ancora valida per l’Ottocento. La seconda parte riguarda l’impresa ed in primis la merce, la sua provenienza e restauro, il pubblico e i luoghi della vendita.

         

          Sulla traccia feconda di Arnold Hauser, Martin Wackernagel, Francis Haskell e Luigi Spezzaferro, Coen legge il fenomeno artistico nella sua complessità sociale, superando l’isolamento dell’intuizione d’arte. L’artista non è solitario, e questo vale sia per l’homo faber, che si realizza con più o meno estese collaborazioni, sia e soprattutto per l’homo oeconomicus.

 

          Un mercato per funzionare deve fondarsi su un equilibrio di domanda e offerta e sulla presenza continuativa di merce. Il mercato d’arte non sfugge a questa regola generale, che vale ancor’oggi per l’arte contemporanea ma molto meno per quella antica, che manca di merce. Di qui un meccanismo di prezzi distorto e un graduale esaurimento del commercio per mancanza di materia prima.

Si pensava che la nascita di un moderno mercato artistico risalisse soprattutto al Seicento olandese, dove i mercanti sono il medium fra artisti e collezionisti. Coen dimostra che il fenomeno è più antico e che comunque nella Roma settecentesca accanto al rapporto privilegiato artista-mecenate, v’è una rete fitta che si configura come un’attualissima forma di intermediazione, che possiamo dire giunga intatta sino alle soglie del Novecento, quando figure quali Grubicy de Dragon, e poche altre, introducono il metodo parigino del vincolo contrattuale fra artista e gallerista.

 

          Il mercante che agisce a Roma nel XVIII secolo è figura solo in parte indistinta: i quadrari si specializzano in quadri, rigattieri e negozianti offrono una mercanzia variegata. I sensali hanno altre professioni è trattano affari più o meno cospicui, mentre gli agenti sono spesso stranieri che operano nell’Urbe per conto terzi. Rispetto alle altre città italiane Roma, e in parte Venezia e Firenze, può avvalersi della componente del gran turismo soprattutto anglosassone che determina una domanda costante di merce, non solo antica. E’ un processo di modernizzazione economica che era stato sinora piuttosto sottovalutato.

 

          Gli artisti hanno molteplici inclinazioni. Restaurano e vendono, fanno da intermediari. Si inizia a distinguere quello che nel secolo successivo diventerà l’intelligente d’arte. Ovvero l’intendente, lo studioso erudito e il sapiente raccoglitore. Sinora si immaginava il collezionismo romano come raccolta d’anticaglie in cui artisti-eruditi quali Piranesi, svettano nei rapporti con la clientela straniera. Il libro mostra quanti e quali fossero gli interessi per l’arte, non limitati soltanto all’Antico e a Raffaello ma anche alle opere moderne. Carlo Maratta non fu solo il grande continuatore del classicismo romano di Raffaello, Carracci, Reni, l’accorto restauratore della Loggia di Psiche, della Galleria di Annibale e delle Stanze, ma anche un grandissimo imprenditore artistico. Coen ci spiega come la sua attività commerciale si dividesse in due segmenti di mercato, uno d’alto prezzo svolto nella sua principesca casa alle Quattro Fontane, dove trattava Bellini, Sacchi, Poussin, Domenichino e intratteneva grandi compratori quali i cardinali Corsini e Barberini e il marchese Pallavicini. L’altro sovrainteso dalla compagna del Maratti, Francesca Gommi, che vendeva pitture degli allievi, copie, dipinti moderni. L’indirizzo stilistico della compagnia commerciale era quello classicista, la gestione efficientemente familiare, diretta dalla ponderata, equilibrata sensibilità del pater familias (sia pure morganatico).

 

          Altro protagonista è il cavalier Pier Leone Ghezzi, che si ritrae nel disegno Congresso degli antiquari di Roma (Vienna, Albertina), in cui recita la parte del corretto venditore, autopromovendo la sua immagine di cultore della materia, che sarà alla base della fortuna del suo commercio. Vende antichità e frequenta figure eminenti, seleziona opere e ha un magazzino di 800 unità tra dipinti di maestri, copie d’autore e quadri d’arredamento, questi molto meno dispendiosi. La fortuna delle copie fa molto pensare sugli attuali cataloghi di antichi maestri, dove l’altalenante qualità delle opere è sovente frutto di una decennale superfetazione attributiva.

 

          Agli inglesi pensavano personaggi come John Byres e Gavin Hamilton. Soprattutto quest’ultimo, che oltre a essere notevole pittore, fu studioso antiquario, archeologo con Jenkins e Piranesi, letterato artistico, cicerone e punto di riferimento per gli acquisti più sontuosi, fra cui la Vergine delle Rocce pervenuta alla National Gallery di Londra, nella versione "depredisiana" dell’originale leonardesco del Louvre. Piranesi e Hamilton uniscono i loro diversi talenti nel promuovere opere proprie, di proprietà o della loro ristretta cerchia. A questa polivalenza non potevano far ricorso gli intendenti tout-court quali Francesco Ficoroni, famoso per la Cista di Villa Giulia, erudito e vorace raccoglitore.

 

          Il cardinal Albani non fu da meno ma si muoveva soprattutto sul piano dell’alta diplomazia. Protettore degli artisti piemontesi, è al centro di una rete culturale in cui si intrecciano figure di grande interesse.

 

          Fra gli intermediari sono anche da ricordare il Panini e specialmente l’incisore Vasi, l’autore delle Magnificenze di Roma antica e moderna. Col sorgere dell’astro piranesiano cala il già maestro, divenuto satellite, Giuseppe Vasi. E allora che le diminuite entrate del suo primo mestiere vengono rimpinguate dagli introiti derivanti dal commercio d’arte come pure dalla vendita dei Marmora Romana. abbandonati da più d’un millennio nel porto delle pietre al Testaccio.

 

          Qual è allora il ruolo dell’artista a fronte di queste invadenti strutture economiche? La risposta la dà Enrico Castelnuovo, nella dotta prefazione al libro, citando Michael Baxandall: l’«artista non ha bisogno di diventare una creatura del mercato. Può scegliere quali richieste esaudire, può rispondere ad alcuni dei suoi suggerimenti, ignorarne altri, capovolgerne in maniera ironica altri ancora», come ci insegna la lezione, ora restituita, degli Scherzi d’artista.