Zarka, Samuel: Art contemporain : le concept. 224 pages ; 200 x 135 ; Collection "Intervention philosophique" N° d’édition : 1 ; ISBN : 978-2-13-057700-3 ; 26.00 €
(Presses Universitaires de France, Paris 2010)
 
Recensione di Laura Fanti, Università La Sapienza (Roma)
 
Numero di parole: 1961 parole
Pubblicato on line il 2014-01-14
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1343
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          Un libro coraggioso, L’art contemporain: le concept di Samuel Zarka, uno studioso molto giovane alle prese con importanti, nel senso di impegnative, questioni legate non solo al concetto di arte contemporanea, ma anche ai travisamenti, alle mistificazioni, agli evitamenti, ai lutti e agli oblii che travolgono il sistema ad esso connesso, non ultimo l’artista. Lo scopo è di ricostruire la genesi dell’arte contemporanea intesa come un mondo, di cui componente fondante è il processo di produzione (l’autore insiste spesso sulla produzione e su quanto le varie estetiche, teorie institutionnalistes - p. 11- abbiano allontanato dall’analisi dei suoi processi) e dove l’arte è essa stessa un prodotto (p. 15).

 

          La complessa articolazione del volume è da subito indice delle ardite ambizioni dell’autore, il quale non teme di rifarsi esplicitamente a un’analisi hegelienne et marxiste (p. 1) nel seguire il significato del concetto di arte contemporanea nel suo svolgersi storico, e più volte è critico nei confronti del neo-kantismo espresso dal formalismo di Greenberg, oggetto di un’approfondita disamina nella seconda parte del libro[1]. Ma anche dalla sua traduzione nella Sociologia mediata dalla Fenomenologia di Husserl, in particolare in Pierre Bourdieu, di cui Zarka lamenta il fatto che “l’oggettività del fatto sociale viene ridotto alla soggettività dell’apprezzamento[2]”.

 

          Le parte storica prende in esame i “processi di produzione-consumazione dell’arte, cercando di ricostruire le possibilità di significato in base alla trasformazione della borghesia e dei suoi “gusti”, attraverso quella che l’autore chiama una dialettica del frivolo e del serioso[3], spesso riferita alla distinzione di classe, dove l’arte si inserisce come gioco ludico e merce, dove il plus-valore va a formare una sorta di potlach (p. 23), e dove si rivede Bourdieu secondo i processi di produzione.

 

          Un case study esemplare è rappresentato dal sistema dell’arte statunitense post-bellico, che codifica l’arte contemporanea non solo come stile ma come fatto sociale (p. 26), nello specifico con Peggy Guggenheim e con le sue scelte, di cui l’ascesi di Jackson Pollock rappresenta l’acme, sia per aver sostituito al concetto di opera l’azione sia per aver fatto uscire gli USA dal regionalismo (pp. 25-38). La critica più forte di Zarka alla Guggenheim è quella di aver fatto allontanare al massimo grado l’arte dalla produzione e di averla mediata eccessivamente con il denaro (p. 30), in questo modo l’arte diventa una “giustificazione delle altre espressioni della libido, del ludico[4]”. Non da meno è la questione della mercificazione del “bene artistico”, generata secondo Zarka sempre dall’ideologia statunitense (pp. 40 e segg.) e la nascita dell’istituzionalizzazione di un’arte americana attraverso grandi capitalisti (pp. 44 e segg.).

 

          Complesso il secondo capitolo, Genèse de l’<art contemporaine>- Les années 1950-1980, dove si tenta l’esame del rapporto tra produzione e classi sociali medie, la nascita dell’ideologia del desiderio (p. 53), che non fa che aumentare il divario tra gli strati sociali: le esigenze degli strati più bassi diventano le stesse di quelli più alti ma rimangono inevase. Inoltre con il ‘68 la trasgressione estetica non è più appannaggio dell’artista ma delle masse studentesche (p. 57); a ciò Zarka fa seguire il concetto “il divenire dell’arte si lega all’espansione economica[5]”, saltando dei passaggi logici.

 

          Negli anni Sessanta l’espansione di una “contro-cultura” genera un momento di crisi: da una parte gli happening, il comportamentismo, ecc. allontanano dall’idea dell’arte come feticcio, dall’altra tutto può diventare arte, “Quando si esprime il frivolo, la realtà del codice, ossia il significato delle espressioni che esso media nella dialettica del sistema produzione-consumazione, è dimenticato[6]”.

 

          Dalla fine degli anni Settanta l’alienazione dell’artista è esasperata: con l’arte concettuale l’allontanamento dalla produzione è massima e l’artista “dirige la produzione del plusvalore, in qualità di manager[7]”. In questo Zarka coglie sicuramente uno dei nodi più forti della contemporaneità dove il curatore – da lui chiamato agente (p. 74)  - e l’artista a volte si trovano a rivestire un medesimo ruolo. Ovviamente le mostre non fanno che accentuare questa mercificazione dell’arte (pp. 80 e segg.), ma qui l’autore non include affatto tutta l’arte di ricerca ma solo quella inserita “nel sistema”.

 

          Nel terzo capitolo della prima parte Zarka dà il via a una serrata analisi del mondo speculativo , dove “la produzione dei profitti diviene finalità senza fine, estetica: prassi secondo uno spazio totalmente artificiale, il cui condizionamento logico e materiale è negato”, “la <crescita> è crescita attraverso il significante. E deterioramento della produzione[8]”. I mercati finanziari lavorano sull’incoscienza di classe, sulla persistenza dell’irrazionalismo, da cui nasce il désir de l’atome (p. 93) e l’arte “interviene come momento della dialettica immanente del frivolo finanziarizzato[9]” che non fa che aumentare il divario tra le classi. Su questo Zarka mette in campo una lucidità alla quale non possiamo che associarci, presente anche nell’analisi ferrata del mercato dell’arte “finanziarizzata” (pp. 97-107), dove mercante e fiere d’arte sono letti con occhio fine e a volte sarcastico (p. 101);  non teme neanche di parlare dell’esclusione delle case d’asta a tali manifestazioni per una politica di protezione del mercato interno e per mantenere il proprio status quo simbolico e commerciale (p. 102).

 

          Nel sistema dell’arte i mercati  non si preoccupano solo di vendere ma anche di ottenere una acquisition institutionnelle per poi ostentare un’ideologia (p. 105). Nel frattempo le istituzioni stanno perdendo autorità nella qualificazione dell’arte in quanto tale (p. 106).

 

          Molto interessante e pertinente l’osservazione della coesistenza di un’idea di nazionalizzazione e fruizione pubblica del museo e di una privatizzazione estetica[10]. Un po’ più debole l’esame dei vari attori del sistema dell’arte, in particolare del mondo della critica, letto con una lente un po’ appannata e in modo eccessivamente icastico (pp. 110 e segg.).

 

         La seconda parte (Estetica) prende in esame i codici culturali, gli oggetti d’arte come forme e come parti di un discorso in cui giocano l’intenzionalità dell’artista nei confronti dell’istituzione e solo alla fine le varianti semiotiche dell’arte. Il fondamento storico del codice istituzionale è rinvenuto nell’ontologia soggettiva di Husserl, una forma di neo-kantismo, dal quale deriva un rapporto con il reale caratteristico dell’incosciente di classe (p. 118).

 

          Il primo capitolo (Le caractère fétiche de l’objet d’art et son secret) mette in evidenza come dalle avanguardie storiche in poi ci si sia allontanati dai processi di produzione e dopo il secondo conflitto si sia passati dal “giudizio sul frivolo che si esprime dopo il serio” alla serietà del frivolo, incarnata ancora una volta dalla Peggy Guggenheim (p. 122).

 

          La negazione della storia e della storicità è al suo massimo grado nella critica di Greenberg, lo studioso americano formalista, difensore dell’astrattismo e del minimalismo americano e di un’idea di essenzialismo dell’arte espressa attraverso la sua purezza a-storica (p. 127), seguendo la filosofia di Kant, più quella della Critica della ragion pura che della Critica del giudizio. Da qui deriva la differenziazione di una cultura autentica da un’altra che non lo è, una differenza tra i gusti dei vari strati sociali, che riconducono il critico a una sorta di materialismo involontario (pp. 135 e segg.), dove si distingue il bello dal kitsch, prodotto di sottocultura per una popolazione “insensibile”.

 

          Altra contraddizione che Zarka trova in Greenberg è quella tra il suo formalismo e la sua idea di artista come ribelle, contraddizione che si esprime anche nel fatto che l’artista è costretto ad “odiare” la borghesia ma ne ha un gran bisogno per la sua sopravvivenza (p. 128).

 

          Greenberg inoltre non avrebbe fatto altro che dimostrare la superiorità dell’arte astratta tramite la sua insistenza nel presente storico. Il suo maggior merito sarebbe quello di aver fatto trapassare il noumeno nel fenomeno, nell’empirico, nel sensoriale (p. 140). Ma, aggiungo, non ci aveva già pensato Husserl ?

 

          Il secondo capitolo, L’<art contemporain> comme esthétisme- Les années 1960-2010 porta con sé delle affermazioni a volte generiche e pochi case studies, sebbene ci siano delle intuizioni felici, come quella secondo la quale nelle mostre d’arte si porti avanti un anti-concetto (p. 145), in particolare dopo Duchamp, il quale fu più volte frainteso, ad esempio sua intenzione era scoraggiare il carnevale dell’estetismo, invece tutti hanno capito l’inverso, ossia che anche un orinatoio poteva diventare arte ed ecco tutti ad ammirarlo (p. 147).

 

          La fenomenologia del cubo bianco, del white cube americano è l’ultima e la più interessante parte del volume dal mio punto di vista. È letto come riconduzione plastica della riduzione fenomenologica di Husserl  (p. 149), l’allontanamento dal naturale per una sorta di induzione più che risveglio della coscienza. Il cubo esprime una verginità a priori della coscienza dell’artista e del suo pubblico e così siamo al massimo allontanamento della produzione. Anche la lettura del neo-minimalismo è molto originale: è letta come l’espressione del percorso di Klee, Kandinskij e Léger razionalizzato in strutturalismo applicato (p. 154). Le effusions cubées (p. 160) sono quindi la semiologia del classicismo e il suo inverso, il comportamentismo, la semiologia della ribellione, i suoi estremi Donald Judd e Joseph Beuys (p. 162). Il rischio è di trasferire la lotta politica nel white cube e di sostituire all’universale kantiano il soggettivismo, la “donation de sens par l’atome sociale” (p. 167), seppur tramite il libero gioco di intelletto e immaginazione.

 

          Il volume ha il grande pregio di essere scritto con un carattere facilmente leggibile, a volte le note sono lacunose o prive di riferimenti precisi (come a p. 148 dove non è indicata la collocazione della citazione) e da autrice italiana non posso non segnalare la grafia errata dell’espressione Al contrario, scritta senza la “l” almeno tre volte.

 

          Ad ogni modo, per quanto ribadisca la spigolosità dell’autore, il quale non solo non si preoccupa di essere eccessivamente icastico ma neanche si cura di una scrittura agevole e godibile (a mio parere in linea con la ruvidezza delle sue tesi), il testo è ricco di idee e di spunti e di ardite analisi, da integrare, tuttavia, con un’adeguata conoscenza della storia dell’arte contemporanea e con una personale esperienza del mondo dell’arte e dei clercs, solo per non farsi fagocitare dalle teorie vertiginose di Zarka, le quali hanno come piccola pecca quella di rischiare di rimanere impigliate in una concezione evoluzionistica e materialistica della storia dell’arte dove, per convalidare le proprie tesi, si lasciano a latere teorie, critici, ricerche artistiche che nulla hanno a che fare con il mondo da lui illustrato.



[1] L’argumentation de Greenberg divisa in La naturalisation du rapport de classe selon l’argumentation du public naturel, l’ontologie néokantienne, L’usage de références historiques, L’esthétique du liberalisme, L’épanouissement du néo-kantisme esthétique, La base théorique pérenne du milieu de l’art (pp. 127-141).

[2] “L’objectivité du fait social est réduite à la subjectivité de l’appréciation” (p. 9).

[3] “Dialectique du frivole et du sérieux” (p.16).

[4] “Dans ce genre de vie, l’œuvre d’art n’est qu’une médiation, une justification des autres expressions de la libido, du ludique” (p. 31).

[5] “Et le devenir de l’art se lie à l’expansion économique. Son parcours est un moment du devenir mondain comme logique sociale” (p. 57).

[6]“Quand le frivole s’exprime, la réalité du code, c’est-à-dire le signifié des expressions qu’il médiatise dans la dialectique du système production-consommation, est oubliée” (p. 75).

[7] “Mais l’<artiste> est alors maintenu comme statut, hissé à une praxis capitaliste : il dirige la production de survaleur, en manager” (p. 79).

[8] “La production de profits devient finalité sans fin, esthétique; praxis selon un espace entièrement artificiel, dont le conditionnement logique, matériel, est nié”, “La <croissance> est croissance par le signifiant. Et pourrissement de la production” (p. 91).

[9] “L’<art> intervient comme moment de la dialectique immanente du frivole financiarisé” (p. 95).

[10] “Le musée cède sur son étymologie et devient fonction de la demande de standing des strates financiarisées, en proposant la location des biens <inaliénables>” (p. 107).