Ito, Takuma : La vetrata nella Toscana del Quattrocento. 22 x 30,5, xiv-220 pp. con 75 tavv. f.t. di cui 32 a colori. Rilegato. isbn 978 88 222 6025 3, € 72,00
(Olschki, Firenze 2011)
 
Recensione di Stefano de Bosio, Deutsches Forum für Kunstgeschichte (Paris)
 
Numero di parole: 2381 parole
Pubblicato on line il 2013-12-13
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1369
Link per ordinare il libro
 
 

 

          Il volume di Takuma Ito, nato da una tesi di perfezionamento presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, affronta lo studio delle vetrate toscane nel Quattrocento e primo Cinquecento secondo un approccio volto anzitutto a evidenziare la natura di ´prodotto complesso´ peculiare di questi manufatti, sia nella loro materialità che nel loro articolato iter progettuale ed esecutivo. Un ruolo cruciale riveste pertanto l´analisi delle molteplici modalità di collaborazione e interazione tra pittori, maestri vetrai e committenti: un tema, quello della convergenza di competenze diverse nella realizzazione di un unico manufatto, che può considerarsi tra i più interessanti della ricerca storico-artistica attuale, obbligata a re-interrogarsi su concetti quali autorialitá, autografia e identità stilistica, spesso riformulandoli in modo nuovo.

 

          Nello studio della vetrata toscana tardo-gotica e rinascimentale l´interesse critico si è fino a tempi recenti concentrato sui nomi celebri dei pittori che ne avevano fornito progetti o disegni: da Ghiberti a Donatello, da Filippo Lippi al figlio Filippino. L´intenzione di Ito è riequilibrare questo sguardo selettivo, dedicando pari attenzione alle personalità dei maestri vetrai, cercando di metterne in evidenza il contributo autonomo. Il volume si caratterizza ugualmente per il tentativo di far dialogare intorno alle opere fonti diverse, quali i coevi trattati sull´arte vetraria, i documenti d´archivio, ma anche le considerazioni condotte sul tema dalla letteratura artistica, con una particolare attenzione alle Vite di Vasari.


          Dopo il primo studio d´insieme sul tema della vetrata in Toscana da Hildegard van Straelen (1938) e le ricerche di Giuseppe Marchini - dalla sintesi sulle vetrate italiane del 1955/56 agli studi dedicati a singoli complessi (Duomo di Prato, Santa Croce, Santa Trinita a Firenze) o artisti (Ghiberti pittore di vetrate, 1979) - gli anni Novanta hanno visto un rinnovato interesse per le vetrate toscane, specie ad opera di studiosi non italiani, come testimoniano i notevoli lavori di Renée Burnam sulle vetrate di Orsanmichele (1988) e della cattedrale di Pisa (2002, uno dei rari volumi editi negli ultimi decenni nella collana italiana del Corpus Vitrearum Medii Aevi), di Frank Martin sulle vetrate della cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella (1996), nonché dei ´tondi´ del Duomo di Firenze (2001), fino alla recente pubblicazione (2008) di una nuova edizione commentata delle Memorie del maestro vetraio Antonio da Pisa, testo insostituibile per affrontare lo studio della produzione e percezione delle vetrate nella Toscana tre-quattrocentesca.

 

          Lo studio di Takuma Ito muove di necessità da queste acquisizioni critiche, riconsiderandole in particolare entro criteri di lettura, come si dirà, eminentemente tipologici e tematici, benché ad essi siano ugualmente associati casi di studio di cicli vetrari specifici, in particolare a Firenze, Pisa, Lucca e Prato. Piuttosto che rappresentare una vera e propria storia della vetrata nei territori toscani - iniziativa che appare prematura considerata la conoscenza critica diseguale, ad oggi, del patrimonio vetrario di queste zone -, La vetrata nella Toscana del Quattrocento individua delle linee di tendenza nella produzione vetraria di area toscana, mettendo a disposizione del lettore una rilettura d´insieme di diversi dei principali cicli vetrari toscani e della loro fortuna critica secondo delle chiavi di lettura capaci di fornire nuovi punti di vista su questi stessi cicli.


          Il primo capitolo intende fornire un inquadramento dei singoli aspetti materiali e tecnici propri della realizzazione delle vetrate nel contesto particolare delle città toscane del Quattrocento. L´autore confronta proficuamente le informazioni desumibili dai trattati sull´arte vetraria scritti da maestri toscani (anzitutto Antonio da Pisa, ma anche il cosiddetto Anonimo senese) con scritti dedicati alla produzione materiale del vetro, con ricettari, nonché con le menzioni dell´arte vetraria nei ´trattati d´arte´, da Cennino Cennini a Vasari.

 

          Sono pertanto considerati aspetti quali l´approvvigionamento dei vetri, tenuto conto di come, in area toscana, la produzione delle tessere vitree sembra essere stata di norma separata dal loro successivo taglio e lavorazione per le vetrate. Opportuno è distinguere tra vetri di provenienza veneziana, vetri di produzione toscana e vetri di provenienza transalpina (in particolare francese o fiamminga), questi ultimi soprattutto vetri placcati. Come anche in altri punti del volume, considerazioni interessanti derivano anche da una rilettura trasversale da parte di Ito dei documenti editi da Giovanni Poggi nella sua monumentale indagine archivista sulla fabbrica del Duomo di Firenze (1909, riedito nel 1988): in questo specifico caso è sottolineato il ruolo degli Operai del Duomo di Firenze quali intermediari negli acquisti di vetri, provenienti sia da altre fabbriche (ad esempio il Duomo di Pisa) sia da privati cittadini e solo successivamente consegnati ai maestri vetrai.

 

          Il capitolo prosegue analizzando il tema del costo delle vetrate in alcuni centri toscani del Quattrocento, per chiudersi con alcuni brevi cenni su problemi della conservazione materiale delle vetrate nel tempo, ossia lo studio degli interventi di restauro succedutisi. Una problematica solamente evocata ma imprescindibile nello studio delle vetrate. Con particolare riferimento ai restauri antichi dei manufatti, emerge come un momento particolarmente critico per la sopravvivenza delle vetrate tre-quattrocentesche dovette aver luogo già all´inizio del Cinquecento, allorché sembra consumarsi un mutamento del gusto essenzialmente contraddistinto da un maggior desiderio di luminosità per gli interni degli edifici sacri. A causarlo, dovettero essere ragioni estetico-funzionali - ma, ad evidenza, con importanti implicazioni teologiche - che giustificheranno poi anche molte delle distruzioni di antiche vetrate condotte nel Sei-Settecento.

 

          Portatori (o interpreti) di queste nuove istanze estetiche nel campo della vetrata sembrano essere i vetrai di provenienza nord-europea, giunti in Italia nei primi decenni del Cinquecento. In primis Guillaume de Marcillat, a Roma dal 1509 circa, attivo a Cortona e ad Arezzo, seguito poi dai maestri, attivi soprattutto presso la corte medicea, che realizzano cicli vetrari come quelli fiorentini della Biblioteca Laurenziana, della Certosa del Galluzzo o dello Scrittoio di Calliope di Palazzo Vecchio. Personalità che introducono nella pratica della vetrata toscana un uso inedito della grisaille e del giallo d´argento su vetri bianchi. Come sottolinea giustamente Ito, di questa mutata sensibilità cromatica e luminosa risulta in una buona misura essere specchio anche la critica di Giorgio Vasari alle vetrate eseguite su disegno di Ghiberti: “perché tutte furono di vetri viniziani carichi di colore [,] fanno i luoghi dove furono poste anzi oscuri che no”.


          Il capitolo II, intitolato Vetrate e spazio sacro, raccoglie (in un modo che appare invero un poco forzato) una serie di considerazioni intorno alla pluralità di funzioni, strutturali e simboliche, ricoperte dalla vetrata (“La finestra come apertura, la vetrata come separazione”), sul rapporto tra cornice e quadro principale nell´impaginazione delle vetrate, sulle modalità di funzionamento dei cantieri vetrari quattrocenteschi e, infine, sull´articolazione dei programmi iconografici nei cicli vetrari.

 

          Il funzionamento dei cantieri vetrari è in particolare indagato con riferimento a due dei più importanti episodi del secolo: le vetrature della Cattedrale di Firenze, tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento, e della Cattedrale di Pisa, intorno alla metà del Quattrocento. Messe a confronto Firenze e Pisa, si coglie la diversità nell´articolazione del lavoro e dei tempi di realizzazione: all´avvicendarsi dei maestri vetrai, unito a periodi di stasi, caratteristico della primaziale fiorentina, il caso pisano oppone un monopolio quasi esclusivo delle commissioni da parte della famiglia fiorentina Della Scarperia che, nel giro di pochi anni, portano a termine la più parte del cantiere.

 

          Per quanto riguarda l´articolazione dei programmi iconografici nei cicli vetrari, avanzata una distinzione tra tre differenti “tipologie iconografiche” (vetrate la cui iconografia è conclusa nello spazio limitato di una cappella; cicli vetrari composti da più di un pannello; vetrate che “assumono un valore simbolico per l´edificio in cui si trovano”), vengono nuovamente analizzati i casi delle cattedrali fiorentina e pisana, proponendo poi una ricostruzione del programma iconografico sotteso alle vetrate nella chiesa di Santo Stefano di Prato. Le pagine sulle vetrate pratesi si fondano su un precedente studio dell´autore ad esse dedicato, apparso nel 2009 negli Annali della Scuola Normale Superiore, e mettono in evidenza come la definizione di un coerente ciclo mariano quale tema delle vetrate per le cappelle del transetto sia in realtá l´esito di una decisione sopraggiunta solo successivamente alla realizzazione delle prime vetrate, nate quale committenze autonome promosse dalle famiglie che avevano il patronato delle singole cappelle (Inghirami, Manassei).


          Il capitolo III, sinteticamente intitolato Collaborazione, rappresenta, di fatto, il centro della ricerca. Vi si argomenta, tramite il ricorso a numerosi studi di caso, come la vetrata debba essere considerata e studiata come un prodotto in cui convergono competenze e istanze di attori molteplici: un approccio metodologico che caratterizza la più aggiornata ricerca attuale sulle vetrate, in quanto valido, con le dovute ricalibrature, anche per altri contesti cronologici e geografici. L´analisi di Ito si concentra sulle varie modalità di intervento e collaborazione intercorrenti tra i maestri vetrai e i pittori, modalità nelle quali riveste sovente un ruolo di primaria importanza un terzo soggetto, ossia il committente.

 

          Dal punto di vista della documentazione contrattuale, Ito individua tre tipologie principali di collaborazioni tra maestro vetrario e pittore: la prima, la più frequente, consiste nel contratto tra committente e maestro vetraio, con la libertà, da parte di quest´ultimo, di affidare eventualmente ad un pittore le fasi del disegno della vetrata o di stesura della grisaille sulle tessere vitree (è questo, ad esempio, il caso delle vetrate realizzate dalla famiglia Della Scarperia nel Duomo di Pisa); una seconda tipologia consiste invece in un committente che fornisce al maestro vetraio un disegno o anche un cartone in scala 1:1, a cui rifarsi durante l´esecuzione; una terza tipologia vedeva un artista sovrintendere alle opere di vetratura, specie se inserite in più ampli programmi decorativi (come dovette essere per Filippino Lippi nel caso della decorazione della cappella Strozzi in Santa Maria Novella e come, probabilmente, poté essere nella cattedrale di Firenze per artisti come Agnolo Gaddi e Ghiberti). Quarta tipologia individuata, estremamente rara, consiste in un incarico affidato direttamente ad un pittore, a cui spettava, nel caso, di rivolgersi a dei maestri vetrai (questo fu il caso di Domenico Pecori nella cattedrale di Arezzo). A sua volta, il rapporto tra pittore e maestro vetraio può riguardare, all´interno di una singola vetrata, solo determinati parti: a tale proposito risulta cruciale la distinzione tra la “cornice”, cioè il bordo decorato con motivi ornamentali, e il “quadro principale”, in molti casi occupato da una figura stante, con il pittore che è coinvolto nella progettazione o esecuzione solo di una di queste parti costitutive.

 

          A questa casistica, Ito fa precedere una disamina delle fonti scritte disponibili a riguardo. Come già accennato, il discorso viene affrontato mettendo a confronto trattati dell´arte vetraria, ricettari, attestazioni documentarie, le (rare) firme presenti sulle vetrate e i brani della Kunstliteratur, da Cennini a Vasari. L´aspetto più interessante delle argomentazioni di Ito consiste nella messa in evidenza della parzialità e reticenza di ciascuna di queste fonti, ognuna interessata, per ragioni differenti, ad evidenziare solo alcuni aspetti del processo ideativo ed esecutivo delle vetrate: ragioni pratiche, ad esempio, nella restituzione della contabilità di un cantiere; maggiormente legate ad una promozione del sé e del proprio ruolo in Antonio da Pisa o in Cennini, con la messa in valore delle rispettive competenze di vetraio e di pittore.


          Il capitolo IV, Sviluppi, dopo l´approccio prevalentemente tipologico e tematico dei capitoli precedenti, ha l´ambizione di fornire una sorta di quadro d´insieme dell´evoluzione della vetrata in area toscana nel Quattrocento. Il compito risulta assai arduo per diversi motivi e per ammissione stessa dell´autore questo capitolo intende piuttosto evidenziare delle tendenze nella produzione vetraria quattrocentesca, piuttosto che fornire una sintesi esaustiva. Le difficoltà nascono infatti dalla scarsa conoscenza che, per perdita delle opere ma anche per la mancanza di studi analitici, si ha della produzione vetraria di diverse delle (attuali) province toscane. Così, l´analisi risulta necessariamente polarizzata intorno ad alcuni centri, in primis Firenze e Pisa, coinvolgendo episodicamente Prato, Lucca e Arezzo, lasciando invece sullo sfondo Siena, ed ancor piú zone ad oggi assai poco studiate, come ad esempio Grosseto.

 

          Assai opportune sono peraltro le menzioni degli stretti legami che con il contesto ´toscano´, specie fiorentino, intessono lungo il Quattrocento con diversi centri umbri, di cui restano testimonianza documentaria per vetrate (perdute) nel duomo di Orvieto e nel duomo di Perugia, centro in cui è noto il caso del pittore fiorentino Mariotto di Nardo che nella grande finestra della cappella maggiore di San Domenico, datata 1411, lascia la sua firma – circostanza, come si è visto, assai rara per un pittore – insieme al maestro vetraio perugino Fra Bartolomeo di Pietro.


          Tra le tendenze di cui si è fatto sopra cenno, emerge indubbiamente la capacità di Firenze, nella seconda metà del secolo, complice verosimilmente anche le fasi di stallo dei cantieri legati alla vetratura della cattedrale di Santa Maria del Fiore, di esportare maestri a Pisa - è questo il caso eclatante dell´officina Della Scarperia - come a Prato (Lorenzo da Pelago), essendo ugualmente note attestazioni di maestri vetrai fiorentini a Roma. La trattazione si sofferma poi sul caso fiorentino del maestro vetraio Alessandro Agolanti, autore della vetrata della cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella, verosimilmente su disegno di Filippo Lippi. La riconsiderazione della produzione dell´officina vetraria dei Gesuati del convento di San Giusto, attiva a Firenze negli ultimi decenni del Quattrocento, permette a Takuma Ito di ritornare sulla diversa sorte, anche critica, toccata alle vetrate prodotte da questa prolifica officina nei casi in cui il progetto sia stato riconosciuto ad un affermato pittore (come nella grande vetrata della cappella Strozzi in Santa Maria Novella) o nei casi, al contrario, nei quali la paternità ideativa non sia stata accertabile dalla critica (ad esempio per le vetrate in San Salvatore al Monte).

 

          Dopo un paragrafo dedicato all´uso inedito del giallo d´argento nelle vetrate prodotte a Firenze intorno al 1500, il capitolo si chiude con un analisi della produzione vetraria di Arezzo negli anni immediatamente precedenti l´arrivo di Guillaume de Marcillat, un contesto interpretato come luogo di acuta contrapposizione tra le maestranze locali e maestranze provenienti da Firenze. L´arrivo di Guillaume de Marcillant rappresentò una presenza destinata a modificare in profondità non solo la scena artistica aretina ma più in generale il modo di realizzare e intendere la vetrata nell´area toscana, da cui l´opportunità di concludere il volume evocando la figura cruciale di questo peintre-verrier.