Bartoloni, Gilda - Benedettini, M. Gilda: Veio, Il deposito votivo di Comunità (Scavi 1889-2005), Archaeologica», 162 ; «Corpus delle stipi votive in Italia», XXI ; pp. 807 di testo, 13 Figure e XCII tavole fotografiche fuori testo. Formato: 17x24 cm. ISBN: 978-88-7689-250-9. Euro 190,00
(Giorgio Bretschneider Editore, Roma 2011)
 
Compte rendu par Paolo Liverani, Università di Firenze
 
Nombre de mots : 1435 mots
Publié en ligne le 2015-01-26
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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         Il volume affronta la pubblicazione del deposito votivo scavato a Veio dall’imperatrice del Brasile, Donna Teresa Cristina di Borbone, sotto la direzione di Virginio Vespignani e la supervisione di Rodolfo Lanciani nel 1889.

 

         Il primo capitolo (a firma delle due autrici) è dedicato alla storia degli scavi ed è fondamentale per comprendere e valutare tutto il resto del lavoro. I materiali recuperati, infatti, hanno avuto peripezie complesse e ampie dispersioni: sia per le vicende dello scavo e dell’imperatrice – detronizzata e morta poco dopo – che, successivamente, dopo l’acquisizione da parte dello Stato italiano. Nuclei di reperti sono oggi sparsi tra diverse collezioni statali e comunali, altri gruppi minori attribuibili con maggiore o minore grado di sicurezza alla stessa provenienza si trovano all’estero in diverse collezioni. Resta oggi approssimativamente una metà dei circa 2000 pezzi recuperati dal Lanciani. Il capitolo aggiorna, arricchisce e corregge lo stato delle conoscenze su un argomento che aveva conosciuto già diversi contributi approfonditi, in quanto la storia degli scavi di Veio ha attirato da tempo l’attenzione degli studiosi con frutti significativi. Future auspicabili integrazioni potranno eventualmente arrivare da nuclei collezionistici attualmente di difficile esplorazione: innanzitutto da quello arrivato agli eredi dell’imperatrice – in particolare si pensi a Isabella d’Orleans-Braganza, contessa di Parigi (1911-2003) – nonché dalle collezioni brasiliane del Museo Nazionale di Belle Arti a Rio de Janeiro, forse più rilevanti per i fondi documentari che per i materiali relativi agli ultimi scavi di Donna Teresa.

 

         Segue il catalogo – opera della Benedettini – che costituisce la parte più consistente del volume occupando circa 700 pagine. Il materiale viene diviso in 15 categorie (A-Q) precedute ciascuna da una introduzione con una discussione relativa alla tipologia, alla cronologia e a dettagli delle tecniche di lavorazione: statue, busti, teste isolate, maschere, bambini in fasce, statuette divine e umane, di animali, ex voto anatomici, frammenti di arti, cippetti, pesi da telaio, “alari”, ceramica (a firma di Donata Sarracino), rivestimenti architettonici, alia. Ogni categoria si articola in sottocategorie (indicate da cifre in pedice): ad esempio le statue si dividono in maschili, femminili, infantili, mani mobili (senza contare i frammenti). Le sottocategorie sono divise in tipi (indicati da numeri romani), distinguendo ulteriormente tra matrici di prima, seconda e terza generazione (indicate da lettere minuscole in pedice). La classificazione tiene conto delle modalità di edizione di complessi simili ed è attenta a considerare gli aspetti iconografici, tipologici, e tecnici, nonché le difficoltà che nascono da una selezione del materiale dovuta in parte ai criteri ottocenteschi dello scavo, in parte alle vicende successive della dispersione e, infine, dalla difficoltà di attribuire i frammenti a una categoria o all’altra.

 

         Le statue sono tra gli elementi più caratterizzanti di questo deposito votivo in rapporto al panorama dei coevi depositi centro-italici. Tra di esse si annovera anche un caso isolato di un certo interesse per la sua rarità: una statua maschile stante nuda di cui si conserva solo la metà superiore (tipo AI). Secondo l’autrice (p. 30) la nudità potrebbe alludere a rituali di passaggio e intenderebbe esaltare le bellezza fisica del giovane (benché la qualità dell’opera sia alquanto scadente). L’inquadramento di questo caso specifico è tuttavia opinabile e sarebbe stato forse preferibile esplorare altre possibilità. Sembra inverosimile per esempio che si trattasse di una statua completa stante per la difficoltà a farla reggere sulle gambe nude, senza cioè un manto o una veste la cui presenza avrebbe notevolmente aiutato la statica. Inoltre si potrebbe avvicinare questo esemplare piuttosto ai torsi nudi (sottocategoria H13-14, cfr. p. 490), che giustamente vengono considerati insieme ai votivi anatomici e connessi agli aspetti salutari del culto.

 

          Interessanti le notazioni sulle tracce di colore sparse per le schede che forse avrebbero meritato una trattazione d’insieme nelle conclusioni. Si pensi ad esempio alle tracce di nero sui calcei Afr391 che potrebbero dare spunto a qualche riflessione ulteriore: è nota infatti la discussione – a tutt’oggi non risolta – a proposito di Hor., Sat. 1.6.27 tra Mommsen (Röm. Staatsrecht III.2 1888, p. 888-889), che considerava i calcei patricii come rossi con lacci neri, e Mau (RE III.1, s.v. Calceus 3; cfr. anche Daremberg-Saglio, II, s.v. Calceus, p. 816), che invece li considerava completamente neri. A questo proposito si veda anche l’urna di Thania Veltsnei a Perugia (L. Cenciaioli, Il piacere della seduzione, Perugia 2004, pp. 17-19, n. 5) con un togato dai calcei totalmente neri.

 

         Pure assai caratteristici di questo deposito sono i torsi (H13-14, ma anche H16) e le placche poliviscerali (H15), che trovano scarsissimi confronti in altri complessi simili. Queste peculiarità hanno suscitato una letteratura di nicchia piuttosto vivace fin dai primi del ‘900; il loro significato secondo l’autrice non sarebbe da riferirsi unicamente alle connotazioni salutari del culto, ma anche ad altri aspetti magico-religiosi tipici della religiosità popolare (p. 494), una definizione che però resta sfuggente e lascia insoddisfatti.

 

         La schedatura è sintetizzata in una serie di tabelle sinottiche che aiutano a ricavare una visione d’insieme dei materiali studiati.

 

         La seconda parte, assai più breve, si apre con un capitolo dedicato alla topografia dell’area del deposito (a firma di Barbara Belelli Marchesini), che esamina le evidenze delle ricognizioni e dei saggi eseguiti sulla sommità del pianoro di Comunità dove una nota ipotesi di Torelli (in H. Blanck – S. Steingräber [a cura di], Miscellanea T. Dohrn dedicata, Roma 1982, p. 128) proponeva di identificare il luogo originario di provenienza delle terrecotte votive e il culto di Giunone Regina, ricordato dal famoso racconto della presa di Veio nel V libro delle Storie di Livio. I saggi di scavo, però, non hanno rinvenuto finora strutture attribuibili al tempio, ma solo impianti produttivi artigianali nella fase preromana, seguiti probabilmente da una villa repubblicana. Anche le indagini mirate a una migliore definizione del luogo di rinvenimento e delle condizioni di deposizione dei votivi hanno avuto solo parziale successo.

 

         Le note conclusive (a firma di entrambe le autrici) chiudono il volume con i risultati del lungo e importante lavoro. Per quanto riguarda la cronologia, alcuni elementi (buccheri e poche terrecotte architettoniche) possono essere riferiti già al VI sec., ma è nel V che troviamo le prime evidenze sicure di votivi e di materiale architettonico riferibile a uno o più edifici sacri. La massima ricchezza di attestazioni incomincia con la seconda metà dello IV sec. e la frequentazione continua – sia pure in graduale calo – fino all’inizio o alla metà del II sec. a.C., dunque in piena età romana.

 

         Non è possibile identificare la divinità venerata, ma si può ritenere sia femminile con connotazioni matronali e curotrofiche – si pensi ai bambini in fasce: sottocategoria E – ma con particolare attenzione alla gioventù guerriera, vista la presenza di statuette di armati. Ha una significativa serie di attestazioni l’aspetto salutare del culto, che – contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare – non mostra attenzione specifica per la riproduzione o per le malattie sessuali, a differenza di altri contesti coevi. Le autrici, tuttavia, tendono a smorzare il valore di questo aspetto, una posizione sulla quale si dovrà aprire il confronto. Le uniche divinità raffigurate sono una statuetta di Apollo liricine e una di Eracle, a cui va aggiunto un bronzetto (perduto) di Veiove o di una divinità iconograficamente simile, che sembrano però testimoniare aspetti secondari del culto principale.

 

         Gli scarti qualitativi della produzione piuttosto notevoli testimoniati dai votivi mostrano che i devoti appartenevano a fasce sociali molto diversificate.

 

         In definitiva non è possibile proporre con sicurezza il nome della divinità titolare: mentre nella prima fase gli aspetti matronali potrebbero indirizzare le ipotesi verso una Giunone, gli aspetti curotrofici, iniziatici e salutari sono assai più generici e in linea con le simili esperienze centro-italiche nella fase romana. La conquista dunque potrebbe aver determinato mutamenti significativi e potrebbe implicare forse anche la compresenza di più divinità complementari.

 

         Il volume nasce da una lunga gestazione – una parte dei materiali era stata già oggetto della tesi di laurea della Bartoloni – e finalmente ricostruisce e pubblica un nucleo di votivi molto notevole – o per lo meno quella parte che è ancora identificabile. La tipologia e l’analisi è curata e chiara e le conclusioni sono solide e condivisibili. Si tratta di un importante contributo per comprendere il delicato passaggio tra la Veio etrusca e quella romana, che contribuisce a dare un profilo meno fantasmatico alla Veio medio- e tardo-repubblicana, snodo essenziale per la comprensione del processo di romanizzazione dell’Etruria meridionale. La pubblicazione acquisisce ulteriore rilevanza in quanto i suoi risultati si possono leggere in maniera integrata con quelli di una serie di iniziative per la pubblicazione dei vecchi scavi e per la ripresa delle esplorazioni della città etrusco-romana, che negli ultimi decenni ha conosciuto una crescente e fortunata attenzione.