Bocherens, Christophe (a cura di): Nani in Festa. Iconografia, religione e politica a Ostia durante il secondo triumvirato, 21x30 cm, 216 p., ill. col. e b/n., bross. ISBN 9788872286463, 50 euros
(Edipuglia, Bari 2012)
 
Compte rendu par Massimiliano Papini, Università la Sapienza
 
Nombre de mots : 3354 mots
Publié en ligne le 2013-02-21
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il volume curato da Christophe Bocherens è dedicato a una domus di Ostia, cd. dei Bucrani, collocata lungo il Decumanus Maximus nel cuore del quartiere di Porta Marina nel sito della Schola del Traiano; eccezionali sono state le scoperte emerse durante l’impegno di scavo decennale dell’Università Lyon II sotto la guida di Jean-Marc Moret e Thomas Morard, del quale l’opera non intende però costituire la pubblicazione definitiva.

 

          Queste le fasi fondamentali della dimora, delineate nel primo capitolo a firma di Bocherens: fu edificata con murature in opus incertum e pavimenti in opus signinum e a mosaico intorno al 60 a.C., in anni grossomodo coincidenti con la costruzione delle nuove mura urbiche di Ostia dopo l’aggressione dei pirati cilici nel 67 a.C.; una volta demolita, intorno al 20 a.C. fu rimpiazzata da una domus a peristilio d’epoca augustea, che si impiantò sullo stesso terreno, rialzato però di 1 m; la nuova residenza fu abitata da una famiglia autorevole del luogo, capace di accedere all’amplissimus ordo, quella dei Fabii Agrippini, come rivelato dal rinvenimento di una fistula aquaria iscritta e di due frammenti di un’epigrafe marmorea con la menzione del console del 148 d.C., C. Fabius Agrippinus, pretore edile dei cereali, questore della provincia di Cipro, tribuno militare della II legione Augusta, quadrunviro incaricato della manutenzione delle strade e patrono della colonia per decreto pubblico dei decurioni. Un altro suo prestigioso membro è il personaggio omonimo che concluse la carriera come governatore di Siria nel 218-219 d.C., quando fu assassinato per conto di Eliogabalo secondo Cassio Dione; nella circostanza la domus per intervento imperiale fu verosimilmente confiscata, e nella sua stessa area poté sorgere la sede di una grande corporazione legata al servizio dell’annona alla fine del secondo quarto del III sec. d.C. (lo conferma la scoperta di un bollo severiano, che invalida la datazione in precedenza invalsa del nuovo complesso intorno alla metà del II sec. d.C.). La prima peculiarità è quindi che si tratta di un esempio, raro per Ostia, di Family House, ossia di una residenza appartenuta per più generazioni a una stessa famiglia di notabili e rimasta ancorata al lotto d’origine sino alla sua estinzione; di qui la congettura che pure i proprietari della residenza tardo-repubblicana (sin dall’inizio o almeno dalla sua seconda fase - vd. infra -, a seconda che si accetti l’evenienza di una continuità nell’élite ostiense nel ventennio 60-40 a.C. o si preferisca supporre un cambio di proprietà) siano da rintracciare tra i medesimi Fabii. Il libro si focalizza poi sul principale ambiente della casa sul fianco orientale, al livello del tablinum: intorno al 40 a.C., con la trasformazione delle precedenti due piccole stanze in un grande locale di rappresentanza di 47 m2, il vano battezzato oecus ricevette una nuova pavimentazione a mosaico con motivi geometrici a tessere policrome e un’importante decorazione pittorica e a stucco di II stile (Beyen IIA) a opera di una bottega urbana; purtroppo gli autori hanno stranamente rinunciato a fornire una qualsiasi pianta, per cui per una migliore comprensione dei testi conviene al momento rivolgersi ai risultati presentati pochi anni fa dalla stessa équipe di scavo (Th. Morard, Le plan de la Domus aux Bucranes et son système decoratif: pavements – parois peintes – stucs – plafonds, in F. Zevi, J.-M. Moret, A. Pelletier [a cura di], Villas, maisons, sanctuaires et tombeaux tardo-républicains: découvertes et relectures récentes. Actes du colloque international de Saint-Romain-en-Gal en l’honneur d’Anna Gallina Zevi, Roma 2007, p. 68, figg. 6, 72). Negli stessi turbolenti anni Quaranta cominciò la carriera municipale il celebre C. Cartilius Poplicola, il quale compare assieme a un C. Fabius (Longus secondo una proposta di integrazione di Fausto Zevi, tornato però a esprimersi a favore di C. Fabius Rufus in M. Cébeillac-Gervasoni, M.L. Caldelli, F. Zevi, Epigrafia latina. Ostia: cento iscrizioni in contesto, Roma 2010, p. 120, n. 19) nell’iscrizione musiva datata intorno al 25 a.C. a commemorazione del rifacimento della pavimentazione in tessellato nel più occidentale dei Quattro Tempietti (CIL XIV 4134); se così, C. Fabius Longus, in quanto primipilare, poté partecipare alle guerre civili a fianco di Cartilius Poplicola, che forse nel 39 a.C. respinse un improvviso attacco marittimo di Sesto Pompeo, stando al fregio figurato del suo monumento funerario. Deduzione: la casa intorno al 40 a.C. può esser appartenuta a un partigiano di Ottaviano.

 

          L’oecus ha restituito una decorazione dipinta estesa per un’altezza di 4 m, del quale la porzione della parete orientale in situ e lo studio dei numerosi frammenti rinvenuti nel terreno di colmata hanno consentito una ricostruzione con una distinzione tra anticamera a camera principale marcata da due possenti pilastri: basso podio su plinto violetto e parte mediana delle parete a ortostati rossi sormontata da due fregi vegetali e, sotto una cornice a cassettoni, da una fascia figurata con uno stuolo di nani impegnati in più attività; la superficie dipinta si chiude con una galleria cieca animata da maschere teatrali di differenti tipi disposte tra pinakes di contenuto non ancora specificabile. Queste le conclusioni esposte nel secondo capitolo di Thomas Morard e Thibault Girard, i quali per il sistema decorativo hanno stabilito confronti almeno nei dettagli con esempi di secondo stile di altissimo livello, specie nella «Casa di Augusto» oppure negli spazi sotterranei della Casa del Criptoportico e nell’atrio della Casa del Menandro a Pompei (per una rassegna delle attestazioni di pitture di secondo stile a Roma e a Ostia e una riflessione sulle ragioni della maggiore predilezione per le pareti chiuse in ambito romano-ostiense rispetto all’area vesuviana vd. S. Falzone, Luxuria privata. Considerazioni sull’arredo decorativo a Roma e ad Ostia in età tardo-repubblicana, in E. La Rocca, A. D’Alessio [a cura di], Tradizione e innovazione. L’elaborazione del linguaggio ellenistico nell’architettura romana e italica di età tardo-repubblicana, Studi Miscellanei 35, Roma 2011, pp. 191-204). Sempre dal medesimo vano deriva una grande quantità di stucchi frammentari, discussi ma non illustrati: risaltano una serie di archi (con quello mediano a separazione dell’anticamera dalla camera con vari motivi nell’intradosso - fulmine vegetale, mazze e foglie di quercia -) e un fregio con prue rostrate di navi a coronamento della parete della camera, un motivo di significato pregnante con paralleli dipinti e scolpiti nella Casa del Navarca di Segesta, a Pompei e a Solunto e giustificabile, considerato il periodo, come allusione alla vittoria contro Sesto Pompeo; d’altronde, che la celebrazione di imprese militari in ambito domestico potesse esser variamente declinata - anche attraverso il filtro del mito - si sta delineando sempre più chiaramente (e per i navalia figurati quale riflesso di un’adesione al partito di Ottaviano nelle case affacciate sul ciglio occidentale della collina di Pompei da ultimo vd. il contributo, noto agli Autori, di D. Esposito, Filosseno, il ciclope e Sesto Pompeo. Programmi figurativi e “propaganda” politica nelle domus dell’aristocrazia pompeiana della tarda età repubblicana, in JdI 123, 2008, sopr. pp. 83-88).

 

          L’opera, come intuibile anche dalla controcopertina, in uno stile stucchevolmente accattivante per catturare l’attenzione del pubblico - a stento concepibile però fuori dalla cerchia degli specialisti -, nasce soprattutto dalla voglia di comunicare il tentativo di decifrazione delle scene del fregio dei nani (ricostruito con una lunghezza complessiva di 25 m e con un’altezza di 40 cm), un «capolavoro» dell’arte romana secondo Domingo Gasparro, che, animato da tanto entusiasmo, ha evocato un confronto con la cultura visuale post-antica, in particolare con i quadri di Faustino Bocchi a cavallo tra XVII e XVIII secolo; capolavoro o meno, la scoperta è di grande valore per le caratteristiche della resa pittorica e per i soggetti abbastanza anomali. Tuttavia, la consultazione continua a esser disagevole, un po’ per una parte interpretativa che sin da subito tende a sopraffare quella descrittiva - per una descrizione sommaria occorre rivolgersi alle pagine finali, mentre i disegni con i semplici contorni delle figure aiutano poco -, un po’ per la distribuzione disorganica delle illustrazioni; inoltre, il posizionamento delle scene nell’ambiente si capisce solo guardando alla restituzione schematica di p. 105.

 

          I frustuli della decorazione esibiscono figure disposte su più piani, segnalate anche dalla diversa intensità dei colori, più attenuati in distanza (il caso più vistoso è alla fig. 21, con i soldati sullo sfondo che quasi svaniscono come fantasmi), con inquadrature disparate e non senza incoerenze; l’artista ideatore del fregio è stato poi definito un «autentico impressionista», perché la pittura è compendiaria, dai forti accenti luministici ottenuti con rapide pennellate. Quanto al contenuto delle scene, la sfida per un iconologo come Jean-Marc Moret è succulenta, per quanto molto difficile dato lo stato conservativo - rimangono i frammenti del solo lato lungo occidentale e di parte dei due lati brevi a nord e a sud, la metà appena dell’intera decorazione - e per l’assenza in apparenza di ogni confronto nell’imagerie coeva e posteriore («singolarità» e desideri individuali e meno convenzionali dei committenti possono diventare dei veri rompicapi per gli archeologi, talora pronti ad approfittarne per dare sfogo alle proprie fantasie scientifiche); ciononostante, lo sforzo esegetico, in un testo sproporzionato rispetto alle evidenze, sa portare al riconoscimento di almeno cinque feste pubbliche, che coinvolgevano l’intera popolazione di Roma, e di almeno due miti romani.

 

          La decrittazione prende avvio da un nano in tenuta gialla con un elmo in mano identificato con uno dei Salii, figura superstite di una processione identificata con quella effettuata durante le Quinquatrus (19 marzo) per la purificazione delle armi (almeno secondo la voce del grammatico Charisius che fa derivare il nome della festa da quinquare con il significato di lustrare) alla presenza di spettatori «dallo sguardo fosco» (p. 57: una lettura psicologizzante non fondata): una festività, quella, in onore di Minerva protettrice di tutte le associazioni di arti e mestieri. Segue una scena con una tuba ben in vista e due tubicines, in cui l’Autore riconosce la cerimonia della lustratio delle trombe, che si svolgeva nell’Atrium sutorium per concludersi con il sacrificio di un’agnella a Marte (23 marzo). Un fuggifuggi generale - con la compartecipazione di un porcellino e di un toro - è poi identificato con la festa dei Poplifugia (5 luglio), formante un plesso rituale unitario con le nonae Caprotinae: una fuga ritualizzata forse nella zona della palus Caprae, la cui origine, secondo un aition, era spiegata con un correre disordinato del popolo al momento della scomparsa di Romolo. Il suo punto di partenza nell’immagine pare coincidere con una costruzione dal tetto spiovente che fa pensare a una capanna: quella di Romolo, qui allora funzionale a simboleggiare la città da cui escono i Quiriti? Gratuita risulta comunque la proposta di un nesso tra il nano caduto mento a terra e i vinti della battaglia di Filippi così come cantati da Orazio nelle Odi (II,7,12). Ancora: due schiere di guerrieri che si tolgono gli schinieri o depongono gli scudi inquadrano degli adulti in atto di tenere in braccio e baciare dei bambini; se la figura meglio conservata a torso nudo è femminile per l’indicazione del seno rotondo (?: fig. 29; ma le braccia muscolose e la linea molto marcata del profilo differiscono dalle certe figure femminili presenti in altri quadretti), la scena può riprodurre il momento di pacificazione tra Sabini e Romani grazie all’intervento delle donne, le quali, portando tra le braccia i figli, i loro pegni d’amore, e con le chiome sciolte, supplicano i contendenti di porre fine alle ostilità; in più, può esservi un’allusione ai Matronalia del 1 marzo, il cui racconto eziologico nei Fasti di Ovidio riporta appunto alla cessazione della guerra tra Romani e Sabini? Dei riquadri dell’anticamera, che raffigurano una fullonica e una caupona, l’Autore prova a trovare una qualche connessione con le altre raffigurazioni, pur in mancanza quasi totale di indizi desumibili dalle stesse immagini; rappresentano anch’esse una festa, magari sempre nel mese di marzo? Se sì, la fullonica (un tema ricorrente nell’azione scenica dell’atellana) può stare per la festa degli artigiani (Artificum dies) del 19 marzo in onore di Minerva, e la caupona, dove uno dei personaggi indossa un copricapo affine a quello del «Salio», sottintendere i Liberalia del 17 marzo, come ricavabile anche da un pene-uccello che campeggia in alto, un motivo per il quale il pittore poté - dubbiosamente - lasciarsi ispirare dal fallo alato in legno fabbricato per la falloforia delle feste di Dioniso a Delo.

 

          Sul lato corto nord una coppia in intimità evocherebbe la festa di Anna Perenna (15 marzo); anzi, la donna con una specie di turbante in testa può esser Anna Perenna in persona e il giovane dal torso iper-sviluppato Marte (curioso che nella descrizione manchi ogni cenno all’elsa di una spada retta dalla mano destra: fig. 35). Sul lato corto sud pare riconoscibile il mito di Ercole e Caco per la presenza di un nano «erculeo» con scudo e clava (magari brandita nella mano destra sollevata) e di un’altra figura in corsa con scudo imbracciato al seguito di parecchi bovidi parimenti in movimento, con sullo sfondo un arco a tre fornici in cui è «senz’altro riconoscibile» la Porta Trigemina (per un’altra sua ipotizzata raffigurazione, ma a un solo fornice, su un frammento di rilievo forse del I sec. d.C. riprodotto nel Codex Coburgensis vd. G. Brands, M. Maischberger, Der Tempel des Hercules Invictus, die Porta Trigemina und die Porta Triumphalis, in RdA 19, 1995, p. 111); la stessa raffigurazione di Ercole e Caco - assieme al simbolo di Ercole sull’arco in stucco - dà all’Autore il pretesto per un capitolo, il quarto, tutto incentrato sulla funzione di Ercole a Ostia nel ruolo di difensore dai pirati e sul suo culto, il che punta a dimostrare come anche la presenza di rilievo dei Salii nel fregio ne rispecchi il ruolo come coordinatori del culto di Hercules Victor a Tivoli e a Roma, ma questo sembra il frutto di una costruzione a tavolino, ancorché molto erudita.

 

          Così, il fregio diventerebbe una sorta di - strano - calendario delle feste romane, con una netta predilezione, cui sfuggono solo gli eventuali Poplifugia, per marzo - ma con date non in sequenza -, e con qualche legame più forte con Ostia ricercato ad esempio nell’associazione di Vulcano con Marte, il patrono del mese. Lo stringente e sofisticato impegno ermeneutico è alimentato da profonde conoscenze antiquarie, storiche e bibliografiche, per cui ogni spiegazione è ingegnosa, benché in più punti rischi di forzare i dati lacunosi per far tornare tutto, tradendo un eccesso di sicurezza con domande del genere «Come non pensare…?» (quando invece si può anche non pensarlo); d’altra parte, a nulla servirebbe rispondere con l’iperscetticismo, per cui ogni confutazione o la ricerca di migliorie e/o alternative (e non sarà facile trovarle) per i riquadri più problematici o per l’interpretazione complessiva dovrà richiedere uno studio non minore, come sottolineato già da Angelo Bottini nell’introduzione; e chissà che, senza dover riportare tutto a un calendario festivo, la selezione di scene legate alla quotidianità e alle professioni (caupona e fullonica) e alle parodie mitiche in sintonia con l’atellana - dei cui temi lo stesso Moret ha riconosciuto l’importanza in rapporto al fregio (p. 96 s.) -, non evocasse un’atmosfera semmai vagamente raccordabile al mondo del teatro, esplicitata dalle maschere al di sopra della fascia con i nani (per la passione dei proprietari benestanti del I sec. a.C. per gli spettacoli teatrali e la sua trasposizione anche nell’ambito delle dimore vd. E. La Rocca, Vivere serenamente all’ombra di Dioniso. La maschera in bronzo di Papposileno della Fondazione Sorgente Group e la vita di svago nelle ville romane, in E. La Rocca [a cura di], Il sorriso di Dioniso, Torino-Roma 2010, pp. 159-166).

 

          Sia come sia, manca ancora un chiarimento sul perché affidare ai nani l’ipotizzata celebrazione di rituali e la messa in scena di episodi mitici. La risposta arriva nel quinto capitolo: il committente, in collaborazione con l’artista incaricato di tradurne in immagine l’intenzione, ha voluto mischiare il passato immutabile con la più scottante attualità. Sì, perché, se si tiene conto della cronologia del dipinto, i nani documenterebbero una reazione immediata all’arrivo a Roma di quelli in carne e ossa portati da Marco Antonio dalla Siria (intorno al 40 a.C.?) e somiglianti ai pigmei di Acoris nel Medio Egitto, come testimoniato dal solo brano del De signis di Filodemo, in funzione di intrattenimento e quale segno di tryphé: nessuna sorpresa per un individuo che si allontanava in quanto Romano dai suoi costumi ancestrali. Ciò consentirebbe addirittura di supporre una «guerra di nani» all’insegna dell’opposizione tra luxuria e mos moiorum: Augusto ne aveva orrore, così come dei deformi e di tutti gli anomali del genere da lui considerati scherzi di natura e portatori di sventura. Sicché anche l’«iconografia reazionaria» dei nani, dopo le prue rostrate in stucco, veicolerebbe un secondo richiamo al presente in grado di tramutare l’oecus della domus dei Bucrani in un «teatro di propaganda». Eppure, non è questo un modo un po’ contorto di esprimere un’opzione politica e l’adesione al partito di Ottaviano mediante la «romanizzazione» dei nani adombranti Antonio in un ambiente forse anche celebrativo di un’impresa del proprietario legata a un successo su Sesto Pompeo? Escluderla non si può, ma qual è il bisogno di una simile allusione? Se invece si trattasse «solo» di un intento caricaturale in grado di divertire e sorprendere proprio per la scelta inconsueta di chiamare i nani ad adottare «formule ritrattistiche» romane (palesi in qualche profilo) e a recitare momenti della vita e della tradizione mitistorica romana, derogando dunque dalla tradizione dei nilotica e di quell’anti-mondo ricco di costumi licenziosi e incontinenze sessuali? Insomma, per parafrasare con qualche modifica il pensiero di Moret (p. 160), il visitatore, entrando nella sala e guardando lo stuolo di lillipuziani, poteva sì sorprendersi e sorridere, ma non si vede per quale ragione il suo pensiero dovesse correre ad Antonio; ciò pare un sovrappiù esegetico, tanto più che gli occhi dei fruitori degli arredi di domus sfarzose dovevano essersi ormai abituati alla presenza di nani figurati sin dalla fine del II-inizio del I sec. a.C., come dimostrano i casi - citati anche dall’Autore - dei tre danzatori riemersi dal carico di oggetti d’arte del relitto di Mahdia e del mosaico sulla soglia del tablinum di una domus da Priverno, se databile al 70-60 a.C. o almeno non oltre l’età cesariana (vd. ad esempio M. Cancellieri, Case e mosaici a Privernum. Parte II, La domus della soglia nilotica, in Musiva & Sectilia 4, 2007, p. 132).

 

          Infine, poiché non evidenziato nel libro, conviene sottolineare come altri esempi più o meno contemporanei (40-30 a.C.) di raffigurazioni di nani in due fregi a Pompei rinuncino ai paesaggi nilotici e costituiscano quindi i confronti più vicini per la domus di Ostia rispettivamente per le scene di caupona e fullonica e per i possibili miti romani: nell’atrium (4) della Casa del Toro (V,1,7), con maschere appese alle estremità, i nani sono dipinti a banchetto e intenti in operazioni di acquisto per lo più di commestibili , mentre nell’atriolum (46) della Casa del Menandro (I,10,4) si calano nei panni di eroi e dèi greci, come Teseo e il Minotauro, Pasifae, Afrodite e Atena, e sono accompagnati da iscrizioni in greco (per entrambi gli esempi vd. R. Tybout, Dwarfs in discourse: the functions of Nilotic scenes and other Roman Aegyptiaca, in JRA 16, 2, 2003, p. 513, figg. 2-3; per la discussione del fregio della Casa del Menandro vd. anche R. e L. Ling, The Insula of the Menander at Pompeii, II. The Decorations, Oxford 2005, pp. 22, 64, 245 s., fig. 81).

 

 

Indice:

 

A. Bottini, Presentazione, p. 9;

D. Gasparro, Si alza il sipario: l’arte di dipingere i nani, p. 13;

I. C. Bocherens, Il contesto storico, p. 15;

II. T. Morard-T. Girard, La domus dei Bucrani e il sistema decorativo dell’oecus dei nani, p. 25;

III J.-M. Moret, Le feste dei nani, p. 49;

IV. J.-M. Moret, Ostia, Roma, Tibur: Hercules victor e i pirati, p. 109;

V. J.-M. Moret, I nani di Antonio, p. 137;

J.-M. Moret, Cala il sipario: arte «popolare» e tradizione ellenistica, p. 163;

Appendice: descrizione sommaria delle figure del fregio, p. 179;

Bibliografia, p. 183