Bonfante, Larissa (ed.): The Barbarians of Ancient Europe: Realities and Interactions, 420 pages, ISBN-10: 0521194040, 90 euros
(Cambridge University Press 2011)
 
Compte rendu par Massimiliano Di Fazio
 
Nombre de mots : 2320 mots
Publié en ligne le 2013-12-16
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il volume è frutto di un convegno tenutosi a Richmond nel 2003, ed è costruito attorno ad due idee, esplicitate nel sottotitolo: Realities, ovvero le informazioni concrete sulla vita e sugli assetti delle antiche civiltà, e Interactions, ovvero le connessioni e gli scambi tra civiltà. Il proposito di partenza è molto stimolante: in contrasto con le pubblicazioni che tendono a mettere al centro la prospettiva greca sui popoli “barbari”, questo volume cerca di offrire al lettore una prospettiva più “emic”, per usare una categoria antropologica ormai ben nota anche all’antichistica.

 

          Queste idee sono messe a fuoco nella bella introduzione firmata da Larissa Bonfante. In questo capitolo, l’A. delinea i temi toccati nel volume, e si sofferma opportunamente sul concetto di “barbaro” e le sue elaborazioni nell’ambito della cultura classica. Data l’ampiezza di orizzonte abbracciato dal libro, che include contributi su Etruschi, Sciti, Celti, Traci, Germani, ci si limiterà in questa recensione a sintetizzare gli argomenti dei vari capitoli, soffermandosi solo sui temi più rilevanti.

 

          Nel primo saggio, Paul T. Keyser offre una panoramica molto particolare sull’Occidente visto da parte greca. Un primo paragrafo si concentra su come i geografi e più in generale il pensiero greci hanno descritto le terre occidentali, partendo da Omero ed Esiodo, soffermandosi particolarmente su Ecateo ed Erodoto. Un secondo paragrafo è dedicato alle descrizioni delle popolazioni occidentali. L’ultimo paragrafo mette al centro dell’attenzione i geografi di epoca ellenistica, quando cioè il mondo greco acquista una maggiore conoscenza e consapevolezza dei paesi occidentali. In conclusione, l’occidente è “Good to think”, e i Greci non fanno eccezione alla osservazione di Jonathan Swift, secondo cui ciò che è più lontano appare più bello e piacevole. Ma soprattutto, nella conclusione Keyser presenta un tema molto importante: cosa i Greci rivelano di se stessi quando scrivono dell’occidente.    

 

          Nel suo contributo, Askold I. Ivantchik si dedica ad un esercizio apparentemente scontato, ma in realtà molto delicato: confrontare la descrizione di un funerale scita fatta da Erodoto (IV 71-72) e la documentazione archeologica di sepolture nobili dell’area del Mar Nero, area in cui gli Sciti vivevano. Il risultato è sorprendente, poiché mette in luce le profonde analogie esistenti tra la tradizione letteraria e la documentazione materiale. L’A. correttamente propone l’ipotesi che Erodoto avesse potuto contare su una buona fonte, verosimilmente informata di prima mano: un “cultural translator”. Tra le implicazioni che derivano da questo lavoro, vi è la necessità di rivedere il cliché, elaborato da F. Hartog ed altri, secondo cui la visione erodotea (e più in generale dell’etnografia greca) degli Sciti e di altri popoli “barbari” fosse profondamente alterata da stereotipi e pregiudizi. È però forse il caso di non generalizzare questa critica verso il modello proposto da Hartog, che mantiene comunque una sua forza euristica.

 

          Ancora gli Sciti sono i protagonisti del capitolo di Renate Rolle. Nuovi dati archeologici provenienti dai kurgan della parte settentrionale del Mar Nero mostrano come in realtà l’immagine stereotipa degli Sciti come guerrieri nomadi debba essere almeno ricalibrata, dal momento che le interessanti indagini nel sito di una grande fortezza a Bel’sk mostrano tra VII e VI secolo a.C. indizi di un protourbanesimo, ma anche di un ruolo come centro artigianale e per commerci oltre che residenziale. 

 

          Ivan Marazov mette al centro dell’attenzione il modo in cui alcune iconografie greche vengono riprese nel mondo dei Traci, in aree in cui la scrittura era praticamente assente e dunque l’immagine aveva una fondamentale funzione di veicolo di informazioni e di cultura. Nell’arte trace, la narrazione è in realtà pressoché assente: prevale piuttosto l’organizzazione delle informazioni mitologiche in un codice cumulativo. Tra i tanti temi affrontati, è interessante quello dedicato al linguaggio formulare nelle iconografie animali: l’A. presenta alcuni spunti esemplari per un “vocabolario figurato” del linguaggio mitologico. In particolare, lo studio molto ricco di Marazov sottolinea quanto sia delicato ed importante il tentativo di comprendere il processo di adattamento delle iconografie e dei miti greci in culture diverse come quella trace.    

 

          Il contributo di Barry Cunliffe prende a prestito il titolo da una frase del celebre romanziere e studioso J.R.R. Tolkien, che sottolineava come il mondo celtico fosse una sorta di “magic bag” che può contenere tutto e in cui tutto si può trovare: nel “fabulous Celtic twilight” tutto è possibile. Cunliffe affronta un tema delicato: alcuni recenti studi hanno infatti tentato di “destrutturare” il concetto di “Celti” come unità culturale, in un contesto che ha anche risvolti politici. Questa ventata di “negazionismo” ha in realtà le sue basi in una serie di equivoci e di inappropriati usi del concetto di Celti. Cunliffe, attraverso una analisi ampia anche se sintetica della documentazione, mostra come in realtà, quando si supera il modello stereotipo (e spesso moderno) di “Celticità”, emerga piuttosto nettamente una cultura atlantica definibile come “celtica”. Forse sarebbe stato utile, in questo contributo, un maggiore ricorso agli studi teorici sull’identità culturale dei gruppi umani, campo di indagine che negli ultimi anni ha conosciuto una grande fortuna e offre ora allo studioso diversi strumenti per affinare l’analisi su temi come questi che, come scrive lo stesso Cunliffe, “are intriguingly complex” (p. 207).  

 

          Gli antichi Germani sono il tema affrontato da Peter Wells. Anche in questo caso, al centro dell’attenzione vi è il rapporto tra come i popoli germanici hanno presentato se stessi attraverso la cultura materiale e come gli autori romani (Cesare, Tacito) li hanno “creati” per il loro pubblico. Attraverso la presentazione di recenti indagini archeologiche, Wells dimostra che (in maniera tutt’altro che sorprendente) alcuni stereotipi forgiati dalle fonti romane non sono esattamente corrispondenti alla realtà, che invece si mostra più articolata e complessa. La conclusione è efficacemente sintetizzata in una formula: i Romani hanno “inventato” i Germani.  

 

          Larissa Bonfante firma un ampio capitolo sugli Etruschi. Il punto centrale è ben messo in evidenza dall’Autrice: gli Etruschi, essendo non-Greci, erano tecnicamente da considerare “barbari”; ma considerato il loro livello culturale, più che agli omerici Ciclopi potevano essere accostati ai Feaci. E soprattutto, nel capitolo viene ben messo in evidenza il ruolo di intermediari che gli Etruschi ebbero, proprio grazie al loro rilevante livello culturale e alla loro apertura verso mondi come quello greco, quello orientale, quello fenicio. La Bonfante riassume in poche pagine gli elementi che caratterizzano il mondo etrusco, soffermandosi in particolare sul ruolo della scrittura, che nel contesto di un discorso sul livello culturale di una popolazione ricopre ovviamente un’importanza non secondaria. Altro tema esplorato è quello dell’immaginario figurativo, e delle implicazioni mitologiche. Spazio è inoltre dedicato ad un tema molto affascinante, quello dei sacrifici umani: tema importante, perché spesso considerato indice di "barbarie"; forse però sarebbe stato più opportuno presentare la questione in maniera più sfumata, considerato che sulla storicità dei sacrifici umani in ambito etrusco non vi è unanimità tra gli studiosi. Il secondo paragrafo di questo capitolo è molto importante, perché focalizza l’attenzione sui rapporti tra Etruschi e popolazioni del nord: una direzione spesso meno considerata rispetto ai legami con il Mediterraneo. Eppure, come la Bonfante ben mette in luce, le influenze reciproche tra Etruria e nord sono importanti e proficue, a livello sia di acquisizioni culturali (la scrittura), che di iconografie e più in generale di modelli di rappresentazione degli stili di vita. Si passa poi ad un altro tema caro all’A. ovvero quello del ruolo delle donne nella cultura etrusca. Anche in questo caso, i rapporti con aree come quella veneta risultano molto interessanti. Le ultime pagine sono dedicate all’uso di sculture monumentali come segnacoli funerari: una consuetudine questa che sembra accomunare Etruschi e Italici da un lato ai Greci, dall’altro ad altri popoli del nord Europa: anche in questo ambito si mostra il ruolo di mediatore che gli Etruschi ebbero tra la classicità greca e l’Europa centrale.

 

          Questo ruolo degli Etruschi viene ripreso poi da O.H. Frey nel suo capitolo sull’arte delle situle, che ha opportunamente diversi richiami al capitolo precedente. Si tratta di una produzione estesa in un’area che va dall’Italia del nord alla Svizzera all’Austria fino in Slovenia. Frey analizza con cura i temi iconografici presenti sulle situle (processioni, giochi atletici, guerrieri, vita quotidiana), riuscendo a mettere bene in luce i rapporti con l’arte etrusca, che anche in questo caso si presenta come mediatrice di influenze più ad ampio raggio, e specificamente di influssi greci. 

 

          Un saggio ampio e suggestivo è quello di Nancy Thomson de Grummond, che analizza il mito della testa parlante nelle sue numerose varianti a cavallo tra culture greca, etrusca, trace, lateniana. L’A. innanzitutto traccia una distinzione tra tre tipi di raffigurazioni di teste: quella in cui prevale la funzione di espressione di parola o di canto (“The head as a voice”); quella di tipo ctonio; quella evidentemente tagliata, che è il caso classicamente noto nel mito di Orfeo ma più in generale in diversi miti e favole del mondo. La rassegna mostra come il mito della testa vaticinante fosse stato rifunzionalizzato in diverse culture. In particolare, il motivo si presenta con forza nel contesto etrusco, dove sembra assumere valenze oracolari e profetiche. Contesti più “barbari” come quello trace e quello celtico sembrano invece avere caricato il motivo della testa isolata di valenze più legate alla sfera della guerra. Quanto ai Greci, la dimensione orfica del motivo è ben nota; ma forse, secondo l’A., anche nel caso greco non è lontana una dimensione più “barbara”, quando si consideri i numerosi riferimenti allla decapitazione di nemici nell’Iliade. Da questa osservazione, la de Grummond conclude che «the early Greeks so much studied and admired for all the centuries af Greek culture were in fact quite “barbaric”» (p. 338): affermazione, questa, che per la verità lascia un po’ di dubbi, e sembra in qualche modo porsi in contraddizione con lo spirito generale del volume. Comunque si tratta di un lavoro importante, che getta le basi in maniera ideale per ulteriori discussioni sul tema.

 

          Dopo tanti archeologi, uno storico, John Marincola, fornisce una breve ma ragionata analisi del primo impatto che i Romani ebbero sulla cultura greca. Marincola nota giustamente che tra i popoli trattati nel volume, i Romani hanno una posizione particolare, per via del frequente dialogo tra loro ed i Greci, e per la presenza romana sul suolo greco, tutt’altro che occasionale. L’influenza greca su Roma nasce quasi in contemporanea con la città, ma è anche vero che «Greek influence doesn’t make you Greek» (p. 349). Prima a Polibio e poi a Dionigi d’Alicarnasso sono dedicate riflessioni più specifiche, a cui seguono osservazioni sul punto di vista romano verso la Grecia, in cui ovviamente Fabio Pittore (primo storico romano, che usò proprio il greco per la sua opera) e Catone sono gli autori più importanti per mostrare quella che l’A. definisce “Roman obsession with the Greeks” (p. 351). 

 

          Col saggio di Walter Stevenson si finisce in epoca più tarda, ovvero con la tarda antichità: oggetto sono infatti i Goti, e in particolare il loro rapporto con un elemento tipicamente classico quale il consumo di vino.

 

          In alcuni “final thoughts” Barry Cunliffe richiama le grandi intuizioni di Fernand Braudel sul Mediterraneo per sottolineare la forte presenza di network, non solo economici o politici ma anche culturali, individuabili tra i popoli che rientrano nell’ambito del libro. Cunliffe sottolinea due aspetti importanti di quest’opera: da un lato, aver mostrato che le varie culture antiche non possono essere pienamente comprese considerandole in isolamento; d’altro lato, aver confermato quanto sia lacunoso il database delle nostre conoscenze. Una più precisa comprensione del passato può essere ottenuta solo grazie al lavoro combinato di diverse discipline: avrei aggiunto una citazione proprio di Braudel, che già negli anni ’50 del ‘900 sottolineava che nelle scienze umane non c’è altra via fuori dal lavoro di équipe.  

 

          Ad appendice del libro, Ann Farkas firma una nota sul quadro di Delacroix, “Ovidio tra gli Sciti”, in cui il grande pittore francese ritrae il poeta romano nel suo esilio tra “barbari”: una aggiunta inconsueta ma molto gradevole al libro.

 

          In definitiva, si tratta di un volume molto stimolante e pieno di buone idee, che intercetta un interesse più generale per l”antropologia” antica, offrendo stimoli alla discussione sul modo in cui le antiche culture classiche hanno considerato e raccontato altre civiltà con cui entravano in contatto. Tra i pregi del volume, vi è quello di restituire al lettore un quadro vario e complesso che supera l’opposizione tra cultura classica e culture “altre”, evidenziando quali e quanti siano stati i contatti e le reciproche interferenze: un risultato, questo, ottenuto anche grazie al dialogo tra i contributi, che spesso hanno rimandi reciproci. Il libro, editorialmente ben curato, è arricchito da un apparato iconografico molto ampio, in cui spiccano ventitré belle tavole a colori e circa cento fotografie in bianco e nero inserite nel testo.

 

 

Indice dei contributi


1.  Classical and Barbarian (Larissa Bonfante) (pp. 1-36);

2.  Greek Geography of the Western Barbarians (Paul Keyser) (pp. 37-70);

3.  The Funeral of Scythian Kings: The Historical Reality and the
Description of Herodotus (4.71-72) (Askold Ivantchik) (pp. 71-106);

4.  The Scythians: Between Mobility, Tomb Architecture, and Early Urban
Structures (Renate Rolle) (pp. 107-131);

5.  Philomele’s Tongue: Reading the Pictorial Text of Thracian Mythology
(Ivan Marazov) (pp. 132-189);

6.  In the Fabulous Celtic Twilight (Barry Cunliffe) (pp. 190-210);

7.  The Ancient Germans (Peter S. Wells) (pp. 211-232);

8.  The Etruscans: Mediators between Northern Barbarians and Classical
Civilization (Larissa Bonfante) (pp. 233-281);

9.  The World of Situla Art (Otto-Herman Frey) (pp. 282-312);

10.   A Barbarian Myth? The Case of the Talking Head (Nancy Thomson de
Grummond) (pp. 313-346);

11.   Romans and/as Barbarians (John Marincola) (pp. 347-357);

12.   The Identity of Late Barbarians: Goths and Wine (Walter Stevenson) (pp. 358-369);

13.   Some Final Thoughts (Barry Cunliffe) (pp. 370-374);

Note on Delacroix, “Enslaved among the Barbarians” (Ann E. Farkas) (pp. 375-380).