Fuhrer, Therese (Hg.): : Rom und Mailand in der Spätantike. Repräsentationen städtischer Räume in Literatur, Architektur und Kunst, 448 S., ISBN 978-3-11-022213-5, 79.95 EUR
(de Gruyter, Berlin 2012)
 
Compte rendu par Massimiliano Papini
 
Nombre de mots : 4394 mots
Publié en ligne le 2013-08-28
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il volume raccoglie gli atti di un colloquio internazionale tenuto alla Freie Universität di Berlino nel 2009, aperto da un’introduzione riassuntiva della curatrice Therese Fuhrer e diviso in quattro parti rispettivamente dedicate: a una Roma ormai con imperatori per lo più fisicamente assenti ma presenti grazie alle realizzazioni architettoniche; alle sue rappresentazioni letterarie; al paesaggio di memoria urbano; alla città tardo-antica come Diskursort (cristiano). In breve, sono in primo piano gli spazi di Roma (e Milano) - e i loro riflessi nella letteratura - quali vetrina per l’esibizione del potere e quali specchio della società, delle sue gerarchie e delle interazioni tra imperatore, élite, sia pagana sia cristiana, e popolo.

 

          Il più lungo contributo, firmato da Franz Alto Bauer, offre una panoramica sulle iniziative edilizie nella Roma Herculia e Iovia, ossia sotto la diarchia e la tetrarchia (285-306 d.C.), con significative e giuste divergenze dallo stato delle conoscenze esposto al meglio in una sintesi di Filippo Coarelli del 1999. Dopo l’incendio del 283 d.C., con due focolai distinti presso la basilica Iulia e al foro di Cesare, la programmazione urbanistica, grazie anche alla riattivazione delle figlinae, interessò plurimi settori; l’impegno più consistente fu al Foro Romano, tramutatosi in spazio rappresentativo dei tetrarchi e della concezione teocratica del potere (al centro anche della parte finale del contributo di Susanne Muth, pp. 276-278). Bauer analizza, edificio per edificio, l’entità dei rifacimenti (curia Iulia, basilica Iulia) e le vere e proprie novità già ben note, come la costruzione di un’altra tribuna rostrata a est con cinque imponenti colonne al pari della tribuna occidentale (sono proprio i rostra il monumento più in grado di qualificare la città quale dominatrice dell’orbis terrarum, per cui vd. anche p. 252); lì le colonne recavano la statua di Giove e le quattro dei geni degli imperatori, a comporre un monumento correlabile ai vicennali del 303 d.C. e celebrativo del sistema tetrarchico all’insegna della concordia di un potere uno e quadruplice; al riguardo è legittimo il dissenso di Bauer sull’identificazione avanzata da Paolo Liverani nel 2007 per i rostri raffigurati nella scena di adlocutio sul fregio costantiniano con quelli orientali e non, come più comunemente, con gli occidentali, più antichi e colmi di tradizione. Per Bauer non sono invece attribuibili a una fase dioclezianea (vd. anche la fig. 41) le sette colonne sul lato meridionale del Foro, parimenti forse destinate a statue, in sintonia con quanto già emerso dalla sua monografia del 1996, dove ne aveva sottolineato le notevoli oscillazioni cronologiche in assenza di argomenti davvero risolutivi: preferire un progetto dioclezianeo unitario o un intervento di Massenzio diventa così questione di gusti. Dopotutto, il dilemma Diocleziano/Massenzio si ripropone anche per il foro di Cesare per l’assenza di bolli laterizi in situ; lì la portata degli interventi dioclezianei suggeriti dal Cronografo del 354 d.C. per Bauer non sarebbe ben appurabile se non nel braccio sud-est del portico dietro alla curia; occorre tuttavia tenere conto anche degli scavi eseguiti tra il 2004 e il 2008 nel tratto meridionale della piazza, ora sintetizzati da R. Meneghini, La trasformazione dello spazio architettonico del foro di Cesare nella tarda antichità, in Scienze dell’antichità 16, 2010, pp. 503-511, per il quale la ricostruzione del complesso, sulla scorta dei risultati - non da tutti condivisi - di Elisabetta Bianchi (L’opus latericium nel foro di Cesare. Nuovi dati e osservazioni per le fasi costruttive del II e IV secolo d.C., in ibidem, pp. 392-394), va correlata agli anni della «rinascita» massenziana più che a Diocleziano e Massimiano; fatto sta che i ventitre anni nel caso intercorrenti tra incendio e regno di Massenzio sono abbastanza per non immaginare alcuna azione. Sia come sia, la valorizzazione da parte di Johannes Lipps nel 2008 di un plinto recante un’originaria iscrizione in onore di Massenzio e reimpiegato alla fine nel portico del foro di Cesare testimonierebbe pertanto uno dei più tardi e limitati interventi altrimenti noti per via epigrafica. Altre sistemazioni interessarono il settore delle infrastrutture urbane quali gli acquedotti, il consolidamento della riva del Tevere per centodieci piedi e la scaena Pompei.

 

          A questo punto Bauer prende in esame le porticus II nominate tra i rifacimenti tetrarchici dal Cronografo del 354 subito dopo la scaena; nelle strutture raffigurate sul frammento della FUR, a volte considerate rappresentazioni di quattro filari di platani (o basi di statue o fontane), l’autore, che pur sembra travisare il pensiero di Pierre Gros nella voce del Lexicon Topographicum, individua in modo condivisibile due aree delimitate da colonne e non coperte, un po’ alla maniera del canopo di Villa Adriana (a contenere il nemus duplex attestato da Marziale?). I portici rimessi a nuovo vanno di conseguenza identificati non con queste strutture, bensì con i porticati tutt’intorno, forse in base alle iscrizioni CIL VI 255 e 256 ribattezzati porticus Herculia e Iovia, perché contenenti le statue dei Geni di Massimiano e Diocleziano dedicate dal vir clarissimus Lucio Elio Elvio Dionisio. Quanto all’arcus Novus sulla via Lata, la menzione dei decennali e vicennali rende incerta la datazione tra il 293 e il 303 d.C. per la sua dedica verosimilmente da parte di senato e popolo, con la prima opzione in effetti preferibile specie grazie alla sequenza delle indicazioni nell’iscrizione aggiunta su uno dei rilievi (VOTIS X ET XX). Ciò toglierebbe credito alla pur suggestiva motivazione tempo fa addotta da Hans-Peter Laubscher (1976) per il riutilizzo almeno dei rilievi con nationes forse dall’arcus Claudii, decretato nel 43 e dedicato nel 51/52 d.C. dal senato a seguito delle vittorie di Claudio in Britannia; secondo lui, il riuso poté giustificarsi con la volontà di celebrare la vittoria di Costanzo Cloro su Carausio e Allecto con annessa riconquista della Britannia nel 296 d.C. - in piccolo, il dibattito ricalca in parte quello nato intorno al reimpiego dei rilievi sull’Arco di Costantino, con o senza ideologia -. Tuttavia, le due serie di rilievi riciclati presentano scene atemporali e non narrative (vd. anche le lastre con templi attribuite a una presunta ara reditus Claudii, in origine ubicata magari nell’area della porta Carmentale), per cui, con la cronologia anticipata al 293 d.C., la loro presenza svela prima di tutto come i committenti continuassero a vedere - o almeno si augurassero di vedere - gli imperatori in ruoli tradizionali. Bilancio finale: dal complesso dell’attività edilizia traspare la volontà da parte dei tetrarchi di raccordarsi ai predecessori provando a superarli (terme di Diocleziano), in una città che con il suo bagaglio di tradizioni e di galatei procedurali imponeva dei limiti a più estreme messe in scena del potere, altrove meglio sperimentabili. Situazione in cui si sarebbe trovato a maggior agio il conservator urbis suae, Massenzio, cui in genere si attribuisce un’ostentata condotta sotto il segno della romanitas quale strumento di legittimazione e con un concetto di sovranità finanche «antitetrarchica», per citare il titolo di un articolo di Werner Oenbrink del 2006. Sennonché, un suo profilo meno conservatore e più in linea con la rappresentazione dell’imperatore tardo-antico è tracciato nel seguente articolo di Hauke Ziemssen, volto a indagare le caratteristiche formali dell’architettura in connubio con i presupposti ideologici e performativi del tempo e a rimettere in discussione - non sempre con congruità - taluni assunti. Si sa come Massenzio estese l’area meridionale del Palatino mediante un sistema di poderose arcate a ridosso del Circo Massimo, una misura in grado di pubblicizzare al massimo che l’imperatore era tornato a risiedere a Roma; ma interpretarla anche come un modo per visualizzarne una più accentuata «distanza» dai concittadini (p. 91) è soggettivo. Ancora: l’abbinamento palazzo tardo-antico/circo? Per l’autore, concorde con lo scetticismo di Noël Duval sull’esistenza di una «pianta-tipo» del Basso Impero (senza dubbio l’architettura palaziale non fu monolitica), uno schema meno canonico di quanto di norma sostenuto, come capita anche nel contributo di pura sintesi di Annette Haugh su Roma e Milano; attenzione però a non cadere nell’iperscetticismo per colpa della modestia dei resti dei circhi annessi ai palatia tetrarchici. Inoltre, la combinazione di un settore residenziale, di un monumento funerario e di un impianto sportivo sulla via Appia non costituirebbe il corrispettivo dei palazzi di Treviri e Milano - il che è ovvio, visto che si tratta di un ibrido tra palazzo e villa -, in quanto oltretutto eventualmente condizionata dalle preesistenze del Triopio di Erode Attico. L’altra idea riguarda la basilica di Massenzio e le sue funzioni, non prese in esame dalle due monografie edite sul monumento nel 2005; altri autori in singoli articoli ne hanno invece rimarcato la natura di luogo per molteplici attività (amministrative, giuridiche e commerciali) o di sede giudiziaria connessa alla prefettura urbana - funzione tutt’altro che banale, dice bene F. Coarelli, La basilica di Massenzio e la praefectura urbis, in G. Bonamente, R. Lizzi Testa (a cura di), Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d.C.), Bari 2010, p. 135 -. Per Ziemssen però il timbro più specifico del periodo tetrarchico si imprime sulla sala absidata all’estremità occidentale, equiparabile alla cd. aula palatina di Treviri, sulla scia di un’intuizione di Henner von Hesberg (2006), che pur aveva riscontrato anche qualche differenza di fondo. Nelle discussioni sui palazzi imperiali e sulle domus e ville tardo-antiche si fa oggi un gran parlare della proliferazione delle sale di rappresentanza a pianta absidata per la loro destinazione cerimoniale, con un ragionamento scaduto un po’ a cliché se generalizzato e non a torto criticato da K. Bowes, Houses and Society in the Later Roman Empire, London 2010, soprattutto pp. 54-60, che per l’architettura domestica ha invocato fattori formali ed estetici più che ideologici; e se ne parla con tale insistenza da aver fatto interpretare diversamente un loro pur remoto antecedente nel campo dell’edilizia sacra; per esempio, nell’apside del tempio di Marte Ultore, identificabile per Joachim Ganzert con il penetrale per i signa restituiti dai Parti, è stata riconosciuta la sede in cui Augusto poté presentarsi quale effettivo praesens divus in un tempio addirittura da ritenere sprovvisto di qualsivoglia statua: questa l’infelice proposta di A.J. Droge, Finding his niche: on the “autoapotheosis” of Augustus, in Memoirs of the American Academy in Rome 56/57, 2011/2012, pp. 96-110. Torniamo alla basilica di Massenzio, non riducibile a «Forumsbasilika»: la sua abside poté essere il punto culminante di cerimonie focalizzate sull’apparizione del monarca in carne e ossa quale icona, oggetto di veneratio e adoratio in un rituale di corte compiuto dai visitatori secondo gli ordines dignitatum. Questo implicherebbe l’arrivo in un secondo momento del colossale acrolito con il ritratto rilavorato di Costantino nell’apside, già per Heinz Kähler (1952) in origine destinata ad accogliere un tribunal; peccato che neppure i ripetuti studi degli ultimi anni sui riccioli del colosso abbiano consentito di stabilire con sicurezza l’identità dell’effigie di partenza, benché una statua di Massenzio rivolta in direzione dell’altra componente del suo «foro», il tempio di Venere e Roma, risponda almeno al buon senso. A ogni modo, è innegabile la carica innovativa del progetto della basilica; e, statua o non statua, altrettanto incontestabile ne è la natura di luogo (anche) di rappresentanza dell’autorità imperiale, come d’altronde nella tradizione delle basiliche dotate di sedi talora denominate aedes Augusti. Eppure, che la sua essenziale funzione, ancorché forse mai espletata vista la brevità del regno di Massenzio, risiedesse nell’essere una sorta di sacrarium consono ai rituali di corte non è plausibile; in aggiunta, se la navata centrale sopraelevata è enfatizzata, quelle laterali con i massicci pilastri di sostegno a differenza dei colonnati non riescono a creare un’immagine spaziale unitaria in grado di orientare il movimento e una comunicazione senza ostacoli con l’abside (e questa fu una delle plurime ragioni che poté spingere i costruttori delle basiliche paleocristiane a prediligere il modello colonnato e non quello della basilica Nova, come sottolineato da H. Brandenburg, La basilica di Massenzio, in H. von Hesberg, P. Zanker [a cura di], Storia dell’architettura italiana. Architettura romana. I grandi monumenti di Roma, Milano 2009, p. 117); in più, non è stato escluso (Carla Maria Amici, seguita da Brandenburg) che sin dall’inizio la basilica potesse essere accessibile dal pronao tetrastilo sul lato lungo posto sul Foro, come secondo la prassi per edifici di questo genere - all’opposto, Ziemssen a p. 95, nota 35, crede ancora a un ripensamento successivo in base alla tecnica edilizia della scala -.

 

          Senza accenni alla Roma di Costantino, novator e non renovator per Giuliano (proprio qui stava il problema!), dalla tetrarchia il libro salta ai rilevanti risultati ottenuti dagli scavi in collaborazione tra l’École Française de Rome e la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma a Villa Medici, sede della domus Pinciana contigua agli horti Sallustiani. La sua alienazione dopo il sacco del 410 d.C., dopo la partenza della nobile proprietaria, Anicia Faltonia Proba, la accomuna in parte alla domus parzialmente scavata sul Celio in cui si è riconosciuta una proprietà della famiglia dei Valeri; ma se quest’ultima fu saccheggiata dai Goti, venduta quasi per nulla e abbandonata, la domus Pinciana conobbe una sorte migliore. Nel settore a nord della villa il monumentale ninfeo nell’area del giardino di Trinità dei Monti, costruito in epoca giulio-claudia e restaurato verso la metà del V sec., è identificato da Vincent Jolivet e Claire Sotinel con il nymphaeum Iovis (discorda però Bauer a p. 33, giacché quel ninfeo nei cataloghi regionari tra gli edifici della VII Regio compare subito dopo l’arcus Novus). Il resto del prestigioso complesso nel piazzale di Villa Medici, parte del palatium con musileum ricordato dal Liber pontificalis, è successivo al 410 d.C. per la presenza di laterizi con timbro iscritto REI/PVB; la domus Pinciana entrò in proprietà imperiale per rimanervi sino al VI sec. - quando Teodorico la fece spogliare dei suo marmi -, e i due studiosi si sono interrogati sulle ragioni del suo rinnovamento. Certo, quella zona era di importanza strategica, come mostrato dall’invasione dei Goti, e si poté considerare preferibile costruire lì piuttosto che restaurare gli horti Sallustiani danneggiati nel sacco (mentre Procopio narra di saccheggi e distruzioni presso Porta Salaria, non sussistono indizi su eventuali guasti inferti alla domus Pinciana). Ma se i motivi pragmatici e funzionali non bastassero? Entrano allora in gioco gli investimenti sia materiali, sia simbolici nell’Urbe da parte degli imperatori occidentali della dinastia teodosiana: ripristino delle mura Aureliane e del teatro di Pompeo; completamento dei lavori alla basilica di S. Paolo, inaugurata forse alla presenza di Onorio nel 403-404 d.C., come deducibile da un’interpretazione di un brano di Prudenzio; ampliamento di un mausoleo imperiale nella testata del braccio meridionale del transetto della basilica di S. Pietro quale segno di avvicinamento all’aristocrazia senatoria cristiana, tanto più che verso la fine del IV sec. in posizione privilegiata al vertice dell’abside era sorto anche il mausoleo in forma di aula absidata appartenente proprio agli Anicii; si aggiunga che intorno al 400 d.C. pure a S. Paolo a sud del transetto fu costruito un mausoleo con disposizione interna a croce, chissà se destinato al vero e proprio fondatore della basilica, il pius Teodosio. Data la visibilità della basilica di S. Paolo dalla loggia del Pincio, l’interesse per quell’area panoramica poté rispondere alla voglia degli imperatori di esibire per via monumentale il controllo di una nuova topografia urbana, per certi versi confrontabile con la situazione di Costantinopoli (vd. le linee di collegamento sulla cartina a p. 154, fig. 9): a Roma dopo il 410 d.C. Onorio fu però solo per due volte e per poco, a differenza del successore Valentiniano III, che vi celebrò la maggior parte dei suoi consolati; vale perciò la pena di ricordare che suo praeceptor fu forse un esponente di punta della famiglia degli Anicii o con essa imparentato, Flavio Petronio Massimo, il quale ne prese poi il posto per breve tempo - S. Panciera, Petronio Massimo precettore di Valentiniano III, in Id., Epigrafi, epigrafia, epigrafisti. Scritti vari editi e inediti (1956-2005) con note complementari e indici, II, Roma 2006, pp. 1153-1164 -.

 

          Da un caso concreto a una rappresentazione letteraria dell’Urbe nel IV sec. in bilico tra realtà e illusione, vista con occhi stranieri, quelli di Ammiano Marcellino in due celebri digressioni con omogeneità di intenti e con taglienti amplificazioni caricaturali (XIV,6; XXXVIII,4; per il ventottesimo libro vd. ora anche J. de Boeft, J.W. Drijvers, D. den Hengst, H.C. Teitler, Philological and Historical Commentary on Ammianus Marcellinus XXVIII, Leiden-Boston 2011, pp. 165-229). Excursus intrisi delle convenzioni della satira romana che, pur senza prestiti diretti da Giovenale, insistono sui vizi dei senatori (ora quidam, ora pauci, ora multi) spocchiosi, sfacciati nello sfoggio di ricchezza, inclini al gioco e incuranti dei tesori custoditi nelle proprie biblioteche (trapela qualche motivo di risentimento personale, in quanto con l’aristocrazia romana Ammiano non pare aver intrattenuto rapporti privilegiati): la città, per la quale lo storico a più riprese si avvale di confronti con il mondo teatrale, è fatta più di nobilitas e plebs nonché di costumi e comportamenti spettacolari, stravaganti e artificiosi che di monumenti; e quando questi entrano in scena, sono iperbolici e contribuiscono con la loro presenza a sottolineare lo iato incommensurabile tra presente e passato: le terme erano grandi come province, il Colosseo talmente alto che non lo si poteva afferrare cogli occhi, mentre davanti al foro di Traiano capitolava anche la fama, per quanto di per sé avvezza a esagerare; del resto, nell’antica capitale tutto era eccessivo, persino gli strumenti musicali, i codazzi al seguito degli aristocratici o il numero dei loro segretari nei banchetti. Cosmo singolare, enorme parco-divertimenti e paradiso di otium perverso che per l’avvenuta separazione tra corte e senato contrastava con la lontana realtà delle province esposte a gravi minacce e sfuggiva a ogni sforzo di misurazione con normali parametri: siccome la pur sempre venerabile città equivaleva a un luogo completamente «altro», Jan Stenger ricorre al concetto di eterotopia, coniato da Michel Foucault, comunque non necessario al già eccellente contributo. Nell’ottica di Ammiano il suo fondamento continua a essere la aeternitas, tenacemente e malgrado tutto (l’opera termina con la disastrosa battaglia contro i Goti ad Adrianopoli nel 378 d.C.); ma sempre secondo lo storico (vd. D. den Hengst, Emperors and Historiography. Collected Essays on the Literature of the Roman Empire, Leiden-Boston 2010, pp. 259-268, per cui, con una bella immagine, l’Urbe nelle Res gestae si presenta quale «wise and rich golden ager») la Roma del suo tempo si profilava inferiore non solo alla Repubblica, il tradizionale thesaurus exemplorum, ma anche al passato più recente e, in sintonia con un’idea già da tempo in circolazione, volgeva alla vecchiaia (in senium vertens) con il raggiungimento di uno stato di quiete dopo l’infanzia, l’adolescenza e la maturità ricca di successi militari; non manca quindi un timido cenno a una terza struttura temporale, ciclica stavolta (ritorno alla tranquillità dei tempi di Numa), a conciliare in qualche modo gli altri due modelli contrastanti!

 

          Meno ricca di novità la terza parte del volume sulla dialettica tra passato e presente, finalizzata a riscoprire gli echi della topografia urbana per esempio nei Commentarii di Servio a Virgilio (Ute Tischer, il cui scritto non pare andare oltre una monografia di Andrea Pellizzari del 2003): l’erudizione antiquaria spinge il grammatico a citare i monumenti urbani compresi tra la protostoria leggendaria e l’età augustea, di cui egli sottolinea talvolta la sopravvivenza sino al suo tempo con il verbo al presente (in riferimento allo svolgimento dei culti pagani l’uso dell’imperfetto, come in altri commentatori, ne sottolinea invece l’abbandono - A. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011, pp. 575-577 -), con un disinteresse topografico non sorprendente in un commento focalizzato sui verba e sulle spiegazioni etimologiche ed eziologiche. La visione poetica di Prudenzio si concentra sulla ridefinizione e sull’appropriazione cristiana della topografia urbana da affrancare da un error e dai demoniaci proprietari del Campo Marzio, del Palatino e del Campidoglio (Ulrich Schmitzer), quando la cristianizzazione di Roma non era ancora del tutto completata. Ancora, Sidonio Apollinare nei carmi e nelle epistole rinuncia al topos della grandezza e dello splendore e celebra un paesaggio mitico svincolato dalla realtà e filtrato tramite reminescenze letterarie con rimandi semmai all’esemplare storia repubblicana, scelta che secondo Ralph Behrwald poté discendere per contrasto da una riflessione sul declino urbano del V sec.: l’unica descrizione «realistica» - ma non troppo - nell’epistola I,7 presenta una Roma in cui il Campidoglio aveva ormai perso il ruolo di centro sacrale, mentre in altre lettere è citato l’Athenaeum, la cui vitalità nella seconda metà del V sec. è testimoniata anche da due iscrizioni su basi di statue emerse nei nuovi scavi di piazza Madonna di Loreto e studiate da Silvia Orlandi (in Bollettino di archeologia on line, c.d.s.).

 

         Infine, convince meno il contributo di Susanne Muth sul Foro, specie nella parte dedicata all’iscrizione del tempio di Saturno che ne attesta un restauro nella seconda metà del IV sec. (360-380 d.C.) dopo un incendio (non per forza quello di Carino), operazione intorno alla quale negli ultimi tempi sin troppo si è disquisito a causa della omessa menzione del dio titolare in relazione a eventuali implicazioni politico-religiose e alle conseguenti possibili strategie di convivenza tra diversi gruppi religiosi. L’autrice si chiede perché quell’epigrafe non dica niente sulla storia gloriosa di un edificio tanto antico risalente al VI-V sec. a.C. e ricostruito da Lucio Munazio Planco, limitando a prima vista l’interesse al presente. Ebbene, rispondere è semplice: occorre tenere conto di ciò che i «documenti» possono e non possono dire a seconda del genere di appartenenza, e molte iscrizioni simili non prevedono quelle informazioni. «Historische Sprachlosigkeit» dunque? La locuzione adottata dalla Muth non sembra conveniente, poiché il linguaggio di quelle iscrizioni si presenta con i tratti di una historia rivolta primariamente alla posterità, come emerso nel basilare contributo di Edmund Thomas e Christian Witschel nel 1992. Per un istante la studiosa si mostra conscia dei vincoli delle convenzioni (p. 269), che non la distolgono però dal formulare un’altra domanda sul motivo della loro resistenza, con seguente (complessa) soluzione: al Foro Romano la percezione omogenea e diffusa del passato, senza l’accentuazione di una fase temporale specifica, rendeva superflue la differenziazione storica e la precisione con rimandi a epoche determinate, dinastie o imperatori. Per converso, è condivisibile una sua osservazione finale per cui è inappropriato parlare lì di una presentazione museale del passato (p. 278) a fronte del concetto di «ville-musée» o di «Museum» talora ricorrente, anche in questo volume, come per esempio a p. 245 e nota 33 («Musealisierung») o in modo più sfumato a p. 201 («als wäre es ein Museum»).

 

          La sezione finale, oltre che su S. Agostino, si incentra in particolare su Damaso e Ambrogio, con qualche lieve rettifica del quadro tradizionale, volta a relativizzare l’importanza delle due personalità nel contesto dei variabili rapporti di potere. Nella parziale reazione di Neil B. McLynn a precedenti lavori di Rita Lizzi Testa, Steffen Diefenbach e Kim Bowes, Damaso diventa un «junior partner» senza il monopolio su una sola Roma cristiana e uno tra i diversi attori protagonisti in un paesaggio densamente popolato da clarissimi, presbiteri e diaconi, non mere estensioni della sua autorità episcopale. E Milano? Per Claudia Tiersch la fortunata definizione di «métropole d’une chrétienté impériale» (Charles Petri) non rende conto della sua maggiore complessità, emblematica dei processi di trasformazione religiosa nella tarda antichità, quale ricavabile dagli scritti e dalle prediche di Ambrogio nonché dai dati archeologici ed epigrafici; in più, il vescovo, per quanto esponente dell’ortodossia cattolica, polemizzò in modo aggressivo sì contro le istituzioni e la religione pagana come culto di stato, ma non contro i pagani, prediligendo al di là dell’affare dell’altare della Vittoria una linea per così dire soft e conciliatoria e non solo per dolcezza pastorale, ma anche per proprio tornaconto, al fine del rafforzamento della chiesa e dell’identità cristiana: non ebbe infatti illimitate possibilità di manovra, sia per la presenza persistente di una comunità ebraica e pagana, sia per il suo ruolo di vescovo alla corte imperiale con tutto il peso dei suoi valori tradizionali nel cerimoniale e nelle manifestazioni rappresentative (non sono però trattati i rapporti di Ambrogio con gli imperatori, non senza tensioni, e i limiti imposti dalla legge divina alla maxima potestas).

 

          Se molte ricerche recenti sono state dedicate all’attività di Damaso fuori e dentro la cinta muraria urbana, Ambrogio in chiave urbanistica e architettonica fu per Milano quel che Costantino fu per Roma; ma, spazi «mentali», topografia clericale e rappresentazioni letterarie a parte, in concreto gli edifici di Milano, dove tutto era degno di ammirazione secondo l’entusiastico giudizio di Ausonio, sono quasi assenti in questo volume, da leggere insieme a quello da poco edito di R. Behrwald, C. Witschel (a cura di), Rom in der Spätantike. Historische Erinnerung im städtischen Raum, Stuttgart 2012. Molti sono gli spunti degni di nota al suo interno; vi dominano architettura e letteratura, ma non l’arte promessa nel titolo e per esempio affrontata in modo generalmente stimolante ma da sottoporre a verifica per le singole conclusioni nel diciannovesimo capitolo del già citato libro di Alan Cameron.

 

         In definitiva, quale punto in comune tra Roma e Milano nell’architettura e nella letteratura? Se la geografia sacra vi si sviluppò diversamente, in entrambe le città secondo i panegirici perfino le case non potevano non piegarsi al passaggio degli imperatori.

 

 

 

Indice

 

F.A. Bauer, Stadt ohne Kaiser. Rom im Zeitalter der Dyarchie und Tetrarchie (285-306 n. Chr.).

H. Ziemssen, Die Kaiserresidenzen Roms in der Zeit der Tetrarchie (306-312 n. Chr.)

A. Haugh, Die Stadt als Repräsentationsraum: Rom und Mailand im 4. Jh. n. Chr.

V. Jolivet, C. Sotinel, Die Domus Pinciana: Eine kaiserliche Residenz in Rom

F. Mundt, Die Rolle der Stadt in der lateinischen Herrscherpanegyrik am Beispiel Roms und Mailands

J. Stenger, Ammian und die Ewige Stadt. Das spätantike Rom als Heterotopie

U. Tischer, Servius und Rom. Lokalitäten en passant

U. Schmitzer, Raumkonkurrenz. Der symbolische Kampf um die römische Topographie im christlich-paganen Diskurs

S. Muth, Der Dialog von Gegenwart und Vergangenheit am Forum Romanum in Rom – oder: Wie spätantik ist das spätantike Forum?

R. Behrwald, Das Bild der Stadt Rom im 5. Jh.: Das Beispiel des Sidonius Apollinaris

N.B. McLynn, Damasus of Rome: a fourth-century pope in context

S. Freund, Bekehrungsorte: Rom und Mailand in Topographie und Topik von Konversionschilderungen

H. Leppin, Et veni Medionalium ad Ambrosium episcopum – Augustins Mailand

T. Fuhrer, ,Denkräume’: Konstellationen von Personen, Texten und Gebäuden im spätantiken Mailand

E. Baltrusch, Jüdische Räume: Der Mailänder Synagogenstreit von 388 und seine historische Einordnung

C. Tiersch, Mailand im 4. Jh. – ein christliches Rom?