Glaser, Franz - Pochmarski, Erwin: Aquileia. Der archäologische Führer. 104 Seiten, 35 Abbildungen, 3 Karten, 225 mm x 155 mm, 978-3-8053-4277-3, € 19,99
(Verlag Philipp von Zabern, Darmstadt 2012)
 
Reseña de Maurizio Buora, Società friulana di archeologia
 
Número de palabras : 1358 palabras
Publicado en línea el 2013-02-21
Citación: Reseñas HISTARA. Enlace: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1715
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          La pubblicazione delle guide, dirette ai visitatori occasionali, che non sempre sono i turisti “mordi e fuggi”, costituisce dalla fine dell’Ottocento un interessante indicatore per valutare non solo il progresso della conoscenza, ma anche gli aspetti che nelle varie epoche vengono privilegiati. Aquileia ha conosciuto nel corso degli ultimi decenni un interesse intermittente a livello internazionale, collegato anche alla capacità degli studiosi che operano nella città antica di promuovere, proporre e diffondere nuove tematiche e informazioni. Dopo la guida del museo archeologico di Enrico (Heinrich) Maionica, già docente goriziano di lingua tedesca nel liceo di Gorizia,  apparsa nel 1911, questa è la seconda scritta da due autori di cultura austriaca indirizzata a un pubblico di lingua tedesca. Gli studiosi austriaci si sono occupati di Aquileia fino allo scoppio della prima guerra mondiale, dopo la quale la città romana venne definitivamente unita all’Italia. Essi hanno prodotto scavi, ricerche e opere ancora oggi fondamentali e il loro ritorno sulla scena aquileiese deve essere visto con il massimo interesse.

 

          Conformemente allo stile di Franz Glaser, più volte sperimentato in analoghe pubblicazioni dedicate a importanti zone e centri dell’Austria meridionale, come Teurnia e altri, compaiono qui ricostruzioni grafiche specialmente  della basilica.

 

           L’opera ha molti pregi che vanno oltre le dimensioni ridotte e la chiarezza espositiva e includono una aggiornata   informazione sugli ultimi sviluppi della ricerca. Gli autori sanno allargare gli orizzonti di una persona di media cultura che  si accinga a visitare un centro archeologico, che come molti altri è alquanto difficile da comprendere: il lettore potrà  avere con sé un libretto di agevole lettura ove ripassare o comprendere alcuni punti fondamentali con l’aiuto anche di agili sintesi storiche. A tale scopo giovano anche i 29 riquadri che a mo’ di note o schede sviluppano alcuni punti storici, aspetti antiquari  o denominazioni non usuali per il non specialista. L’opera non si limita a offrire semplici cognizioni di base e descrizioni per i visitatori, ma entra talvolta anche nei problemi, come a proposito dell’intepretazione del comitium, per cui qui  propone (p. 28) come alternativa di vedervi la sede dell’ordo decurionum ovvero della curia.

 

          Gli errori sono veramente pochi e spesso veniali, come il termine “essicatoio” (popolare) al posto del corretto “essiccatoio”. La veduta del foro di fig. 2 è da nord e non da sud, come si dice nella didascalia. La rappresentazione del torchio (per olive? P. 46) si trova non su una stele (come ricorda erroneamente una già consolidata bibliografia), ma sul fanco di un sarcofago, come si vede bene dall’originale. A p. 84 il riferimento è alla figura 34 non 33, come indicato nel testo. Gli scavi ottocenteschi venivano intrapresi in inverno (come si dice a p. 83) non per evitare la malaria, ma perché si adoperava la manodopera libera dalle attività agricole.

 

          Molti autori moderni hanno dimostrato idee confuse a proposito  della basilica del fondo Tullio: in realtà le basiliche sono due, una è quella scoperta nel 1894 di cui qui si parla alle pp. 89-90 e il cui mosaico è esposto in parte nel museo di Monastero; dell’altra, relativa al monastero benedettino della Beligna,  conosciamo solo l’ubicazione, - circa un chilometro più a sud - un’iscrizione altomedievale e un’immagine tardosecentesca. Quindi la distanza tra il luogo di rinvenimento dell’iscrizione di Parecorio Apollinare (qui citato alle pp. 71 e 90), forse allusiva a una basilica Apostolorum, e la basilica della Beligna o più propriamente del fondo Tullio di cui conosciamo i mosaici è di solo un chilometro e mezzo e non di quattro (come si dice a p. 90). Molte delle iscrizioni paleocristiane esposte nel  museo provengono dal cimitero cristiano della Beligna, ovvero dall’area in cui sorgeva la seconda basilica  (precisamente a est della strada diretta a Grado), che non è quella dei mosaici esposti.   A proposito della chiesa di sant’Ilario a sud del foro (p. 95) sembra ormai chiaro che in epoca altomedievale sia stata trasformata, come a Treviri, una porta urbica  in una chiesa cristiana. 

 

          Alcuni punti esprimono considerazioni che paiono soggettive. Opinabile – anche se giustificata vista dall’Austria – l’assimilazione del nome Aquileia ad altri transalpini desinenti in –eia come Noreia e  Celeia. Oggi, da parte italiana,  si preferisce riconoscere una radice venetica.

 

          La datazione delle mura bizantine non sembra più in discussione  (a p. 46 è definita “umstritten”). La provenienza delle statue imperiali dai dintorni del circo (p. 46) potrebbe derivare dal fenomeno del reimpiego. La questione della villa imperiale presso il circo è ora ristudiata da Ludovico Rebaudo con risultati diversi da quelli finora acquisiti (qui riportati a p. 48) e non sembra che da essa  provengano i medaglioni rotondi con le raffigurazioni dei dodici dei, la maggior parte dei quali viene dalla zona dell’attuale cimitero, ovvero di fronte al circo tardoantico.

 

           La guida è ovviamente molto attenta alle diverse parti della basilica e alle sue pertinenze (da p. 59 a p. 83) fino a includere il cimitero detto “degli eroi” del tempo della prima guerra mondiale, di cui opportunamente gli autori chiariscono il significato, ignoto per lo più ai visitatori provenienti dall’area di cultura tedesca. Molto interessante nella parte dedicata all’aula nord (paleocristiana) la spiegazione degli animali del presbiterio come raffigurazione del mondo alla rovescia, possibile solo nel Paradiso, con il rovesciamento dei rapporti di forza (“gli ultimi saranno i primi”) esistenti in questo mondo.

 

          Buoni gli intermezzi storici e anche altre parti chiarificatrici, come ad es. la storia di Giona (p. 65). Almeno tre volte gli autori citano l’ordinamento interno delle chiese siriache (e una quelle palestinesi); con riferimento a questo a p. 67 si fa l’interessante proposta di vedere  le raffigurazioni musive come indicazione per la collocazione dei diversi gruppi di fedeli, ovvero per gli uomini bambini, giovani e uomini e per le donne vergini, maritate, vedove e anziane. Buona anche l’osservazione che l’ampliamento verso oriente della basilica di Fortunaziano avvenne in un’area sotto il controllo militare, presso le mura e quindi dovette implicare una specifica concessione imperiale (p. 69). Ma sappiamo che a Costantinopoli l’ampliamento delle mura vide in parte di esse, in particolare nelle torri, una proprietà mista, pubblica e privata e questo sarebbe potuto accadere anche in Aquileia ove l’area fosse stata in precedenza già in possesso della chiesa di Aquileia o di qualche privato che l’avesse ad essa ceduta (es. il vescovo Teodoro). Il Dionysius raffigurato nella fascia dei santi venerati in Aquileia non pare certo Dionigi l’Aeropagita (p. 74), quanto un martire locale. Interessante anche l’interpretazione della problematica scena con l’Ibis, Markus e Simeon che gli autori riconducono ad Alessandria e a san Marco (p. 77). L’interpretazione della chiesa di Monastero come sinagoga pare oggi superata e anche il noto passo di Ambrogio, che allude alla distruzione di una sinagoga, pare riferibile esclusivamente a Callinico e non ad Aquileia (p. 86). Del tutto convisibile l’idea che la chiesa di Monastero potesse essere usata dalla comunità ariana, secondo l’ipotesi  di generale duplicazione dei luoghi di culto (cattolici e ariani) propugnata da Glaser (p. 86). L’ubicazione di una tomba femminile della nobiltà gota (pp. 86-87) è ben nota  e proviene dalla così detta Braida della Pila ove dal 1886 al 1888 si concentrarono gli scavi effettuati da Theodor La Tour: la zona dista dalla basilica di Monastero circa quattrocento metri e quindi difficilmente può appartenere a un cimitero relativo alla stessa chiesa.

 

          In conclusione la guida si rivela utile anche a chi crede di conoscere Aquileia, perché offre nuovi spunti di riflessione. Infine un auspicio. Conformemente a quello che è stato il corso della ricerca archeologica, si può dire fin quasi ai giorni nostri, nella guida della città di Aquileia è considerata quasi solo l’area entro le mura (con l’aggiunta però di Monastero e dell’area a est del porto), mentre oggi sappiamo che la maggior parte  si estendeva al di fuori di esse. Le indagini attuali cercano di analizzare alcune delle zone extramurane, con risultati già positivi. Ai visitatori non si possono per esse indicare monumenti esistenti in alzato, ma crediamo che susciterebbe l’interesse di molti avere qualche  ulteriore informazione anche sull’immediato suburbio.