D’Auria, Antonio: Architettura e arti applicate negli anni Cinquanta. La vicenda italiana, pp. 288 , 1° ed. Euro 26,00, isbn: 978-88-317-0963-7
(Marsilio Editori, Venezia 2012)
 
Recensione di Chiara Luminati, Università di Genova
 
Numero di parole: 1606 parole
Pubblicato on line il 2012-10-29
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1753
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          Antonio D’Auria, autore del volume “Architettura e arti applicate negli anni Cinquanta. La vicenda italiana” edito da Marsilio editore nella collana Saggi, sin dall’introduzione informa il lettore che per la realizzazione del suddetto ha scelto un approccio sincronico (vengono presi in esame esclusivamente i dati compresenti nel tempo senza prestare attenzione al loro processo storico) questo per evidenziare la compresenza di eventi progettuali e il rapporto  tra l’architettura, che segue un modo evolutivo, e il design (o disegno industriale), che si “muove” in modo innovativo. Queste premesse si trovano in una nota introduttiva dell’autore, dove si definisce il periodo cronologico analizzato e si spiega come si è tentato di realizzare un discorso organico sull’argomento grazie anche a note già pubblicate, interventi a convegni e conferenze e materiali per i corsi universitari da lui tenuti.

 

          Il volume è  suddiviso in tre capitoli, che sono preceduti da un’introduzione dove viene sottolineata la differenza tra i progetti d’architettura e quelli di design: “unicità dell’artefatto architettonico contro la riproducibilità di quelo di design; prevalente committente pubblico contro committente privato; pratica millenaria contro disciplina progettuale giovanissima” (p. 9).

 

          In questa introduzione l’autore ci fornisce le chiavi per potere comprendere il suo testo al meglio; vengono infatti spiegati i criteri per come poter “leggere l’architettura” (p. 12), e si delinea lo sfondo metodologico dello studio.

 

          Nel volume si vogliono così privilegiare i giudizi e le analisi sugli architetti che hanno operato nel periodo preso in considerazione, approfondendo quindi l’arco di tempo che va dal 1945 (fine della seconda guerra mondiale e quindi epoca di ricostruzione), passando per il 1949 (anno in cui si avvia l’attività dell’INA-Casa e quindi spunto per interessanti studi e progetti), fino al 1960, data delle Olimpiadi di Roma, evento che cambiò totalmente il modo di fare architettura: “Nel momento in cui si innesca il boom economico, viene meno, di fatto, la forza ideale centripeda che aveva aggregato gruppi intellettuali[…]” (p. 8).

 

          A conclusione del quadro introduttivo si vuole quindi evidenziare come il quinto decennio del XX secolo si presenti ancora come un periodo senza contorni precisi e stabili.

 

          Il primo capitolo, il più corposo è variegato, è dedicato all’architettura degli anni Cinquanta  ed è suddiviso in sette paragrafi, che partendo dagli anni della guerra analizzano i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato l’architettura nel decennio preso in esame. Per fare questo, fondamentali sono state per D’Auria le riviste e i volumi dedicati a questo tema, dove i continui riferimenti riportati ci fanno capire il parere dei grandi architetti che lavoravano in quel periodo e che contribuirono a creare un nuovo tipo di architettura e un nuovo modo di interpretarla.

 

          Questo aspetto viene approfondito maggiormente nel paragrafo “Architettura e critica” (p. 96), dove vengono analizzati i dibattiti presenti sui periodici (Casabella, Emporium, Urbanistica, Spazio, Metron, selArte, l’Architettura -  Cronache e storia, Zodiac, Domus) e nei volumi (“Saper vedere l’architettura” del 1948, “Storia dell’architettura moderna” del 1950 e “Architettura e storiagrafia” del 1951, tutte opere di Bruno Zevi) sul cambiamento che subì in quel periodo l’architettura.

 

          Di notevole interesse risulta anche il paragrafo “La ricezione in Italia della lezione dei ‘Maestri’” (p. 109), dove vengono studiate le influenze portate in Italia da quattro grandi architetti stranieri : Frank Lloyd Wright, Walter Gropius, Ludwig Mies van der Rohe, Le Corbusier. “ La lezione di tutti quei maestri fu soprattutto quella di aver fuso estetica ed etica, rigore e passione” (p. 109),  “Si può dunque dire che l’attenzione critica fosse focalizzata su due tendenze (razionalismo e architettura organica” (p. 111).

 

          Ma fondamentale per capire interamente lo studio di D’Auria è sicuramente il primo paragrafo  “L’immediato dopoguerra e la ricostruzione delle città” (p. 19), dove vengono fatti piccoli ma significativi accenni alla situazione dell’architettura durante il periodo bellico che si collegano strettamente con le vicende di ricostruzione/costruzione del periodo immediatamente successivo. Non a caso in questo paragrafo vengono presentati i gli architetti che furono fondamentali per le trasformazioni e le ricostruzioni delle città (p. 26) e i gruppi da loro formati., ad esempio il gruppo CIAM (Franco albini, Ludovico Belgiojoso, Piero Bottoni, Ignazio Gardella, Gabriele Mucchi, etc), il MMA del 1945 (con i già citati Albini, Mucchi e Gardella e in più Giancarlo De Carlo, lo studio BBPR, Achille e Piergiacomo Castiglione, Marco Tevarotto, Eudenio genitli Tedeschi r Marco Zanuso). Per far comprendere meglio i concetti espressi, l’autore tratta quindi i casi delle singole città, come Torino, Milano, Napoli e Roma (da p. 32).

 

          Il secondo capitolo, “Architettura d’interni” (p. 133), funge da collante tra le due discipline che danno il titolo al volume, l’architettura e il design.

 

          Suddiviso in due paragrafi, “Arredamenti e Allestimenti” e “Le navi da crociera”, il capitolo illustra come l’arredamento degli spazi pubblici e privati rappresenti dei momenti di sperimentazione molto significativi, soprattutto per quanto riguarda l’uso di nuovi materiali e tecnologie e di messa a punto del linguaggio compositivo.. “L’arredamento […], la linea di contatto tra l’architettura e tutta la raggera delle cosiddette arti applicate o industriali” (p. 135).

 

          Anche i più importanti architetti come Albini e Gardella, dedicarono grande attenzione all’architettura degli interni e in particolare furono di notevole interesse le sperimentazioni nel campo dei progetti museografici, da ricordare l’allestimento su progetto di Albini delle Gallerie di Palazzo Bianco e Rosso (1951) e del Museo di San Lorenzo (1952) a Genova (p. 142). Altro campo di sperimentazione interessante è l’architettura effimera, padiglioni e stand espositivi, che come dice D’Auria “costituiscono un felice intreccio tra architettura e progettazione di interni […]” (p. 146).

 

          Anche per quanto riguarda l’arredamento delle navi da crociere l’operato dei grandi architetti è fondamentale, come anche le parole di Le Corbusier dimostrano: “il transatlantico un modello per una corretta architettura” (p. 148).

 

          Nel terzo capitolo, “La vicenda del design e la nascita del MADE IN ITALY”, l’autore, come già precedentemente fatto per l’architettura, analizza ciò che era avvenuto prima degli anni cinquanta rilevando la compresenza di due tipi di modelli di progettazione: il design/industrial design e il proto design (non si prevede una la serialità e la procedura industriale, l’oggetto creato è un unicum).

 

          Questa prima panoramica ha permesso all’autore di poter parlare dei cambiamenti economici avvenuti in Italia negli anni Cinquanta, che hanno portato a un nuovo modo di intendere l’arredamento d’interni e i suoi affini.

 

          Anche in questo capitolo fondamentali sono risultate le riviste (Domus in primis) che hanno accompagnato e arricchito il discorso di D’Auria; lo stesso Giò Ponti “aveva rivendicato a ragione l’importanza delle riviste, per prima la sua Domus, come elemento propulsore per la ricerca progettuale nel campo dell’oggetto d’uso, sia prodotto artigianalmente che elemento seriale delle industrie” (p. 173). 

 

          Ponti ebbe anche il merito di istituire il premio “Compasso D’oro” (in collaborazione con i grandi magazzini La Rinascente), manifestazione nata per incentivare lo sviluppo delle ricerche sull’industrial design. Sin dalla sua nascita, nel 1954 il premio coincise strettamente con il design; parteciparono e vinsero alcuni dei più famosi designer italiani come ad esempio Albini, Bruno Munari, Max Huber, Gino Colombini. “Gli oggetti premiati al Compasso d’oro esercitarono generalmente una grande influenza sia sulla comunità dei progettisti che presso i produttori” (p. 175).

 

          L’autore parla anche della difficoltà di istituire all’interno delle università italiane veri e proprio corsi universitari di design e di come arrivò relativamente tardi il primo insegnamento ufficiale, nel 1959 presso l’Università di Napoli tenuto da Roberto Mango, architetto e designer formatosi negli Stati Uniti.

 

          Successivamente l’attenzione del lettore viene focalizzata sui casi simboli, come le macchine Olivetti, che ebbero grande risalto sulle riviste specializzate, e sui mezzi di locomozione,  da citare:  la Vespa, la Lambretta, la FIAT 600 e 500 (a cui venne assegnato il Compasso d’Oro), l’elettrotreno ETR 300 Settebello.

 

          Con gli anni Cinquanta assistiamo quindi a una democratizzazione del prodotto proprio grazie al design e proprio con la morte di Adriano Olivetti nel 1960 si chiude un decennio ricco sotto tutti i punti di vista, economico, architettonico e industriale.

 

          L’ultima parte di questo volume vuole proprio sottolineare l’importanza e il successo del “MADE IN ITALY”, sia in patria che fuori dai confini europei. Proprio negli anni 50 infatti l’America si interessa e sponsorizza il design italiano, organizzando tra l’altro anche importanti esposizioni di mobili e oggetti progettati e realizzati in Italia (la mostra del “Compasso d’oro” alla Fiera mondiale di New York del 1957) (p. 237): “All’ammirazione per l’italian style […] si aggiungeva la curiosità sul come i nostri designer riuscissero a coniugare funzionalità ed eleganza, sofisticazione costruttiva e fantasia” (p. 239).

 

          Un prodotto MADE IN ITALY che non può essere dimenticato è sicuramente la moda, che negli anni cinquanta raggiunse vette altissime con stilisti del calibro delle sorelle Fontana, di Fabiani e di Pucci, esperienze nate da piccole sartorie che hanno saputo svilupparsi fino a giungere a una fortuna oltreoceano. Non a caso nel 1958 Gillo Dorfles decise di includere la moda nel novero delle arti applicate, poiché il cambiamento di gusto che era avvenuto in quel periodo non poteva essere sottovalutato.

 

          Nell’ultimo paragrafo del libro, “Identità del design italiano: un problema storiografico” (p. 247), D’Auria tira quindi le somme su questa evoluzione della produzione di arti applicati che ha coinvolto in modo così impressionante l’Italia. È quindi inevitabile che la storia del design italiano comprenda al suo interno numerose altre storie parallele che hanno contribuito a rendere unico il periodo studiato.

 

          Il volume è completato da una bibliografia essenziale e da un indice dei nomi presenti nel volume, strumenti indispensabili per approfondire i temi trattati.

 

          Il ricco apparato iconografico, esclusivamente in bianco e nero, è suddiviso all’interno del libro, e questo può essere considerato come unico elemento negativo del volume, per due ragioni: nel testo non vi sono riferimento alle immagini e le fotografie tendono a far perdere il filo del discorso al lettore, poiché sono posizionate in modo disordinato e non sempre “vicino” alla parte del discorso dove sono citate.

 

          Concludendo, il testo risulta di piacevole lettura, ben inserito nel panorama scientifico di settore e potrebbe risultare utile agli studenti di corsi universitari dedicati all’argomento, visto il sapiente uso che D’Auria fa delle riviste e dei volumi sull’architettura e il design. Infatti, il libro, strutturato in modo ordinato e logico, affronta aspetti specifici che i testi utilizzati come bibliografia per i corsi universitari non sempre approfondiscono adeguatamente.