Paoli, Michel - Preti-Hamard, Monica (dir.): L’Arioste et les arts, ill. coul., 288 p., 21 cm x 27 cm, ISBN 8889854685, 45 €
(Officina Libraria, Milano / Éditions du Louvre, Paris 2012)
 
Recensione di Ilaria Andreoli, CNRS
 
Numero di parole: 7466 parole
Pubblicato on line il 2014-02-25
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1758
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          Questo volume, riccamente illustrato ed elegantemente edito, raccoglie, in una veste editoriale più simile a quella del catalogo di una mostra o di un’edizione di lusso, gl’interventi presentati in occasione dell’omonimo convegno, L’Arioste et les arts, tenutosi al Louvre nel marzo del 2009 ed organizzato da Michel Paoli, professore di letteratura italiana all’Université de Picardie-Jules Verne di Amiens e Monica Preti, responsabile della programmazione di storia dell’arte all’Auditorium del museo parigino. Gli autori dei saggi, - tutti tradotti in francese nonostante il gran numero di originali in italiano – appartengono per la maggior parte al mondo accademico italiano, francese, svizzero o britannico, cui si aggiungono due conservatori museali, uno Louvre, l’altro dell’Ashmolean Museum di Cambridge.

 

          L’ambizioso intento del convegno, pienamente rispecchiato dai suoi atti, era quello di analizzare la diffusione e la ricezione della fortuna dell’Orlando furioso in diverse declinazioni artistiche – dalla letteratura alla pittura, dal teatro alla maiolica istoriata, dall’illustrazione del libro a stampa alla musica, dal teatro e dall’opera all’arte dei giardini - in Francia e in Italia, a partire dalla pubblicazione dell’editio princeps fino all’Ottocento. Come chiaramente identificato da Gianni Venturi nella sua prefazione, gli elementi che possono organizzare questa ricca messe di materiale sono fondamentalmente tre: la città di Ferrara e la sua realtà geopolitica, le relazioni fra l’Ariosto e le arti visive e la ricezione artistica della sua opera. Altrettante sono dunque le sezioni in cui si dividono i saggi: 1. L’Arioste, Ferrare et les arts à la cour des Este; 2) Du texte à l’image; 3. L’influence du Roland furieux sur la création artistique.

 

          Precedono due introduzioni, una per mano di ciascuno dei due curatori: nella prima, Michel Paoli, riconoscendo pienamente la difficoltà dell’impresa ne sottolinea finemente tutto l’interesse. Se è beninteso che, e in particolare nel caso del Furioso, la questione dell’(im)possibilità della traduzione della poesis in pictura non sia né utile da porsi né interessante da constatare, avendo come sola ed ineludibile conseguenza una riflessione sulla natura di ogni arte e, infine, dell’arte in generale, l’aspetto che invece ci si è proposti di indagare è quello della ricchezza e della varietà delle modalità e dei codici secondo cui il geniale capolavoro dell’Ariosto, così intrinsecamente letterario, è stato trasposto, trasformato, fecondato per dar vita a sua volta a creazioni artistiche che, pur così diverse da esso e tra loro, sono spesso straordinarie, e ricche di una vita autonoma, quasi totalmente indipendente dal testo che le ha generate. Anzi. Il processo di selezione che porta all’identificazione e alla selezione di un certo numero di soggetti estratti dal poema dà luogo sempre più spesso, a un fenomeno genetico fondamentalmente inverso. Non è più tanto il testo a ispirare il pittore, quanto quest’ultimo che, dovendo « raccontare una storia » cerca un pretesto narrativo per proporre una scena che ha, in realtà, un valore intrinsecamente ed esclusivamente pittorico, che descrive, più che raccontare. Poco a poco questo corpus d’immagini viene canonizzato diventando un vero e proprio « repertorio mitologico moderno », secondo le parole di Giuseppe Sangirardi,  del tutto autonomo, declinato secondo le epoche e gli stili, ma del tutto indipendente dalla lettura del testo, ormai puramente « pretesto » per essere fruito nella sua bellezza. Proprio la relazione – realmente essenziale o puramente accidentale ? - tra la fonte letteraria e le opere artistiche a essa ispirata è al centro del dibattito che sorge dal dialogo tra i diversi saggi proposti, che giungendo a conclusioni spesso contradditorie, riflettono uno degli aspetti più peculiari dell’opera ariostesca, così aperta al giudizio e all’attiva collaborazione interpretativa di ogni singolo lettore.

 

          Come « vedere l’Ariosto » è dunque la domanda che si pone Monica Preti nel suo testo introduttivo, che presenta un panorama critico e storiografico della fortuna figurativa del Furioso. La relazione del poema con le arti visive appare come una costante tradizionale della sua lettura, fin dal Cinquecento, quando Orazio Toscanella, nell’introduzione alle sue Bellezze del Furioso, osservava che in esso « non si legge ma si vede », successivamente, nel tentativo di elaborazione da parte di Pio Rajna, nelle sue Fonti dell’Orlando furioso (1900), di una « scienza della creazione artistica » applicata al poema, fino al fondamentale e seminale articolo di Remo Ceserani « Ludovico Ariosto e la cultura figurativa del suo tempo » (1985), che rappresenta un primo bilancio della questione e ha posto le tre principali direzioni di ricerca : le influenze reciproche tra il poeta e gli artisti del suo tempo, tema ampiamente e diversamente trattato anche da studi molto recenti ; il ruolo del Furioso nel quadro del dibattito cinquecentesco sul tema del paragone e dell’Ut pictura poesis, queste ultime accomunate dall’Ariosto nella medesima dimensione dell’illusione, del miraggio e dell’incantesimo ingannevole; e la fortuna figurativa del poema, legata in particolare al potenziale allegorico e gnomico di alcuni personaggi ed episodi o persino dell’intera opera, come agli occhi di Galileo, e da analizzare, come si è detto, secondo le problematiche della traduzione, della trasposizione e persino della ricreazione. I saggi contenuti nel presente volume apportano i loro contributi seguendo queste prospettive di ricerca, estendendosi al di là delle arti più propriamente figurative per comprendere l’arte del giardino, il teatro e l’opera.

 

          La prima sezione è dunque dedicata alle relazioni fra l’Ariosto, Ferrara e le arti alla corte degl’Este. Marco Folin, smantellando lo stereotipo perlopiù fondato su una serie di pregiudizi ottocenteschi e romantici, di una Ferrara governata da una dinastia di despoti, popolata da soldati che avrebbero ben figurato nel Mestiere delle armi di Ermanno Olmi, dove l’economia stagna e la cultura locale è essenzialmente periferica, provinciale, retrograda e conservatrice, propone una nuova, convincente ed approfondita analisi dei rapporti fra il principe e i suoi cortigiani che aiuta a gettare una luce diversa sulla produzione artistica ferrarese, ed in particolare sulle due imprese culturali più importanti e meglio documentate : la decorazione della grande sala del Palazzo Schifanoia sotto Borso, alla fine del sesto decennio del Quattrocento, volta a celebrare il titolo ducale conferito dal papa agli Estensi e i nuovi volti delle élite urbane, che nascondevano la loro assenza di nascita dietro un mascheramento cortese e cavalleresco; e l’ambizioso progetto d’ampiamento, meglio, di raddoppiamento, della città attuato da Ercole I vent’anni più tardi, ispirato alle città, prima fra tutte Napoli, dove il duca aveva soggiornato in giovinezza e al De re aedificatoria dell’Alberti, sua lettura prediletta. Le esigenze di rappresentazione e celebrazione della dinastia estense che avevano dettato la decorazione di Schifanoia si proiettano ora su scala urbana, trasformando la città intera in un grande teatro a cielo aperto in cui è messa in scena la magnificenza e lo splendore del potere ducale. Il caso di Ferrara, pur non essendo certo l’unico nella penisola all’epoca moderna, si distingue per la coerenza culturale che sembra orientare la produzione artistica, letteraria ed architettonica secondo uno schema originale, radicalmente differente delle scelte adottate in altre città, e risulta, almeno in parte, ispirata a modelli culturali di derivazione transalpina.

 

          Attraverso un’acuta e intelligente analisi delle Satire come una sorta di finzione autobiografica in cui l’Ariosto tratta la sua propria vita come materia poetica a tutti gli effetti, Michel Paoli traccia un interessante ritratto dell’autore del Furioso descrivendo le complesse interazioni del mestiere di poeta con la società cortese. Se l’immagine che è stata tramandata dell’Ariosto proviene essenzialmente, da un lato, dall’idealizzazione del personaggio capace di comporre un poema quale il Furioso e, dall’altro, dall’impiego delle Satire come documento autobiografico incaricato di confermare quest’idea, la lettura di queste ultime « au pied de la lettre », ovvero come fonte attendibile e verisimile, crea non pochi problemi. Lontane dall’essere il frutto di uno sfogo ispirato, le Satire sarebbero invece state composte dall’Ariosto tramite un’attenta selezione di episodi della sua vita che più si potessero adattare ai topoi del genere letterario, rivelandosi in realtà ben più un’opera di autofiction poetica che un documento affidabile per la ricostruzione della sua personalità e della sua vita. La questione della manipolazione della realtà e della fantasia si pone evidentemente come centrale anche nell’analisi della composizione dell’Orlando Furioso: è importante sottolineare come al centro delle preoccupazioni del poeta vi sia ben più il verso come realtà verbale, metrica, lessicale e linguistica che non la creazione di storie scaturite spontaneamente dal flusso della fantasia. Le ragioni dell’evidenza e dell’estrema verisimiglianza dell’universo fantastico del Furioso risiede, infatti, sull’abile ricorso alla metafora concreta, ed è questa capacità a rendere palpabile e credibile ciò che è fantastico, e non tanto un’intrinseca qualità visiva della poesia ariostesca, ad aver contribuito a facilitare il passaggio verso le altre arti, e specialmente verso l’immagine. Le Satire e il Furioso hanno dunque in comune la capacità di ricreare una realtà che riesce a convincere il lettore della sua verità, da cui la tentazione parallela di credere a ciò che l’Ariosto racconta, nelle prime e di tentare di rappresentare ciò che descrive, nel secondo.

 

          Alla ricostruzione del ritratto, questa volta in senso proprio, dell’Ariosto, si dedica Gianni Venturi. Com’è noto grazie ai documenti, l’Ariosto si rivolse a Tiziano per un suo ritratto, ora perduto, e per il disegno di una xilografia che lo rappresentasse sulle edizioni del suo poema. I ritratti tizianeschi in cui si sono volute riconoscere le sue fattezze sono caratterizzati da un grande naturalismo nella rappresentazione del modello – cui Tiziano attribuisce una notevole carica psicologica – e, allo stesso tempo, dal tentativo di sottolineare gli aspetti simbolici e ideali della sua personalità, fattori che, entrambi, impediscono di riconoscere un « vero » ritratto dell’Ariosto, anche nel caso delle xilografie, così simili ad un idealizzato e antichizzante modello numismatico. Forte di queste raccomandazioni, Venturi analizza il corpus dei possibili ritratti dell’Ariosto : le due tele di Tiziano: il ritratto d’uomo dell’Indianapolis Museum of Art e l’Uomo in blu, della National Gallery di Londra, in cui, se non è sicuramente effigiato l’Ariosto si vorrebbe ben considerarlo come il suo ritratto ideale, quale lo si potrebbe immaginare dopo la lettura del Furioso; il Ritratto di poeta assegnato di volta in volta a Tiziano e a Palma il Vecchio, anch’esso a Londra; ed infine il ritratto attribuito a Dosso Dossi alla Biblioteca Ariostea di Ferrara, copia di un originale già in collezione Oriani e andato distrutto durante la seconda guerra mondiale, che già Cesare Gnudi, nel suo saggio fondamentale sull’Ariosto e le arti figurative (1975) aveva messo in relazione con la xilografia tratta dal disegno tizianesco apparsa sull’edizione del Furioso del 1532 e con il ritratto del poeta inserito da Giorgio Vasari nell’affresco raffigurante l’Entrata di Leone X a Firenze in Palazzo Vecchio.

 

          Marco Dorigatti, autore dell’eccellente edizione critica secondo la princeps del 1516 (Firenze, 2006), cerca, attraverso una rigorosa analisi filologica di elementi esterni e interni al testo dell’Orlando furioso di ricostruirne il percorso genetico attraverso tre fasi storiche, ciascuna legata ad altrettanti personaggi, di cui l’Ariosto non fu solo spettatore ma attivo protagonista: la prima, legata alla figura di Ippolito d’Este, al cui servizio l’Ariosto entrò poco prima di cominciare la redazione del poema (1504-1506), e che tanto è presente in esso; quella, iniziata nel 1511, di Alfonso d’Este, strenuo difensore di Ferrara contro l’aggressione di Giulio II; ed infine quella di Francesco I, la cui vittoria in Italia nel 1515 segna un momento di grande speranza e di attesa, sul quale si conclude il poema. La difficoltà, oltre a non avere a disposizione il manoscritto originale, purtroppo andato perduto, risiede nel fatto che l’Ariosto non procede a un’elaborazione lineare, ma segue un andamento d’espansione e di amplificazione interne, ritornando continuamente su ciò che ha già scritto per integrarlo e modificarlo, di conseguenza, l’ordine sequenziale del testo non corrisponde all’ordine cronologico della redazione.  Quello che però colpisce al termine della ricostruzione di questo intricato percorso attraverso una messe di materiale così imponente, assemblata durante un arco di tempo così lungo, è l’ostinazione con cui l’Ariosto si sforza costantemente di sincronizzare la storia presente con il contesto storico della sua opera.

 

          Nel suo lungo e ricco saggio, Vincenzo Farinella procede a un’approfondita lettura iconografica del celebre dipinto della Galleria Borghese di Roma, la Melissa di Dosso Dossi, in cui identifica una celebrazione delle virtù politiche di Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara. Realizzata con tutta probabilità per il duca Alfonso intorno al 1518, la tela ha fino ad oggi ben conservato il suo segreto riguardo alla sua ubicazione, alla sua funzione e in particolare al suo significato. L’identificazione del soggetto vanta, infatti, una storia critica alquanto lunga e complessa: nella bella protagonista sono state riconosciute, oltre alla maga Circe, titolo che le è tradizionalmente attribuito, Alcina e, appunto, Melissa. Dopo un veloce panorama della bibliografia critica dell’opera, l’autore riprende la questione dal principio, analizzando il quadro alla luce di un’attenta lettura del Furioso e in particolare delle sue prime edizioni illustrate veneziane, in cui Melissa è sempre rappresentata al centro di un cerchio magico, intenta a predire il futuro a Bradamante, episodio ritenuto tra i più importanti del poema. Tra l’altro, le radiografie eseguite sul dipinto in occasione dell’ultima mostra monografica del pittore (1998-1999) mostrano la presenza, ora invisibile, di un secondo personaggio in armatura in cui si può facilmente riconoscere la futura moglie di Ruggero, riconducendo indubbiamente la scena al III canto del Furioso. Alfonso, guardando il dipinto, si sarebbe così ritrovato a incarnare il successo della profezia che annunciava la sua venuta. Nella sua versione definitiva, e alla luce dell’analisi di altri particolari, il quadro, forse persino eseguito seguendo i diretti consigli del poeta, dev’essere considerato più come una sintesi di diversi passaggi del poema e una rappresentazione sinottica del personaggio di Melissa, « madrina » protettrice della casata estense, che come l’illustrazione di un preciso frammento testuale. Dietro all’immagine di Melissa, inoltre, si potrebbe scorgere un elogio criptato delle virtù civili e politiche di Lucrezia Borgia, che, si mostrò capace di assistere suo marito Alfonso nel governo dello stato e persino di sostituirlo, i durante le sue lunghe assenze.

 

          Attraverso una lettura trasversale dei passi del poema in cui si tratta della pittura, della scultura e del ricamo, Andrea Gareffi analizza l’opposizione tra il senso dell’udito (e dunque, del tempo, su cui regna il poeta) e quello della vista (ovvero lo spazio, terreno del pittore),  sottolineando la complessità dei rapporti intessuti con le altre arti dal progetto poetico del Furioso, la cui ambizione è quella d’eguagliare, se non di sorpassare, i modelli antichi. Nel dibattito sull’Ut pictura poesis e sul paragone, l’Ariosto fa costantemente trionfare il dire sul vedere, sottomettendo così le arti figurative al dominio della scrittura. Paradossalmente, infatti, nel Furioso l’arte è investita della sorprendente missione di predire l’avvenire, ma alla sola condizione di trasmettere il proprio messaggio tramite l’ekphrasis.

 

          La seconda sezione di saggi indaga la traduzione del testo del Furioso in immagini, non tanto come « pre-testo » o risultato di un ekphrasis,  ma piuttosto come elaborazione di una « lingua visibile », un tentativo parallelo di tradurre in immagini visive la debordante immaginazione poetica dell’Ariosto.

 

          Marcello Ciccuto s’interessa alla tradizione figurativa di alcuni « favole » tratte dal Furioso nei cicli pittorici contemporanei o di poco posteriori. La ricezione del poema ha conosciuto, fin dal tempo dei suoi primi lettori, molteplici operazioni d’identificazione e isolamento, all’interno del flusso narrativo, di scene o episodi propizi all’allegorizzazione o a delle divagazioni interpretative suscettibili a trasformarli in modelli etici autonomi, a loro volta integrabili ad altri soggetti tratti da opere della tradizione precedente o, al contrario, reimpiegati per la produzione di nuovi testi. La parcellizzazione di un poema unitario allo scopo di trasformarlo in una serie di episodi allegorici, fu una pratica adottata molto presto dagli editori ed ebbe come conseguenza immediata la confezione di edizioni illustrate, in cui non si mostrava alcun scrupolo ad accordare ad ogni singolo episodio una totale autonomia, se non un nuovo significato. Per il Furioso questo avvenne soprattutto nella sfera della produzione tipografica veneziana, a partire della prima edizione illustrata stampata da Zoppino nel 1530 per culminare nell’edizione Giolito del 1542, le cui xilografie, grazie al tramite di Anton Francesco Doni, furono reimpiegate da Marcolini alla metà del secolo e nuovamente nelle allegorizzanti Bellezze del Furioso del Toscanella. L’edizione illustrata diventa dunque un sistema, un meccanismo costruito su di una rete d’imagines agentes, che concentrano ed esemplificano un certo numero di situazioni narrative e che forniscono ai pittori un utile punto di partenza : l’edizione Giolito per gli affreschi del palazzo Alessandi a Bergamo, per il ciclo di palazzo Torfanini a Bologna, per quello di Baggiovara, vicino a Modena e per la decorazione di Palazzo Besta a Teglio, in Valtellina; l’edizione Valgrisi per gli affreschi di Villa Mondragone di Monte Porzio Catone; la Valvassori per il ciclo del Palazzo del Giardino a Parma. Anche il Sacro Bosco di Bomarzo, infine, è un esempio di lettura allegorizzata dell’episodio della follia di Orlando, rappresentando il percorso iniziatico dalla perdita della ragione fino alla sua riconquista.

 

          Fa eco al precedente il saggio di Federica Caneparo che tratta di alcune serie di affreschi ispirati al Furioso in ambito alpino italiano, un territorio in cui una lunga tradizione del gotico cortese aveva preparato il terreno a un’entusiasta ripresa dei temi cavallereschi, rinnovati dallo spirito rinascimentale. I due cicli di Chiusa di Pesio (Cuneo), quello di Palazzo Alessandri e la decorazione murale in Piazza Mascheroni a Bergamo, quello, composto da ventun pannelli di Palazzo Besta a Teglio, il più ampio a noi noto, il ciclo del Castello Masegra a Sondrio, di Palazzo Rochis a Verona e di Palazzo Zorzi a Mel, piccola località del Bellunese - questi due ultimi noti finora solo in ambito locale - e quello recentemente identificato a Feltre sono tutti dipendenti iconograficamente dalla serie illustrativa dell’edizione Giolito.

 

          Le maioliche istoriate prodotte dalle botteghe urbinati sono tra le più precoci e singolari illustrazioni che abbia conosciuto il poema ariostesco. Timothy Wilson ne identifica alcuni episodi nei decori di uno dei migliori maiolicari dell’epoca, Francesco Xanto Avelli, attivo a Urbino tra 1530 e 1542. Dotato di una notevole cultura visiva e letteraria - era solito aggiungere al verso delle sue creazioni delle iscrizioni in endecasillabi d’ispirazione petrarchesca – Xanto non si proponeva tanto di seguire fedelmente i dettagli della narrazione, quanto piuttosto di trovarvi uno spunto per le sue proprie composizioni, che risultano spesso dall’assemblaggio complesso di figure estratte o adattate dalle fonti incise più disparate, soprattutto da invenzioni di Raffaello incise da Marcantonio Raimondi o di Giulio Romano tradotte da Caraglio. La prima e più elaborata opera ispirata dal Furioso è un piatto raffigurante Ruggero e l’ippogrifo (Los Angeles, County Museum of Art) del 1531; l’anno successivo Xanto dipinse altri tre soggetti tratti dal poema su altrettanti piatti, due dei quali fanno parte del più importante servizio da tavola fino a allora mai realizzato, alle armi della famiglia fiorentina dei Pucci (Orlando e i suoi compagni scoprono le armi di Ruggero, Cambridge, Fitzwilliam Museum e Astolfo nel paese delle donne, Londra, British Museum) ; il terzo soggetto, Astolfo e le arpie è raffigurato su un piatto lustrato ora al Victoria & Albert Museum, la cui fonte iconografica è la xilografia relativa al canto XXXI dell’edizione Zoppino (1530). L’ultimo piatto “ariostesco”, raffigurante Grifone che lotta contro i campioni damasceni, già in collezione Pringsheil, e passato all’asta da Sotheby’s a Londra nel 1939, fu realizzato da Avelli nel 1537. Sebbene nella storia iconografica del poema queste ceramiche istoriate abbiano pochissimi precursori e nessun seguito, esse rappresentano una delle sue evocazioni più precoci, variopinte e stupefacenti.

 

          Lina Bolzoni ricostruisce il passaggio dalla memorizzazione del poema alla costituzione di un repertorio, di una « galleria » d’immagini. Evidenziando la dimensione visuale e ludica che innerva tutto il poema, la studiosa propone un doppio itinerario: uno interno al poema, che permetta di capire come l’Ariosto metta in scena il rapporto tra parole e immagini di modo da renderlo lo specchio, al contempo ironico e magico, della sua propria scrittura e delle passioni umane; l’altro, esterno all’opera, riguarda il suo pubblico: non solamente la lettura fattane nel Rinascimento ma ugualmente la rappresentazione che fornisce quando i commentatori lo paragonano ad un edificio, ad un teatro di memoria, ad una splendida galleria. Al centro del primo percorso vi sono naturalmente le stanze dedicate alla descrizione di Alcina (VII, 11-15), lodata da Lodovico Dolce e aspramente criticata da Lessing nel Laocoonte, e riferimento costante dal Cinquecento al Settecento tanto per i partigiani che per i detrattori del principio dell’Ut pictura poesis. Ironica e paradossale, essa si rivela la celebrazione di una bellezza menzognera, opposta alla cruda descrizione del reale sembiante della maga che ne segue, proprio come avviene nei ritratti contemporanei e nelle loro « coperte », si pensi a La Vecchia di Giorgione o all’Avarizia di Dürer. Ma il lettore cui si rivolge l’Ariosto, verso il quale egli dirige tutti i suoi sforzi e di cui il giudizio gl’importa, sarà capace di vedere la verità al di là delle apparenze menzognere. Filo rosso del secondo percorso è la traduzione del poema in una serie d’immagini, siano esse le xilografie delle edizioni illustrate o i cicli ad affresco che decoravano i palazzi dell’epoca. La lettura del poema era allora percepita come la visita a una splendida galleria, come nel celebre passo di Galileo, o allora, nella seconda metà del secolo, come nel commento al Furioso di Toscanella, ad un « teatro » della vita umana in cui si assiste a scene allegoriche ricche d’insegnamento morale, una galleria d’immagini memoriali, a loro volta associate ad opere d’arte reali, che fissano nello spirito del lettore delle figure capaci di rappresentare le principali passioni umane, creando così un’affascinante rete di corrispondenze tra letteratura, arte della memoria e produzione artistica contemporanea. 

 

          Monica Preti analizza la serie completa dei disegni preparatori alle tavole calcografiche dell’edizione veneziana stampata da Francesco De’ Franceschi nel 1584, di cui è autore l’incisore e stampatore padovano Girolamo Porro, attivo principalmente a Venezia nell’ultimo quarto del Cinquecento. In essi, la struttura prospettiva è messa al servizio della successione narrativa pluriepisodica, mentre la struttura spaziale, molto legata al modello teatrale contemporaneo, e quello di Serlio in particolare, introduce degli elementi architettonici che organizzano, scandiscono, ripartiscono e persino ampliano -come nel caso dello « sfondamento » delle pareti e dei tetti - lo spazio dell’azione. Nonostante l’impiego, come fonte iconografica, dell’illustre precedente rappresentato dalle tavole xilografiche a tutta pagina dell’edizione Valgrisi (1556), che però semplifica, condensa e razionalizza, Porro, dimostrando di essere un vero e proprio lettore ed esegeta del Furioso e del suo paratesto (il commento del Ruscelli, ripreso dall’edizione Valgrisi), privilegia la logica narrativa del testo e segue un preciso programma di adattamento dei procedimenti narrativi dell’Ariosto, fornendo così al lettore, tramite delle immagini che fungano da sommario mnemonico del poema, una chiave interpretativa che ne faciliti la lettura e la comprensione. Il tessuto icono-testuale offerto dall’oggetto-libro diventa così un luogo di scambio dinamico tra parola e immagine, tra esegesi e illustrazione che ben rappresenta le modalità di lettura del Furioso alla fine del secolo; non è dunque sorprendente che le tavole di Porro siano state minuziosamente copiate per illustrare la prima traduzione inglese del poema, quella stampata a Londra da John Harington nel 1591, il cui successo favorì grandemente la diffusione del gusto italiano e dello spirito rinascimentale presso la corte elisabettiana.

 

          Con l’analisi dell’allegoria politica degli affreschi di Francesco Furini a Palazzo Pitti (1638-42), Massimiliano Rossi mostra come dagli ultimi decenni del Cinquecento e poi all’inizio del secolo successivo, la cultura fiorentina si appropriò della figura e dell’opera dell’Ariosto secondo due diversi registri: quello dell’elogio e quello del paradosso burlesco, apparentemente opposti ma talvolta sovrapposti, come nel caso in esame. Con l’Allegoria della morte e della gloria di Lorenzo il Magnifico, il pittore aveva collaborato con Cecco Bravo e Ottavio Vannini, a completare la decorazione del salone al piano terra del palazzo destinata a celebrare le nozze di Ferdinando II e Vittoria della Rovere, lasciata incompiuta da Giovanni da San Giovanni alla sua morte, nel 1636. Il Magnifico vi è celebrato attraverso l’illustrazione di un passo del famoso episodio ariostesco del viaggio di Astolfo sulla Luna – in cui San Giovanni Evangelista spiega al cavaliere come sia compito dei poeti illustrare per sempre la memoria dei mortali – da cui però sono assenti i due personaggi principali. Pittore e fine letterato, Furini aveva i mezzi intellettuali e artistici per spingere l’esegesi così lontano da associare in un’unica opera almeno due notevoli paradossi: trasferire l’elogio politico ariostesco da Ippolito d’Este alla dinastia medicea; e neutralizzare la demistificazione del meccanismo elogiativo ariostesco, ambientato nel mondo lunare, per porlo invece al centro esatto dell’affresco. Se nell’affresco il tema più generale della follia risulta assente, esso ricompare invece in un sonetto manoscritto composto in occasione della committenza dell’opera secondo il registro della professio modestiae - i Medici dovevano essere ben folli ad incaricare un modersto artista come lui di un’impresa così importante – e che fa eco anch’esso alle famose “coglionerie” della celeberrima esclamazione di Ippolito d’Este all’Ariosto a proposito del Furioso, solo che qui esse sono non sono più quelle dell’artista, ma quelle dei committenti. Nell’affresco, inoltre, Furini si sostituisce al poeta ferrarese, invertendo i termini del poema: non è più la poesia, ma la pittura, ad annunciare e celebrare le glorie di una dinastia e dunque a trionfare sulla morte e sul Tempo.

 

          Marie-Anne Dupuy-Vachey ricostruisce l’influenza dei temi ereditati dall’Ariosto sulla pittura del XVIII secolo e in particolare nell’opera di Fragonard. Se nelle lussuose edizioni illustrate (la veneziana pubblicata da Novelli e Zaïs nel 1772-73, l’inglese di Baskerville, del 1773, che fa appello a una schiera di artisti tra cui Greuze, e la francese edita da d’Ussieux cui fornisce i disegni Cochin) le tavole privilegiano ormai un solo episodio per ogni canto, conferendo maggiore spessore e personalità a ciascuno degli eroi e alle loro imprese, sulle scene di Venezia, Londra, Vienna o Parigi si moltiplicano le interpretazioni musicali: Vivaldi, Haendel, Haydn offrono agli eroi ariosteschi un nuovo afflato, dai toni spesso sublimi. Nelle arti figurative, invece, il Tasso è sicuramente preferito al suo predecessore e il fatto che i soggetti ariosteschi trattati si limitino essenzialmente a episodi galanti - primo fra tutti quello degli amori di Angelica e Medoro, che conobbe infinite variazioni, soprattutto nella pittura veneziana - lascia supporre che negli atelier il testo fosse letto solo raramente e che i suoi soggetti fossero oramai trattati autonomamente come pretesto per rappresentare dei corpi poco vestiti, immersi in una natura lussureggiante. In questo panorama, spiccano per qualità due opere maggiori, realizzate entrambe per committenti imbevuti di cultura letteraria, teatrale e musicale: la decorazione a fresco della villa vicentina di Giustino Valmarana, ispirata a poemi epici antichi e moderni, e realizzata da Giambattista Tiepolo e suo figlio Giandomenico (1757), in cui i quattro episodi tratti dal Furioso vedono tutti come protagonista la bella Angelica; e gli undici luminosi affreschi d’ispirazione veronesiana di Giuseppe Cades nel palazzo di Sigismondo Chigi ad Ariccia (1788-1790), di cui è giunta fino a noi anche la serie dei disegni preparatori. Nel Settecento un’artista s’innamorò letteralmente del Furioso, al punto di tentarne l’illustrazione quasi verso per verso, e questo artista fu Fragonard. Nonostante s’interrompa al canto XVI, la serie di 179 disegni, databile stilisticamente tra il 1770 e il 1780, e di cui non si conoscono né le finalità né le ragioni per le quali restò incompleta, dimostra sia la virtuosità dell’artista sia la sua capacità a tradurre in un tratto rapido e dinamico il ritmo incalzante della narrazione ariostesca. Una comprensione così fine e sensibile del Furioso lascerebbe supporre una lettura del testo originale italiano - le traduzioni allora disponibili erano di scarsa qualità e per di più, in prosa. Fragonard, inoltre, riferendosi agli esordi di ogni canto, in cui il poeta parla in prima persona, rappresenta in alcuni dei suoi disegni anche lo stesso l’Ariosto, sotto le spoglie di un giovane elegante del XVII secolo, al di fuori dal tempo e dallo spazio dei suoi personaggi.

 

          Sébastien Allard analizza il Ruggero che libera Angelica di Ingres, che il governo francese commissionò a Ingres nel 1817 per essere collocato, con il suo pendant - il Rinaldo e Armida serviti dalle ninfe di Pierre Nolasque Berget – nella sala del trono di Versailles. Esposto al Salon del 1819, insieme alla Grande odalisca e a una composizione di tema storico, il dipinto, la cui modernità risiede soprattutto nel suo primitivismo arcaizzante, suscitò il sarcasmo di una critica che accusava Ingres di far regredire l’arte a uno stadio talmente infantile da cadere nel ridicolo, ma che aveva le più serie difficoltà a identificare correttamente il soggetto. La scelta di quest’ultimo da parte del pittore, d’altronde, deve essere dipesa meno dal suo gusto personale che dalla necessità di offrire un pendant al soggetto tassesco di Bergeret. In realtà, il sorprendente arcaismo della composizione è il risultato, dal punto di vista stilistico, di una riflessione sul testo ariostesco e sulla percezione che se ne aveva all’inizio dell’Ottocento, ovvero una raccolta di antiche leggende. La modernità di Ingres appare nella sua fine e “strutturale” storicismo: lungi dall’essere l’artista formalista e precursore dell’arte per l’arte che ha visto in lui certa critica, egli cerca di rendere stilisticamente il “véritable caractère” del soggetto in rapporto all’epoca in cui si svolge. Quattro disegni conservati al museo Ingres di Montauban e al Louvre registrano le ricerche fatte dall’artista per cogliere il momento più significativo dell’episodio, quello capace di offrirne allo stesso tempo un’immagine immediatamente leggibile e rendere conto della durata in cui la storia s’iscrive; essi  testimoniano anche di come l’artista, poco incline al fantastico, abbia tratto alcuni dei dettagli più immaginifici, come l’aspetto del mostro marino, dalle cinquecentine illustrate veneziane (Giolito e Valgrisi) e, invece, la posa delle braccia di Angelica da quella di una menade su di un vaso antico della sua collezione.

 

          L’influenza del Furioso non si è limitata alle arti visive, basti pensare alla creazione di Luca Ronconi, che ha segnato una tappa memorabile della storia teatrale degli ultimi decenni e inspirato una produzione televisiva molto diversa ma non meno stimolante, agli adattamenti teatrali o radiofonici di Edoardo Sanguineti o Italo Calvino, di cui la trasposizione narrativa ne Il castello dei destini incrociati rimane uno dei titoli più importanti della sua opera letteraria. La terza parte del volume esplora dunque alcuni esempi di come l’estetica del giardino, il teatro e musica abbiano tratto ispirazione da questo inesauribile contenitore di storie.

 

          Il denso saggio di Gilles Polizzi ci fa penetrare nei misteri del Sacro Bosco di Bomarzo, concepito e costruito alla metà del Cinquecento come giardino privato da e per Vicino Orsini traendo ispirazione dalle sue letture preferite – tra cui Apuleio, il Polifilo, l’Arcadia, l’Amadigi e, appunto, il Furioso – e nel cuore del quale è collocata una statua colossale di Orlando in preda alla follia. Grazie alle molteplici letture della struttura e del significato della decorazione del parco – che, costituito più da “fabbriche” che da parterre vegetali, è da sempre considerato quale emblema del giardino manierista, sintesi paradossale dei sentimenti e dell’ingegnosità, della natura e dell’artificio - l’autore dimostra come esso possa rappresentare in realtà una rimessa in causa della celebrazione dell’unione fra natura e artificio. Il personaggio che lega l’epopea ariostesca all’ideologia del giardino è sicuramente quello di Alcina, la maga che ha il potere di trasformare in piante i vecchi amanti e la cui bellezza illusoria è smascherata da Ruggero grazie all’anello datogli da Melissa. Questo tema delle apparenze ingannevoli è alla base di tutta la struttura del Sacro Bosco, insieme a quella del “mondo al contrario” causato dal momento drammaturgico della “catastrofe” catartica, così diffuso nella produzione teatrale del Seicento. Un’ulteriore chiave di lettura, al contempo parallela e convergente, è inoltre fornita dall’Hypnerotomachia Poliphili: essa è basata sulla tesi, antitesi e sintesi di tre “nature”: la prima, quella della rovina, appunto, che segna la vittoria della Natura sull’artificio; la seconda, quella dell’ “inganno” e dell’ingenium del concettore del giardino, tramite cui la Natura è rappresentata solo da simulacri e resa così innocua e perenne; e la terza, quella della metamorfosi, dove i personaggi raffigurati dalle statue “diventano” la natura, reificando letteralmente le figure retoriche della metafora e dell’ipallage, per cui contenuto e contenente, soggetto e paesaggio, anima e corpo, scambiano le loro qualità. Il Sacro Bosco può così essere letto, nel suo insieme, come un medium espressivo, quasi un alter-ego, della poetica del Furioso e quest’ultimo, a sua volta, come un hapax, episodio unico e sorprendente, nella poetica del giardino.

 

          Pascal Torres ci presenta le Fêtes des Plaisirs de l’Isle Enchantée ispirate all’Ariosto e svoltesi a Versailles nel maggio 1664 in occasione dell’inaugurazione ufficiosa della reggia da parte di Luigi XVI. Le Fêtes sono state descritte in alcune relazioni, tra cui quella redatta da Marigny, e da una raccolta di stampe: la fonte letteraria della scenografia - il palazzo della maga Alcina, decoro delle delizie e degli amori di Ruggero/Luigi XIV - è naturalmente il canto VII del Furioso; i decori e le infrastrutture effimere furono affidati all’italiano Vigarini, la musica delle tre giornate fu composta da Lully e a Molière fu commissionata La Princesse d’Élide, una commedia galante arricchita da balletti e da entrées. In realtà, il contributo di Molière sorpassò in genio e in audacia le celebrazioni ufficiali: egli, infatti, fece rappresentare altre tre commedie, tra cui, il 12 maggio, una misteriosa versione del Tartuffe, legata ad una sua personalissima interpretazione dei canti VII e VIII del Furioso nello straordinario contesto delle Fêtes. Sfruttando l’occasione di un re travestito in Ruggero e in possesso dell’anello magico dato ad Angelica dalla maga Melissa, Molière, cosciente della forza conferitagli dal sostegno reale, fa incarnare a Tartuffe un’aspra critica dei devoti - apparentato al demoniaco monaco eremita del VIII canto, Tartuffe è qui vestito in sottana, indicando chiaramente che è ben altro che un laico - affondando nel contempo una violenta stoccata ai suoi detrattori. L’exploit di Molière risiede allora nella modernissima trasformazione della sua fonte letteraria in un avvenimento politico: Tartuffe, ou l’Imposteur, incarna una figura morale dell’ipocrisia sociale, e come tale doveva intenderla Luigi XIV sebbene nell’effimera parentesi concessa dall’anello magico.

 

          Roberta Ziosi identifica la presenza della materia del Furioso nei libretti d’opera europei tra il XVII e il XVIII secolo attraverso uno studio comparato del poema e di alcuni passi estratti da titoli celebri e meno noti, sottolineando così la complessità del contributo del poema eroico in generale, e del Furioso in particolare, con la sua immensa ricchezza di soggetti, d’intrighi, di personaggi e situazioni, allo sviluppo e alla sistematizzazione delle nuove convenzioni poetiche, drammaturgiche e musicali del nuovo genere. Dagli inizi segnati dall’ispirazione a episodi della tragicommedia pastorale del dramma musicale Lo Sposalizio di Medoro e Angelica di Marco da Gagliano e Jacopo Peri (1619) a La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina, un balletto su un testo di Saracinelli e musica di Francesca Caccini (1625), entrambi rappresentati a Firenze, si passa, soprattutto a partire del terzo decennio dei Seicento, all’affermarsi del poema eroico come fonte di riferimento; oltre all’autorità letteraria giocava a favore dell’Ariosto, cui si affiancava ora il Tasso, la loro qualità di espressioni artistiche e culturali di una città, Ferrara, che giocava a quell’epoca, di poco posteriore alla Devoluzione, un ruolo di primo piano nello sviluppo di questa nuova forma di teatro musicale, non solo in Italia ma anche in altri paesi europei, e in particolare in Francia, grazie ad alcuni membri delle più importanti famiglie ferraresi, tra cui i Bentivoglio. Tra il terzo e il quarto decennio del secolo, a causa soprattutto della concorrenza stimolata dalla committenza cardinalizia, il centro di produzione si sposta nella Roma barberiniana, un contesto politico, sociale e culturale propizio alla promozione dei nuovi criteri estetici e poetici dell’opera. Librettisti, compositori e poeti – tra cui il cardinale Giulio Rospigliosi, futuro papa Clemente IX – si mostrano ben più disinvolti che i loro colleghi fiorentini, soprattutto per quanto riguarda la scelta dei soggetti, che lasciavano sempre più spazio alla complessità degli intrecci e ad un alto tasso di spettacolarità. Dal 1642-43 sono invece gli autori veneziani, grazie alle compagnie itineranti di cantori-attori, a riprendere l’agilità drammaturgica delle produzioni romane e l’ispirazione ariostesca e a presentarle, verso la fine del secolo, al pubblico delle sale a pagamento che vantavano in Laguna di una già lunga tradizione. Nel frattempo i personaggi ariosteschi avevano calcato le scene di Versailles, nel 1685, accompagnati dalla musica di Lully, e partiranno per Londra con la trilogia di Haendel, nel terzo decennio del Settecento. Ma la tappa estera più importante di questa lunga e straordinaria tournée ariostesca è sicuramente quella del Così fan tutte di Lorenzo Da Ponte per le musiche di Mozart: qui l’ispirazione al Furioso, basata sull’estetica raffinata della citazione, si fa minimalista ma non superficiale. Se il prestito più visibile sono sicuramente i nomi dei personaggi, una lettura più approfondita mostra come, al livello dell’intrigo il libretto sia costruito sulla contaminazione o sul ribaltamento parodico di alcuni episodi del poema; un altro legame interessante appare poi a livello formale, nella scelta metrica: Da Ponte “combatte” l’Ariosto riprendendone il metro nei recitativi, rendendogli intenzionalmente omaggio sotto forma di un clin d’oeil poetico. Orlando ritorna sulle scene a Venezia, nell’autunno del 1753, come oggetto della passione fanatica di Don Ferrante, ovvero Il Pazzo glorioso, un’opera rimasta tuttora anonima, nonostante un’attribuzione ottocentesca a Goldoni. L’estrema diversità e ricchezza delle forme e modalità assunte dall’ispirazione al poema ariostesco, ed eroico in generale, nei libretti d’opera potrà essere approfondita con profitto grazie all’impiego delle nuove tecnologie informatiche nella messa a punto di un sistema comparativo in grado di procedere ad un confronto multilingue delle fonti in una prospettiva sincronica, interdisciplinare e culturalmente trasversale.

 

          A guisa di postfazione, conclude il volume un brillante ed esemplare saggio di Michel Jeanneret che racconta la storia di un appuntamento mancato, quello della fortuna del Furioso nella produzione letteraria francese del Cinque e Seicento. Trasposto Oltralpe, il poema ariostesco è sfigurato e perde tutto il suo fascino, la sua sbrigliata fantasia fatta di magie, prodigi e mostri, acculturata, appassisce. L’estetica classicista che s’impone progressivamente dal 1570 contribuisce allo sfavore del Furioso e sono soprattutto i teorici, la cui autorità è sempre più potente, a criticarlo aspramente in nome dei principi aristotelici di ordine, unità d’azione, ragione, verosimiglianza e gusto, che a poco a poco diventeranno la norma. Tra 1550 e 1650, tuttavia, e grazie soprattutto alle traduzioni che si susseguono dal 1543, il pubblico colto conosce, o lo pretende, il poema: se ne parla nei salons, lo si cita, se ne celebra l’autore come un classico moderno, lo si imita nei generi letterati più svariati, in una gamma che oscilla dalla fedeltà pedissequa all’adattamento più libero. Le imitazioni si concentrano però quasi sempre su alcuni episodi isolati: ridotto a dei “morceaux choisis” e reciclato in una serie di piccole storie indipendenti, con una netta preferenza per quelle romantiche, il Furioso è trattato alla maniera di una raccolta di favole o di una collezione di luoghi comuni che alimenta a piacimento dell’utilizzatore il repertorio della poesia lirica come dei testi ad ispirazione allegorica ed edificante, annullando però la potenza evocativa ed espressiva del poema nella sua interezza. E’ nei generi della tragicommedia, del balletto di corte e dell’opera, più sperimentali e liberi dal peso della tradizione, veri e propri serbatoi di fantasia e immaginazione, che il potenziale del Furioso è attualizzato nel modo più originale e riuscito, e offerto all’interesse di un pubblico più ampio, attirato dai temi divertenti, dai costumi stravaganti, e dalle apparizioni fantastiche nella messa in scena. Con il suo dolce erotismo, attraente senza essere provocante, l’Ariosto ha agito come catalizzatore e ha avuto un effetto liberatorio anche in un altro genere letterario francese: la poesia d’amore di Ronsard e della Pléiade. Furono comunque esperienze isolate che non influirono in alcun modo sul movimento di fondo che ha condotto inevitabilmente all’apoteosi dei valori classici. Tanto il Furioso è stato letto, spesso amato e saccheggiato, quanto, insomma, è stato, salvo qualche eccezione, mal compreso, tradito e maltrattato.

 

          Dopo gli studi di Cesare Gnudi (L’Ariosto e le arti figurative, 1975), di Rensselaer W. Lee (Names on Trees: Ariosto into Arts, 1977 e “Adventures of Angelica: Early frescoes Illustratiing the Orlando Furioso”, The Art Bulletin, LIX, 1977 ), del già citato Remo Ceserani (Ludovico e la cultura figurativa del tuo tempo, in Studies in the Italian Renaissance. Essays in memory of Arnolfo B. Ferruolo, 1985) e di Marta Ajmar, “Scene dall’Orlando furioso nella tradizione grafica e a fresco: un problema”, Artes, I, 1993), sono numerose le iniziative editoriali a essere recentemente apparse sul tema: dal catalogo della mostra del Louvre curata da Michel Jeanneret e dalla stessa Monica Preti, Imaginaire de l’Arioste, l’Arioste imaginé, 2009), alla raccolta di saggi Tra mille carte vive ancora. Ricezione del Furioso tra immagini e parole (2011) che pubblica alcuni (o meglio, esclusivamente quelli dei partecipanti al progetto interuniversitario italiano) degli interventi presentati in occasione dell’omonimo convegno tenutosi presso la Scuola Normale di Pisa nel 2009, al volume, curato da chi scrive, Exercices furieux. A partir de l’édition de l’Orlando furioso De’ Franceschi, Venise, 1584 (2012)[1] , fino al catalogo dell’eclettica mostra pisana Donne Cavalieri Incanti Follia – Viaggio attraverso l’immaginario dell’Orlando Furioso (2013), cui si devono aggiungere gli archivi digitali L’Orlando furioso e la sua traduzione in immagini del Centro Elaborazione Informatica di Testi e Immagini nella Tradizione Letteraria (CTL) della Scuona Normale di Pisa (http://orlandofurioso.org) e quello nato dai corsi tenuti da Stephane Loojkine all’Université de Touluse-Le Mirail, Le Roland furieux de l’Arioste : littérature, illustration, peinture (http://www.univ-montp3.fr/pictura/Arioste/AriosteOrigines.php).  Dando spazio ad una notevole pluralità e diversità di voci ed approcci, tematici come metodologici, tutti, nel complesso, di alto valore scientifico, L’Arioste et les arts, rappresenta un prezioso contributo alla difficile problematica di quella « belle infidèle » che è, per sua natura, ogni traduzione visiva di un testo letterario - tantopiù di un testo di rara complessità come quello del poema ariostesco - proponendosi nel contempo come una raffinata edizione estremamente curata nei dettagli editoriali, primo fra tutti la quantità e qualità di riproduzione delle immagini a colori.

 

          Bello, insomma, da leggere come da vedere, proprio come il Furioso.

 

 

[1] Voir le compte rendu de ce volume sur notre site : http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=1930&lang=fr 
 

 

 

 

Sommaire

 

Gianni Venturi, Préface, p. 7-8

 

Introduction

 

Michel Paoli, L’oeuvre d’art hors d’elle-même ?, p. 10-19

 

Monica Preti, « Nei suoi poemi non si legge ma si vede » Voir l’Arioste ?, p. 20-27

 

L’Arioste, Ferrare et les arts à la cour des Este

 

Marco Folin, Le prince et ses courtisans. Arts et société dans une ville italienne de la Renaissance, p. 30-45

 

Michel Paoli, « Messire Ludovic, où etes-vous allé chercher toutes ces âneries ? ». L’impression de « réel » dans les Satires et le Roland Furieux, p. 46-60.

 

Gianni Venturi, Ludovico Ariosto : portrait d’un poète dans la littérature et dans les arts visuels, p. 61-72

 

Marco Dorigatti, De Ferrare à la France. Le parcours historique du Roland furieux (1516), p. 73-91

 

Vincenzo Farinella, La Mélissa Borghèse de Dosso Dossi. Une célebration des mérites politiques de Lucrèce Borgia ?, p. 92-118

 

Andrea Gareffi, « Polignote, Timagoras et Parrhasius ». Les stances des peintres anciens et modernes, p. 119-141

 

Du Texte à l’Image

 

Marcello Ciccuto, Ce qu’il reste de l’Arioste. Les « fables » du Roland furieux et la tradition figurée, p. 144-155

 

Federica Caneparo, De l’art du livre à l’art de la fresque. Sur les pas de l’Arioste à travers les Alpes, p. 156-170

 

Timothy Wilson, L’Arioste à table. Les illustrations du Roland furieux du peintre de majoliques Francesco Xanto Avelli, p. 171-183

 

Lina Bolzoni, Le Roland furieux et les théâtres de mémoire. Comment traduire le poème en une galerie d’images, p. 184-198

 

Monica Preti, « …tacendo parla per molte lingue ». Girolamo Porro illustrateur de l’Orlando furioso, p. 199-221

 

Massimiliano Rossi, L’Arioste, chantre des Médicis. L’allégorie politique dans les fresques de Francesco Furini au Palazzo Pitti, p. 222-236

 

Marie-Anne Dupuy-Vachey, Le Roland furieux au siècle des Lumières. L’Arioste à la folie ?, p. 237-251

 

Sébastien Allard, Ingres peintre de l’Arioste. À propos de Roger délivrant Angélique : de la discontinuité littéraire au collage pictural, p. 252-265

 

L’influence du Roland Furieux sur la création artistique

 

Gilles Polizzi, La folie de Roland et la vieillesse d’Alcina. L’Arioste à Bomarzo et l’esthétique du jardin maniériste, p. 268-285

 

Pascal Torres, Molière lecteur de l’Arioste. Les Plaisirs de l’Isle enchantée ou l’invention du Tartuffe, p. 286-295

 

Roberta Ziosi, Les pérégrinations du chevalier. Le Roland furieux à travers les livrets d’opéra, p. 296-312

 

Postface

 

Michel Jeanneret, Le Roland furieux en France : le retour du refoulé (XVIe-XVII e siècles), p. 314-326.

 

Index des noms de personnes et de personnages, p.  327-335

 

Crédits photographiques, p. 336.