Bilotta, Maria Alessandra: I Libri dei papi - La Curia, il Laterano e la produzione manoscritta ad uso del papato nel Medioevo (secoli VI-XIII). XXXII, 284 ; pl. 63 pages, ISBN : 978-88-210-0874-0, 70 €
(Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2011)
 
Recensione di Ivan Foletti, Université de Lausanne
 
Numero di parole: 2034 parole
Pubblicato on line il 2015-03-09
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=2002
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          Il volume di Maria Alessandra Bilotta I libri dei papi è la pubblicazione ampliata della sua tesi di dottorato discussa nel 2007 all’Università di Pisa. Pubblicato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, questo tomo si pone l’obiettivo di presentare – in uno studio sulla longue durée – la complessa questione dell’esistenza e dello sviluppo di una biblioteca pontificia, in Laterano, dal V alla fine del XIII secolo. Con soltanto pochissime prove documentarie dirette, l’autrice si propone ugualmente di presentare una serie di manoscritti appartenuti, con ogni probabilità, a tale istituzione.

 

          Il capitolo introduttivo (pp. 1-42) è dedicato alla questione dell’esistenza di una biblioteca (e/o scrinium) in seno al complesso lateranense, della sua localizzazione e, infine, della sua funzione. L’autrice propone, basandosi su diverse fonti, in particolare il Liber Pontificalis, che il primitivo spazio librario si trovasse nei pressi del battistero. Si tratta di un’interpretazione basata sulla correzione di un errore di trascrizione fatto da Duchesne nella sua edizione del Liber (p. 7-8). In un secondo momento, probabilmente dopo le devastazioni del 640, la biblioteca venne trasferita nello spazio del palazzo attuale, forse, sotto all’attuale Sancta Sanctorum (p. 18). Non vi sono però documenti o indizi espliciti per dare una prova definitiva di questo fatto – Bilotta si basa su l’interpretazione di un affresco, forse immagine di sant’Agostino, proposta da Lauer – e neppure di quali potessero essere le funzioni di questa biblioteca primitiva: si trattava soltanto di un deposito di libri, o anche una sala di studio? Ad ogni modo, fin dall’VIII secolo, il bibliotecario diventa una figura notevole della curia, aggiungendo la sua firma a documenti importanti, mentre lo scrinium è eletto a deposito dei documenti curiali di rilievo (p. 21). La presenza di un importante centro librario presso la curia è dimostrata, indirettamente, anche dagli importanti doni ai re e imperatori franchi (pp. 24-25). Nel X secolo la vitalità del polo Lateranense è attestata da un’ampia vendita di libri, mentre è nel secolo successivo che la curia promuove una nuova – e molto diffusa – edizione della bibbia, la bibbia Atlantica, con delle note critiche firmate da Pier Damiani. Tra la fine dell’XI e il XII secolo la biblioteca vive un momento di distruzione importante, le cui ragioni sono – malgrado alcune ipotesi formulate nel passato – ignote (pp. 27-28).  L’ultima tappa studiata da Bilotta è quella del Duecento. In questo periodo, dopo il pontificato di Innocenzo III, la biblioteca diventa parte del tesoro pontificio e accompagna il papa nei più importanti trasferimenti della sua corte in Italia e quindi, con Clemente V (1305-1314), ad Avignone, limite cronologico che conclude il volume qui recensito (p. 31).  Emblematici e importanti per il soggetto sono i dati noti degli ultimissimi anni del secolo quando Bonifacio VIII (1294-1303) decide di tornare da Napoli a Roma, seguito dal suo tesoro. Questo ha raggiunto dimensioni tali che, per trasportarlo nuovamente nell’Urbe, Carlo d’Angiò presta al pontefice 300 bestie da soma. Al suo arrivo il tesoro è, nel 1295, inventariato, sappiamo così che vi erano all’epoca 500 codici, parte della biblioteca “nuova” costituita nel corso del Duecento (p. 33). Un secondo inventario della biblioteca è costituito, dopo la morte di Benedetto IX (1303-1304), quest’ultimo recensisce sia il tesoro a Roma che una sua parte trasportata a Perugia nel 1304 (p. 39).

 

          Partendo da queste osservazioni – che hanno una funzione preliminare – il libro è quindi strutturato in altri tre capitoli che studiano alcuni manoscritti prodotti verosimilmente in Laterano (o ad uso del Laterano) in altrettanti momenti cronologici: il primo va dalla fondazione della Basilica Salvatoris, al IX secolo (pp. 43-69); il secondo coincide con i secoli XI e XII e la riforma canonicale (pp. 71-117); infine, il terzo capitolo, è dedicato ai libri liturgici secundum consuetudinem et usum romanae curiae nel corso del Duecento (pp. 119-175).

 

          Questi tre capitoli hanno una struttura molto simile: sono scanditi dai vari manoscritti, introdotti da un breve contesto storico, seguito da un’analisi del loro contenuto e quindi da dallo studio del loro stile (paleografia e decorazioni). Incrociando queste informazioni l’autrice dimostra la loro appartenenza all’aria romana e, in molti casi, una plausibile relazione con il Laterano. I ventiquattro esempi presi in considerazione, conservati soprattutto nella Biblioteca Apostolica Vaticana e in alcune importanti biblioteche mondiali (in maggioranza francesi e Italiane), sono esempi importanti ma – come osserva l’autrice stessa – il corpus scelto non può assolutamente essere considerato come completo (p. 188).

 

          Se ci si concentra su alcuni casi emblematici, è possibile indicare in che maniera Bilotta ha condotto la sua indagine. Il primo caso, quello della Regula Pastoralis ms 504, della Médiathèque de l’Agglomération di Troyes (pp. 43-51), diventa per la studiosa un esempio particolarmente felice per dimostrare come il patrimonio librario tardoantico viene raccolto dalla curia all’epoca di Gregorio Magno (590-604). Scritto molto probabilmente sotto la stretta sorveglianza del pontefice, questo manoscritto prova, prima di tutto, che a fine VI secolo, simili volumi potevano essere prodotti a Roma. La scrittura usata, l’onciale romana, è una creazione gregoriana che – assieme ad alcuni elementi decorativi – fungerà da modello per i successivi quasi duecentocinquant’anni. La produzione libraria negli anni di Gregorio catalizza quindi la tradizione riformulandola e facendone un punto fisso nella produzione altomedievale dell’Urbe. Il ms 504, è però ugualmente importante anche per quanto riguarda lo sviluppo del latino.

 

          Appartiene alla prima produzione libraria anche un secondo manoscritto studiato da Bilotta: il Vat. Lat. 10696 (pp. 53-55). Conservato solo in maniera frammentaria il codice fu ritrovato sezionato in una serie di autentiche, contenute nell’arca Cipressina del Sancta Sanctorum, prodotte negli anni di Leone III (795-816). Bilotta dedica relativamente poco spazio a questo manoscritto, che è però importante per capire alcuni dei meccanismi chiave della biblioteca del Laterano. Si tratta prima di tutto del fatto il Vat. Lat. 10696, probabilmente datato tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, fosse stato distrutto attorno all’anno 800. Bilotta spiega tale atteggiamento con il fatto che la vita di un libro era certamente limitata; una volta usato, il manoscritto veniva quindi semplicemente scartato. Il fatto che proprio tale “scarto” sia stato usato per delle autentiche non sembra però casuale: usare un antico libro poteva avere un significato sacrale, di appartenenza alla tradizione. Un dato dimostrato probabilmente anche dalla scrittura usata per le autentiche: si tratta dell’onciale gregoriana. La scelta del supporto e della scrittura potevano quindi essere elementi della tradizione. Ultimo aspetto rilevante, è il fatto che il testo trascritto nel Vat. Lat. 10696 era quello delle Historiae di Tito Livio. Con ogni probabilità la prima biblioteca pontifica era perciò stata, nell’alto medioevo, une dei luoghi privilegiati per conservare le conoscenze e la cultura classica.

 

          Il terzo esempio che rivela meccanismi di tutt’altro tipo è il San Marco 326, della Biblioteca Laurenziana di Firenze (pp. 102-106). Si tratta di una copia del Tito Livio romano, realizzata probabilmente in Urbe, da copisti francesi, tra la fine del XI e inizio del XII secolo. Le decorazioni trovano un significativo parallelo nella scultura dell’Île de France, nell’abbazia, oggi distrutta, di Sante-Geneviève, demolita a partire dal 1807. Come in altri casi, anche nel San Marco 326, la cultura figurativa dei copisti era, secondo Bilotta, in evidente dialogo anche con la Borgogna. Questo significa, in sintesi, che a Roma e in Laterano, nel XII secolo, dovevano essere attivi autori con una cultura figurativa non italiana. L’autrice spiega questo fenomeno con la presenza di monaci cistercensi nell’Urbe, molto legati alla curia. Sappiamo infatti della presenza a Roma di Bernardo da Clairvaux per sostenere il papa Innocenzo II (1130-1143), è inoltre noto che Eugenio II (1145-1153) fu cistercense. Quanto delineato dalla studiosa è perciò un mondo romano realmente inter-culturale con scribi e illustratori di altri orizzonti che lavorano per la corte.

 

          In una direzione simile, anche se più complessa, va anche l’ultimo esempio qui considerato, quello del Ottob. Lat. 356, della Biblioteca Apostolica Vaticana (pp. 130-144). Si tratta di un sacramentario, con alcune rubriche tratte dall’Ordo. Queste ultime fanno pensare che fosse usato dal papa stesso. La presenza di Pietro il martire e di Ladislao d’Ungheria fa slittare la composizione del manoscritto a dopo il 1255, ma deve essere datato prima del 1298, quando Agostino, Ambrogio, Girolamo e Gregorio Magno divengono quattro dottori della chiesa. È autore delle illustrazioni il Magister Nicolaus, chiaramente debitore alla cultura francese, la cui attività è attestata nella curia pontificia, intorno al terzo quarto del XIII secolo. Lo stile delle opere attribuite al Magister Nicolaus, ricorda quello delle scuole parigine della metà del XIII secolo. Allo stesso modo il termine con il quale Nicolaus si designa – illuminator – è all’epoca un francesismo. Nicolaus appare perciò di formazione “parigina”, nella sua maniera sono presenti elementi di matrice italiana. Bilotta propone quindi di considerarlo come un italiano, formato in Francia o a Parigi, con un linguaggio misto. Dettaglio affascinante, un suo allievo aveva inoltre contatti con la cultura ebraica dell’Urbe, cosa plausibile visto che è all’epoca attestata la presenza di altri Ebrei alla corte pontificia. La figura che emerge così è quella di un artista – forse dell’entourage del cardinale Hugues de Saint-Cher – che sintetizza nella sua figura lo scambio culturale tra il Roma pontificia e l’ambiente d’oltralpe.

 

          I pochi esempi qui citati mostrano, a mio parere, i primi aspetti importanti dell’opera di Maria Alessandra Bilotta. Si tratta, in primo luogo, della dimensione di agente di scambio culturale che assume il libro alla corte pontificia del Laterano. Vi sono libri, prodotti a Roma, e spediti fuori dall’Urbe per affermare l’esclusività della corte pontificia. È il caso del Clm 4965 della Bayerische Staatsbibliothek (pp. 55-64), mandato con Metodio in Grande Moravia per sostenere la sua opera di evangelizzazione o dei diversi manoscritti mandati alla corte carolingia. Vi sono però anche libri che compiono il processo inverso: prodotti fuori Roma, vengono pensati per la curia o semplicemente donati al pontefice.

 

          Il secondo dato importante che emerge dallo studio dei diversi manoscritti, che in fondo sorprende poco, è quello di Roma come garante della tradizione. È a Roma che si conservano testi e maniere antiche, è sempre a Roma che nuove generazioni si appropriano della forme e dei concetti del passato aggiornandoli.

 

          L’ultimo aspetto che emerge con forza è quello, già menzionato, di una Roma profondamente multiculturale. Il mondo greco bizantino, quello francese, quello toscano o ancora quello delle isole britanniche si incontrano nell’Urbe. Ne nascono manoscritti, a uso della curia e del Laterano, composti nei monasteri e in seno alla curia stessa, che parlano una moltitudine di linguaggi, a immagine di un Laterano pontificio, profondamente segnato dall’esperienza delle diverse culture che costituiscono l’Occidente latino.

          

          In questo senso, il volume qui recensito è una tappa importante nella storia critica degli studi. La scelta della longue durée, permette di osservare mutamenti e costanti che uno sguardo ravvicinato non avrebbe permesso di intravvedere. Importante è anche la scelta di un unico medium – il manoscritto – e il grande spazio dato ai libri liturgici. Grazie a queste due scelte il volume acquista di coerenza. Notevole è, infine, anche l’erudizione dell’autrice.

 

          Se si volessero mettere in rilievo le carenze di quest’opera, credo che i due punti più fragili siano certamente la scarsa interazione tra i libri studiati e i due registri del 1295 e del 1304. Se, per le ragioni ricordate qui sopra, questo lavoro è impossibile da eseguire per i volumi anteriori al Duecento, un’apertura in questo senso per il tredicesimo secolo, avrebbe reso gli argomenti ancora più convincenti.

 

          Secondo dubbio, più generale, riguarda l’impressione, che l’autrice abbia comunque ceduto alla tentazione di considerare gli esempi raccolti come rappresentativi. Certo, Bilotta, sottolinea diverse volte la parzialità del corpus raccolto, ma poi opera comunque come se i manoscritti superstiti – soprattutto per la parte altomedievale – fossero un campione paradigmatico. Si tratta di una situazione difficile da risolvere, visti i pochi documenti superstiti del primo millennio, ma che a mio modo di vedere meriterebbe d’essere più esplicitamente discussa in volumi di così ampio respiro.