D’Acunto, Matteo: Il mondo del vaso Chigi. Pittura, guerra e società a Corinto alla metà del VII secolo a.C. xlii, 273 pages, 67 fig., ISBN: 978-3-11-031421-2, 99, 95 €
(De Gruyter, Berlin 2013)
 
Compte rendu par Massimiliano Papini, La Sapienza, Università di Roma
 
Nombre de mots : 3735 mots
Publié en ligne le 2015-01-20
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          “La rappresentazione va indagata non con le indagini miopi e banali sugli schemi figurativi, cari a tanti tradizionalisti affezionati a questo filone di studi, bensì con la ricerca di messaggi figurati spesso non evidenti a prima vista, come ci hanno insegnato gli esempi di Warburg, di Panofsky, di Haskell”, ha scritto Mario Torelli (Il Sole 24 Ore, Domenica 14 dicembre 2014). Ed ha ragione, benché la schiera dei tradizionalisti (dei cattivi formalisti, sarebbe meglio dire) si sia ormai tanto assottigliata da risultare invisibile o quasi insignificante, mentre la conoscenza degli usi degli schemi figurativi nei diversi contesti continua a costituire il presupposto da cui avviare ogni indagine anche sulle immagini quali «costruzioni intellettuali» (secondo la definizione di Ida Baldassarre nella premessa) - è un’ovvietà, ma il contrario può generare equivoci o forzature.

 

         Il libro di Matteo D’Acunto dà l’esempio di una combinazione del buon metodo “tradizionale”, consistente in un minuto esame descrittivo, stilistico e iconografico, con caute ed equilibrate interpretazioni dei messaggi; l’opera amplia gli spunti impostati dalle ricerche moltiplicatesi nell’ultimo decennio intorno al vaso (e intorno alla sua più tarda “controparte” attica, il cratere François), a partire da un articolo di Jeffrey Hurwit (Reading the Greek Vase, in Hesperia 71, 2002, pp. 1-22), passando per le pagine di Mario Torelli (Le strategie di Kleitias. Composizione e programma figurativo del vaso François, Milano 2007, pp. 64-70), sino al volume miscellaneo curato da E. Mugione (L’Olpe Chigi. Storia di un agalma. Atti del Convegno Internazionale Salerno, 3-4 giugno 2010, Salerno 2012): tutti studi eccellenti insistenti sulle relazioni e sulle rispondenze orizzontali e verticali tra i suoi tre registri principali, ricche di valori normativi e moniti etici che si offrivano allo sguardo degli aristocratici durante simposi di alto livello.

 

         Il vaso (650-640 a.C. circa) proviene dalla cella principale di una tomba a camera a distanza significativa dal centro di Veio, la cui presenza può rivelare un piccolo nucleo abitativo gestito da un clan. Il catalogo dei tanti reperti ceramici (specie bucchero) e di quelli osteologici (pochi) provenienti dallo scavo del tumulo e dalla Collezione Chigi è ora edito in L. Michetti, I. van Kampen (a cura di, Il tumulo di Monte Aguzzo a Veio e la collezione Chigi. Ricostruzione del contesto dell’olpe Chigi e note sulla formazione delle collezione Chigi a Formello (Accademia Nazionale dei Lincei, Monumenti Antichi Serie Miscellanea, XVI, Roma 2014): un’anforetta appunto di bucchero, con superficie rivestita di alfabetari e formule magiche o scaramantiche, restituisce il nome di Venel, destinatario del dono da parte di anaia, la madre, forse anche l’ultimo possessore dell’olpe; un’altra iscrizione incisa sul ventre di un aryballos miniaturistico trasmette il nome della gens veiente titolare del tumulo, Pepunas.

 

         Al Pittore Chigi sono stati attribuiti anche altri vasi, e D’Acunto, in sintonia con Darrell Arlynn Amyx, nel secondo capitolo individua la stessa mano o bottega solo negli aryballoi plastici dal mercato antiquario a Londra, British Museum (aryballos di presunta ma incerta provenienza tebana) e a Berlino, Staatliche Museen (da Rodi, forse Kameiros) per diverse analogie (morfologica, iconografica e stilistica), a dispetto delle differenze nella complessità nella resa spaziale delle figure, nella precisione e ricchezza dei particolari e, naturalmente, nelle destinazioni d’uso; rispetto all’olpe, in una sequenza relativa con il presupposto che l’attività del pittore abbia seguito un lineare percorso evolutivo nell’arco di un trentennio, quei due vasi possono considerarsi più antichi (670-650 a.C. circa) per indizi del genere: l’iconografia “ibrida” delle protomi leonine plasmate dal coroplasta all’imboccatura rispetto a quella compiutamente “assirizzante” del leone ritratto sull’olpe e la concezione della scene di combattimento, sul vaso più celebre in versione «più matura e dunque tendenzialmente successiva». Quale il profilo di questo notevole artefice? Un ceramografo con rapporti significativi con la pittura, risponde l’Autore nel terzo capitolo, tanto più che, come sulle metope di Thermos in Etolia, l’analisi a luce radente anche sull’olpe svela tracce del disegno preparatorio, parimenti non sempre rispettate nell’esecuzione finale. Il problema della precisazione di quei rapporti si pone soprattutto dopo il recente rinvenimento delle figure di guerrieri dipinte che decoravano l’interno del tempio di Kalapodi in Focide (santuario panellenico con molteplici collegamenti con Corinto), della metà del VII sec. a.C., per ora note da una ricostruzione grafica preliminare; verosimilmente eseguito da un artigiano corinzio itinerante, di cui Jeffrey Hurwit non ha escluso persino l’identificazione con il Pittore Chigi (ma l’Autore fa bene a mostrarsi più cauto al riguardo, e i suoi “errori” nella scena di battaglia non per forza costituiscono il frutto della compressione di un più largo modello), quel dipinto a secco conferma il ruolo influente di Corinto sulle origini della grande pittura. Si aprono così tre opzioni: il suo inizio influenzò alcuni ceramografi corinzi; oppure, i pittori sono stati in origine anche ceramografi, per cui la pittura parietale si specializzò a poco a poco; altrimenti, in epoca proto-arcaica, più semplicemente, tra le due attività vi furono varie forme di interdipendenza, non più specificabili nei singoli casi. Malgrado l’assenza di indizi risolutivi, secondo un più neutro compromesso prospettato anche da Hurwit, la terza via è adottata dall’Autore a logica, perché gli artigiani difficilmente dovettero vivere solo degli introiti legati a committenze di dipinti templari. All’opposto, stando al riassunto di un intervento nella cornice della discussione finale del convegno a Salerno (rimasto inedito e riferito da Michetti, Van Kampen, op. cit., p. 99, ma il pensiero è stato già anticipato nel 1994), Giovanni Colonna ha escluso rapporti stretti tra ceramografia e grande pittura, giacché la figura del pittore doveva piuttosto far parte di una squadra volta soprattutto a costruire case e palazzi, come si può evincere dalla notizia di Plinio il Vecchio su Demarato, che, esule da Corinto, portò con sé il pittore Ecfanto e i tre fictores dai nomi parlanti; eppure, per il solo fatto di essere conosciuto, quel cenno pliniano da solo non può riassumere una realtà di sicuro molto più variegata (sui nessi tra ceramografia e grande pittura a partire da due importanti tombe veienti vd. anche P. Brocato, La tomba delle Anatre di Veio [Ricerche 5], Rossano 2012, pp. 123-131).

 

         Straordinaria per livello tecnico, qualità, ricchezza di temi e diligenza nella resa dei dettagli, l’olpe Chigi fu senz’altro creata per l’uso di ambienti elitari; di qui l’esame nel terzo capitolo del programma iconografico, il punto di forza del libro.

 

         In precedenza Hurwit aveva delineato un percorso graduale di paideia con tre gradini di maturazione di un aristocratico corinzio, seguibili dal basso verso l’alto, con la sequenza distinta in classi di età giovani/efebi/adulti. La lettura è ripresa da D’Acunto, salvo per il fatto che, in maniera più convincente, il passaggio d’età sarebbe visibile solo nella prima e nella seconda fascia. Infatti, in quella inferiore dei giovani impegnati in una caccia leggera alla volpe, per le notazioni naturaliste ambientata ai margini del territorio della polis, sono forse non paides, ma efebi per capelli corti e nudità (anche Torelli vi aveva individuato un athlon efebico). Nel secondo e terzo fregio principali i protagonisti hanno la lunga chioma già distintiva degli eroi omerici e appartengono alla classe degli adulti. In quello mediano sfilano quattro hippostrophoi, “scudieri” che tengono per le briglia un secondo cavallo privo di montatura, mentre un auriga conduce un carro evidentemente appartenente a una figura di rango superiore; per la coincidenza numerica, è buon senso ritornare a pensare che i cavalieri smontati abbiano qualche legame con i protagonisti poi di un altro segmento descrittivo della stessa fascia (caccia al leone); ed è interessante la prudente proposta di potere riconoscere nella cd. doppia sfinge a separazione delle due scene una Ker, tanto più che l’unica sicura rappresentazione di quel demone spaventoso connesso alla morte violenta compare sull’arca di Cipselo nella lotta tra Eteocle e Polinice - lì però con denti e con mani dalle unghia adunche secondo Pausania. Il corteo di cavalli, per D’Acunto non da intendere come diretta rappresentazione di una parata precedente un eventuale agone (l’immagine resta nondimeno ambigua, poiché la quadriga serve principalmente per agoni e cortei/parate, come poi lo stesso Autore deve ricordare), svela lo status politico-sociale dei partecipanti alla caccia pericolosa: il ruolo centrale della hippotrophia a Corinto si deduce dal sistema cultuale-mitico e simbolico ruotante intorno al mito di Bellerofonte e Pegaso.

 

         La caccia di gruppo al leone, con un presunto protagonista di spicco (quello nudo con cintura, intento sì ad affrontare l’animale, ma da dietro), assume “metafora” paradigmatica del combattimento, in quanto l’animale sin dall’Iliade e dal repertorio tardo-geometrico implica una situazione agonale spettacolare di estremo rischio (sul tema vd. anche L. Giuliani, Bild und Mythos. Geschichte der Bilderzählung in der griechischen Kunst, München 2003, pp. 46-53, 59-66, libro in generale poco conosciuto dalla critica anglofona e italiana), e non è perciò fortuita la presenza di una protome leonina anche sugli aryballoi ascritti al Pittore; qui l’Autore si ricorda del passo erodoteo sul secondo oracolo delfico dato ai Bacchiadi sul passaggio di potere al tiranno Cipselo, con una sua equazione proprio a un leone forte e feroce evocatrice della dimensione guerresca degli eroi omerici.

 

         La terza fascia inscena il momento culminante dell’impatto tra due schiere di opliti armati di due lance (e non di spada), precedute da “retroguardie” dotate di un’unica lancia e con scena di vestizione, la più antica nota, dove i dettagli delle armature (schinieri, elmi, corazze, scudi con emblemi, per i quali vd. anche H. Philipp, Archaische Silhouettenbleche und Schildzeichen in Olympia [OF 30], Berlin-New York 2004, pp. 92-101) consentono plurimi confronti con i realia del VII sec. a.C.: senza dubbio una rappresentazione sequenziale di momenti topici, con momenti distinti anche all’interno degli stessi gruppi tramite sottili variazioni nel movimento delle figure, come a sinistra in quello della vestizione e nella prima schiera di opliti, in schema di corsa all’inizio e a mano a mano sempre più compatti; soluzioni che per certi versi anticipano per esempio gli hydriaphoroi temporalmente tanto ben cadenzati nel fregio settentrionale del Partenone (J. Neils, The Parthenon Frieze, Cambridge 2001, p. 49, fig. 37). Se proprio l’esercito di sinistra viene valutato dall’Autore quale (futuro) vincente per il numero maggiore di combattenti e per la presenza dell’auleta (vd. però infra per un’opinione opposta), come risolvere la vecchia questione del grado dei rapporti tra rappresentazione e affermazione/evoluzione della tattica oplitica? Le opinioni discordano, pur se in modo meno marcato e scientificamente rilevante di quanto appaia; del resto, divergono anche le visioni su tempi e modi dell’introduzione nonché sulla composizione sociale della falange oplitica, poiché la più tradizionale con un pedigree scientifico di oltre un secolo è stata sottoposta a una revisione non un granché giustificata se portata all’estremo (sui persistenti vantaggi della «grand oplite narrative» è condivisibile la sintesi di V.D. Hanson, The Hoplite Narrative, in D. Kagan, G.F. Viggiano [a cura di], Men of Bronze. Hoplite Warfare in Ancient Greece, Princeton 2013, pp. 256-275, in un volume che esemplifica lo spettro delle posizione dissonanti); ma alla fine anche lì i pareri sono in realtà più vicini almeno su singoli punti di quanto invece suggerito dall’adozione o meno di concetti moderni come per esempio quello di “rivoluzione oplitica” (come notato da A. Snodgrass, Setting the Frame Chronologically, in Kagan, Viggiano, op. cit., p. 91).

 

         L’olpe testimonia non una falange di tipo classico ordinata in ranghi regolari, ma un gruppo di individui combattenti in modo ancora estemporaneo e dunque memore della fluidità delle battaglie omeriche secondo Hans van Wees, con il quale in particolare l’Autore si confronta e per cui «yet this picture is not what is seems», sottilizzazione eccessiva (e se fosse proprio quel che sembra? Ciò è riconsiderato anche da A. Stewart, Two Notes on Greek Bearing Arms: The Hoplites of the Chigi Jug and Gelon’s Armed Aphrodite, in O. Dally, T. Hölscher, S. Muth [a cura di], Medien der Geschichte – Antikes Griechenland und Rom, Berlin-Boston 2014, pp. 227-232, ma si fa poi fatica a condividerne la suggestione per cui i due guerrieri a sinistra in atto di prepararsi sarebbero a margine per avere perduto «la loro opportunità, il loro kairos»); d’altronde, non c’è solo van Wees, e per altri studiosi (come K.A. Raaflaub, Homeric Warriors and Battles: Trying to Resolve Old Problems, in Classical World 101, 4, 2008, pp. 474-479 ) nell’epica le occasionali “scene normali” di battaglia con scontri di massa presentano già i segni di una “proto-falange” e di formazioni relativamente fitte e non troppo fluide. Viceversa, altro che somiglianza illusoria: si tratta di una schiera serrata e ordinata di guerrieri che riflette una fase ancora in evoluzione dell’organizzazione oplitica per molti commentatori, D’Acunto compreso (i suoi risultati sono stati discussi con lievi critiche in una recensione sotto forma di articolo da F. Raviola, Oplitismi a confronto sull’Olpe Chigi, in Eidola 10, 2013, pp. 157-167, più incline a leggere la raffigurazione ancora sotto il segno della “cultura omerica”, ma occorrerebbe allora specificare quale). Tutto dipende da come considerare il vaso: un documento “realistico” (aggettivo quanto mai problematico) parziale o in senso tanto radicale da poter generare vere e proprie narrazioni come quella di G.F. Viggiano, H. van Wees, The Arms, Armor, and Iconography of Early Greek Oplite Warfare, in Kagan, Viggiano, op. cit., p. 68 (i quali, contrariamente a D’Acunto, vedono l’esercito di sinistra in leggero vantaggio, e chissà, anche gli antichi fruitori potevano divertirsi a integrare diversamente a parole l’esito della collisione). Ebbene, non ogni dettaglio va preso alla lettera, perché anche il Pittore Chigi è un “realista” sì, ma greco, non in lotta contro gli schemi e le convenzioni al fine di un’osservazione trasparente e scrupolosa della realtà. Si potrà allora discutere all’infinito se da simile raffigurazione sia legittimo - e più verosimilmente non lo è - dedurre un numero non equivalente di guerrieri nell’avanguardia e retroguardia nell’effettivo coordinamento primordiale della falange; oppure se, come vuole Raviola, i guerrieri qui arretrati per il fatto di portare una sola lancia siano diversi rispetto ai promachoi e da immaginare quindi a loro rincalzo. Tuttavia, è inequivocabile come la collettività dei due eserciti sia qui oltre l’etica del duello tra campioni. La posizione di van Wees era comunque stata già criticata da A. Schwartz, Reinstating the Hoplite. Arms, Armour and Phalanx Fighting in Archaic and Classical Greece (Historia Einzelschriften 207), Stuttgart 2009, pp. 123-130, attento sia a notare la non incompatibilità dei giavellotti con il combattimento oplitico nel VII sec. a.C., sia a domandarsi la ragione della rarità in assoluto di immagini di falangi oplitiche e sulle difficoltà nella loro traduzione visiva da parte degli artigiani: del resto, pure lo scontro sull’aryballos a Londra riproduce poco di uno scontro oplitico a parte l’accostamento ravvicinato delle coppie, mentre quello a Berlino è diviso in segmenti distinti con più schiere prima dell’impatto e con combattimento già in corso, ed è quella di sinistra a presentarsi con uno schieramento più denso. Che, come per D’Acunto, la successione temporale già per altre vie stabilita per i vasi attribuiti al Pittore Chigi permetta poi di assistere a un’evoluzione della tecnica di combattimento lascia pertanto perplessi, visto che, più semplicemente, può trattarsi di diversi esperimenti figurativi condotti da un artigiano che nella parte finale della sua attività raggiunse una «maturità e complessità molto alta» (vd. al proposito lo stesso Autore a p. 143). A ogni modo, di rilievo nel libro è poi l’analisi dell’auleta con chioma corta dal ciuffo rialzato (sembra esagerato desumere che sia un efebo ancora più giovane rispetto ai cacciatori del fregio inferiore per un taglio di capelli appena compiuto) e della funzione dell’accompagnamento musicale in guerra ad accompagnamento del ritmo di marcia (per i vari tipi di canti di guerra, in relazione agli Spartani e non solo, vd. anche F. Cordano, La guerra e la musica nell’antica Grecia, in M. Sordi [a cura di], Guerra e diritto nel mondo greco e romano [Contributi dell’Istituto di storia antica 28], Milano 2002, pp. 163-172); che l’oggetto appeso al braccio all’altezza del gomito sia un astuccio funzionale a riporre il doppio flauto è ben sottolineato (ma, descrivendo il vaso, se ne era già accorto almeno P.E. Arias, Mille anni di ceramica greca, München-Firenze 1960, p. 45). Infine, la volontà di far corrispondere ai quattro promachoi dell’esercito di sinistra i quattro cavalieri smontati o meglio sopravvissuti della caccia al leone e la convinzione che questi, distinti dalla “retroguardia”, appartengano all’élite dei cavalieri e possessori del carro, secondo la preferenza dell’Autore, paiono leggere forzature.


         A questo punto arriva la spiegazione sull’inclusione dell’unica vicenda a carattere narrativo sotto l’ansa del vaso, il giudizio di Paride: la posizione relativamente meno visibile è “compensata” dall’accompagnamento delle “didascalie” (non v’è bisogno di supporre perciò che la scena sia la riproduzione diretta di un modello pittorico di grande o medio formato, come invece supposto da D.F. Maras, in Michetti, van Kempen, op. cit., p. 149). Come da tempo compreso, l’episodio offre un paradigma di prova nuziale, cui poté non esser estranea la connotazione negativa di un matrimonio con conseguenze fatali per Troia; al contrario, a detta di D’Acunto, meno dovette influire sulla sua scelta l’importanza di Afrodite a Corinto venerata quale armata sull’acropoli, perché l’immagine della dea non presenta qui - come ovvio, vista la scena - alcun tratto militare; ma come escludere che il mito possa essere stato scelto (anche) in funzione dell’importanza di Afrodite a Corinto? Appare inoltre un po’ discutibile che Afrodite sia stata appositamente posta in asse con il baricentro del primo guerriero di sinistra nella fascia superiore per instaurare un parallelismo topico omerico tra una “vestizione delle armi” al femminile e un’altra effettiva al maschile; più significativa è all’inverso la coincidenza tra la volpe presente nella prima fascia sotto l’ansa in corrispondenza di Ermes ed Era, dato che all’inganno dietro alla promessa di Afrodite corrisponde in verticale l’animale ingannevole per eccellenza. Ancora: Paride si presenta con un pizzetto sul mento e dunque non è ancora del tutto adulto; contraddistinto però da una lunga capigliatura, secondo l’Autore può sì appartenere alla fascia di età degli efebi, ma senza avere conosciuto il rito del passaggio del taglio dei capelli per le sue vicende personali; del resto, l’abito lo qualifica come pastore in conformità alla versione trasmessa dal libro ventiquattresimo dell’Iliade secondo cui il giudizio ebbe luogo sull’Ida. Una simile lettura strettamente aderente a quanto visibile può essere giusta, per quanto le modalità di narrazione arcaica talvolta prevedano che una figura si presenti con delle caratteristiche che, impossibili in una determinata situazione, le appartengono però intrinsecamente (il che può qui valere per i capelli lunghi di un eroe come Paride), come tempo fa illustrato nel saggio di N. Himmelmann, Erzählung und Figur in der archaischen Kunst (Akademie der Wissenschaften und der Literatur. Abhandlungen der Geistes- und Sozialwissenschaftliche Klasse, 2), Wiesbaden 1967.

 

         Il quarto capitolo si incentra sulle origini del Pittore Chigi in base all’alfabeto non meglio precisabile (forse dal Peloponneso nord-orientale?) ma senz’altro non corinzio - poco verosimile che l’iscrizione sia stata aggiunta da un suo collaboratore; secondo la più sensata idea della maggior parte degli studiosi condivisa da D’Acunto, egli si avvalse dell’alfabeto adottato nel luogo dov’era nato o aveva ricevuto l’educazione, il che non ne sminuisce la natura di artigiano “corinzio”.

 

         Il quinto capitolo affronta l’inserimento del vaso nel periodo critico di Corinto con la presa del potere di Cipselo e la cacciata dell’oligarchia bacchiade, di controversa cronologia. Siccome l’Autore ne predilige la datazione alta (656-655 a.C.), la realizzazione del vaso si deve datare subito dopo quell’evento; donde l’interrogativo se gli elementi interni del programma figurativo dell’olpe rispecchino il sistema politico-sociale generale del VII sec. a.C., oppure un orizzonte di valori più specifico, di matrice bacchiade o cipselide. Specie per la seconda fascia con la presenza del carro e dei cavalli come simbolo di status e con il leone quale terribile animale da combattere, D’Acunto propende per un sistema di riferimento ancora oligarchico orientato verso modelli aristocratici e “omerici”. Può darsi, benché quei due indizi siano molto tenui (anzi, il secondo non pare neppure tale, perché la natura “leonina” di Cipselo di certo non avrà fermato nel mondo figurativo l’uso del leone quale animale perfetto per l’esibizione di aristeia), e in tanta incertezza determinata anche dalla singolarità dell’opera non aiuta un’obiezione come quella di Raviola, per cui non ci sarebbe da attendersi un’iconografia molto diversa se l’opera fosse stata creata secondo il “punto di vista” cipselide; semmai, in linea puramente teorica, potremmo provare a immaginare quali siano le responsabilità di ceramografo e acquirente nella fase dell’“invenzione” del programma iconografico nei casi che, come questo, siamo soliti definire “commissioni speciali”.

 

         Per finire, nel sesto capitolo, la giustificazione della presenza del vaso in territorio etrusco: se la decorazione sviluppa un discorso coerentemente greco, l’olpe poté entrare in dinamiche di commercio di tipo elitario secondo il modello della prexis quale dono a espressione delle forme cerimoniali tra élites nel momento iniziale della fase cd. demaratea nel mondo etrusco-laziale e dei tanti suoi contatti con il versante corinzio, confermati anche dalle evidenze archeologiche (tetti fittili, ceramica etrusco-corinzia, megalografie nelle tombe etrusche); così, l’opera poté essere donata a un principe etrusco senza essere sin dall’origine concepita per un committente straniero, ipotesi esclusa - stavolta vigorosamente - dall’Autore. Il dilemma interessa pure il cratere François, per qualcuno arrivato a Chiusi, a causa della complessità della sua decorazione, nelle dinamiche del «“second-hand” market», per altri frutto di una commissione speciale da leggere in una prospettiva etrusca (quindi tutto l’onere di una decifrazione in questo senso, per ora appena abbozzata, tocca agli assertori della seconda tesi, tra cui conta anche C. Reusser, The François Vase in the Context of the Earliest Attic Imports to Etruria, in H.A. Shapiro, M. Iozzo, A. Lezzi-Hafter [a cura di], The François Vase: New Perspectives. Papers of the International Symposium Villa Spelman, Florence, 23-24 May, 2003, Zürich 2013, pp. 46 sg., nota 134).

         

         A più di centotrenta anni dalla scoperta, il micro-mondo dell’olpe Chigi è ormai indagato in profondità: sarà nel complesso difficile andare oltre il bel libro di Matteo D’Acunto, il cui pregio fondamentale consiste in un’analisi dettagliatissima che invita a ulteriori riflessioni e che in un prossimo futuro potrà essere presa in considerazione anche da storici quali gli autorevoli autori del più volte citato volume Men of Bronze, pur lì poco disposti a citare lavori in lingua italiana.

 

         L’Autore, senza la presunzione di voler imporre proposte, comunque mai ardite, e sempre consapevole delle insidie ermeneutiche nonché dei vantaggi (e degli svantaggi) delle proprie preferenze, ha oltretutto adottato uno stile di piacevole lettura, senza quelle complicazioni intellettualistiche che non di rado limitano i contributi di chi, a forza di leggere messaggi, finisce magari per perdere di vista e ricoprire di troppe parole - moderne - i meccanismi artigianali di produzione delle immagini.