Hamiaux, Marianne - Laugier, Ludovic - Martinez, Jean-Luc (dir.): La Victoire de Samothrace. Redécouvrir un chef-d’œuvre. 200 p., format : 24 x 30 cm, EAN : 9782757209127, 35 €
(Musée du Louvre, Paris - Somogy éditions d’Art, Paris 2014)
 
Compte rendu par Massimiliano Papini, La Sapienza, Università di Roma
 
Nombre de mots : 3925 mots
Publié en ligne le 2015-07-21
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          È facile recensire un libro come questo, dedicato al restauro nel 2013-2014 della Nike di Samotracia, scoperta nel 1863 da Charles Champoiseau; restauro di un «véritable chef-d’œuvre», che, effettuato nella Sala dei Sette Camini, ha attirato l’attenzione della stampa francese ed estera per le forme di finanziamento da parte di Nippon Television Holdings, della Bank of America e del mecenate storico del Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines, Marc Ladreit de Lacharrière, affiancati da un sistema di crowdfunding grazie a seimilasettecento cittadini coinvolti nell’operazione «Tous mécènes !» non nuova per il Louvre – per i lettori italiani possono essere utili le riflessioni di T. Montanari, Privati del patrimonio, Torino 2015, soprattutto pp. 37-57, 132-134, sullo spazio riservato non al mecenatismo ma alla sponsorizzazione all’interno del Codice dei Beni culturali.

 

          Ed è facile recensire il volume, perché un’iniziativa del genere, con l’armonizzazione di varie competenze tecniche e archeologiche al fine di nuove conoscenze sotto l’egida di una commissione internazionale di restauro, è semplicemente da applaudire. L’opera contiene splendide fotografie a illustrazione degli eccellenti e agili testi, scritti dai maggiori esperti dell’argomento e dei temi connessi. L’introduzione, firmata da Jean-Luc Martinez e Ludovic Laugier, illustra le finalità delle indagini, svelando il dietro le quinte di diverse scelte museografiche in vista della fine del cantiere di restauro e della ricollocazione della Nike in cima allo scalone Daru, dove fu posta forse nella primavera del 1884 grazie a una «geniale intuizione» dei conservatori del Louvre. Recuperare le decorazioni ad accompagnamento della statua concepite da Edmond Guillaume nel 1892 e poi celate dall’intervento di Albert Ferran nel 1932-1933 a favore di una più sobria estetica Art déco? Meglio conservare lo stato degli anni Trenta, nonostante la lecita tentazione di rimettere a nudo i sottostanti mosaici sgargianti con Vittorie e ritratti di grandi personaggi. Come proteggere il monumento dal continuo afflusso turistico? Con un suo spostamento verso la parete di fondo e con la sopraelevazione su uno zoccolo moderno alto circa 60 cm. Ancora: presentarlo in un posizionamento obliquo, come nell’antichità? Questo avrebbe potuto auspicare qualche purista del contesto, oggi (giustamente) al centro dei costanti interessi degli archeologi, talora meno sensibili a storia ed esigenze dei nuovi luoghi di esposizione; siccome al Louvre la vista frontale è ormai non meno ‘storica’, un pannello didattico può invitare i visitatori ad apprezzare l’antica collocazione della scultura, da contemplare poi da sola e senza l’accompagnamento di alcune vestigia architettoniche della «Rotonda» di Arsinoe, arrivate a Parigi e un tempo esposte in sua prossimità. Infine, quale aspetto conferire all’opera? Nella consapevolezza dell’impossibilità del recupero di un insieme coerente, meglio conservarne la silhouette ormai iconica, aggiunte in gesso comprese, ma con il ripristino del contatto diretto tra statua e base e con il recupero della statica originaria.

 

          La prima parte si incentra sulla storia dell’isola e sul santuario dei Grandi Dèi, i cui culti misterici a carattere iniziatico garantivano salvezza in caso di tempeste marine e prospettive soteriologiche ai fedeli che diventavano più pii e giusti secondo l’on dit trasmesso da Diodoro Siculo. Chi erano questi dii incerti? Risposta difficile in considerazione delle idee vaghe degli stessi Greci, e l’indeterminatezza era intrinseca alla natura e alle rappresentazioni dei Megaloi Theoi. Dopo i cenni storici generali sull’isola dalla preistoria ai giorni nostri, con la menzione dei resti della città e della scoperta di impianti produttivi nei suoi dintorni (Dimitris Matsas), il santuario, «una delle più belle espressioni dello spazio sacro ellenistico nel Mediterraneo antico», è presentato da Bonna Daix Wescoat, autrice di molti contributi innovativi nell’ultimo decennio, direttrice degli scavi di Samotracia ed editrice assieme a Olga Palagia del recente volume Samothracian Connections. Essays in honor of James R. McCredie, Oxford-Oakville 2010: lì dal 1936 è attiva una missione archeologica americana, e la campagna del 1950, alla presenza di Jean Charbonneaux, ha restituito la mano destra della Vittoria. Il santuario, frequentato sin dall’inizio del VII sec. a.C., conobbe il suo sviluppo monumentale non prima del IV sec. a.C. grazie alla politica della dinastia macedone che, come nel caso di un altro santuario periferico del mondo greco, Dodona, ne favorì l’ascesa, avviata da Filippo II e proseguita con gli interventi della medesima casa reale, dei Tolemei e dei Seleucidi; la frequentazione ampia sì, ma geograficamente limitata sconsiglia l’uso della nozione di santuario panellenico (ottimi i contributi di M. Mari, Gli studi sul santuario e i culti di Samotracia: prospettive e problemi, in S. Ribichini, M. Rocchi, P. Xella [a cura di], La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca. Stato degli studi e prospettive della ricerca, Roma 2001, pp. 155-166; M. Mari, Al di là dell’Olimpo. Macedoni e grandi santuari della Grecia dall’età arcaica al primo ellenismo, Atene 2002, pp. 198-201). L’articolo della Wescoat, ormai distante dall’approccio metodologico del quale avevano risentito gli studi dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, volti alla ricerca di convergenze sin troppo puntuali tra evidenze archeologiche e testi sulle forme del culto, espone la topografia del santuario seguendo il percorso dei visitatori antichi (per edifici, reperti e rituali dal santuario in sintesi anche E. Cruccas, Gli dei senza nome. Sincretismi, ritualità e iconografia dei Cabiri e dei Grandi Dei tra Grecia e Asia minore, Rahden/Westf. 2014, pp. 102-130). Ecco in successione le principali costruzioni, a partire dal propileo dedicato da Tolemeo II, una delle creazioni più innovatrici dell’architettura greca e bilingue per il ricorso a due ordini, ionico verso la città e corinzio verso il santuario, con il più «significativo motivo vegetale della storia» forse chiamato a fungere da simbolo di forza rigenerativa per i mystai sul punto di partire (sul capitello corinzio e le sue valenze si veda ora M. Wilson Jones, Origins of Classical Architecture. Temples, Orders and Gifts to the Gods, New Haven-London 2014, pp. 139-156). Dopo l’area circolare pavimentata, luogo di raccolta iniziale e finale dei fedeli all’interno del temenos, l’edificio dedicato da Filippo III e Alessandro IV, pur nel dominante stile peloponnesiaco dei dettagli architettonici, presenta una facciata in pentelico con un disegno di base improntato alla tradizione attica, per la studiosa spia della rivendicazione dell’eredità dell’Atene periclea da parte della dinastia argeade. Nel cuore del santuario la «Hall of the Choral Dancers», del 340-330 a.C., aveva funzioni cultuali ancora indeterminabili (è contestabile l’idea di un Telesterion avanzata da Kevin Clinton nel 2003), e lì potevano trovarsi l’Afrodite e il Pothos di Scopa «venerati a Samotracia con mistiche cerimonie» secondo un passo controverso (ma in fondo non troppo problematico) di Plinio il Vecchio (Nat. XXXVI,4,25), al cui riguardo si veda C. Marconi, Skopas in Samothrace, in D. Katsonopoulos, A. Stewart (a cura di), Skopas of Paros and his world. Proceedings of the third International conference on the Archaeology of Paros and the Cyclades, Athens 2013, pp. 383-391, con qualche timido dubbio sull’idea dell’appartenenza del gruppo proprio a quell’edificio.

 

          Dalla Wescoat sono passati in rassegna ulteriori edifici di varia cronologia, come lo «Hieron», l’«Anaktoron» e la «Rotonda» di Arsinoe, che tra l’altro da tempo condiziona la spiegazione di un rilievo funerario al Louvre, eseguito nella prima metà del II sec. a.C. per un Attalo, notabile di Cizico; nel libro, Ludovic Laugier prova a sciogliere le difficoltà esegetiche lì causate dal grande oggetto cilindrico tenuto da un’inserviente, una cista in forma di tholos che, contrariamente a quanto congetturato da Otto Bennforf, secondo Michel Sève (2007) costituirebbe al massimo un parallelo tipologico per l’architettura della «Rotonda», senza però legami con Samotracia. Eppure, senza ovviamente tornare a identificare questo Attalo con l’architetto dell’edificio, non conviene rinunciare del tutto all’idea di una qualche relazione con il santuario – meglio la cautela di fronte a possibili ma sfuggenti storie individuali. Dopotutto, è rilevante che tre delle quattro stele note con liste di iniziati di Samotracia del II-I sec. a.C. (?) e con rappresentazione a rilievo di un edificio rotondo presentino anche personaggi di Cizico (si vedano le schede di N.M. Dimitrova, Theoroi and initiates in Samothrace, Athens 2008, pp. 119-121, n. 47, pp. 135-144, nn. 56-58; per la studiosa la «Rotonda» poteva essere la sede delle attività di delegazioni sacre inviate a Samotracia). Per finire, il settore ovest del santuario aveva edifici deputati ai banchetti, assieme alla stoa, innalzata alla metà circa del III sec. a.C., forse all’incirca negli stessi anni del teatro. Al di sopra si ergeva la Nike, non l’unico monumento navale all’interno dell’area, poiché anche un neorion ospitava una nave (militare?) alloggiata su uno zoccolo in marmo e correlabile per la Wescoat di nuovo ad Arsinoe. Nel punto più eminente del santuario la statua era inclusa in una cornice architettonica: una volta escluso un ninfeo, le opzioni del peribolo a cielo aperto (favorita da J.C. Bernhardt, Das Nikemonument von Samothrake und der Kampf der Bilder, Stuttgart 2014, pp. 97-103) o del sacello chiuso sono ancora discusse (fig. 162), un’alternativa di non poco conto per la ricostruzione della visibilità all’interno del paesaggio sacro della figura, con la parte sinistra in maggiore risalto compositivo.

 

          La seconda parte è ricca di dati oggettivi, a partire dalla scoperta e dalle successive vicende della scultura, con l’arrivo al Louvre nel 1864 e con i plurimi restauri (1864-1866, sotto Adrien de Longpérier; 1880-1883, sotto Félix Ravaisson-Mollien, nelle parti essenziali ispirato al modellino di Otto Bennford e Kaspar von Zumbusch; 1932-1934, su iniziativa di Étienne Michon). Segue una sezione tecnica (Sandrine Pagès-Camagna, Ludovic Laugier e altri), con nuove importanti informazioni sulla struttura delle ali, sulla parte retrostante del mantello scolpita a parte e in particolare sulla policromia, al cui riscontro più in generale la tradizione di studi francese sin dall’Ottocento è molto sensibile: le conoscenze in continua crescita consentiranno tra non molti anni di andare oltre i singoli esami e di scrivere una storia complessiva dell’uso e delle funzioni del colore nella scultura e nell’architettura greca. L’esame delle superfici della Nike tramite la luminescenza infrarossa da parte di Giovanni Verri (Courtauld Institute of Art) ha rilevato tracce di blu egiziano invisibili a occhio nudo: i grani brillanti formano una fascia larga 3 cm, a 3 cm dal bordo inferiore del mantello, e si ritrovano sparsi sul drappeggio svolazzante sul retro, sull’ala sinistra e sui frammenti non reintegrati della destra nonché su due frammenti di modanatura del ponte di combattimento. Non è stato sinora possibile riconoscere una preparazione originale di base per i pigmenti e determinare il sistema di stesura e le tonalità di quel blu; è perciò condivisibile la cautela che ha dissuaso da un qualsiasi disegno con una presentazione policroma della figura. D’altronde, ormai tramontata l’illusione di una Grecia candida, sui limiti delle ricostruzioni è intervenuto in garbati toni polemici R. Wünsche, Kampf um Troja. 200 Jahre Ägineten in München, München 2010, pp. 247-261, per il quale, malgrado gli sforzi, in fondo continuiamo a sapere poco anche dell’antica colorazione delle sculture a prima vista più colorate in assoluto, quelle nei frontoni di Egina. È in ogni caso difficile dire se la dipintura almeno parziale della nave si prefiggesse di attenuare in parte il contrasto tra il marmo grigio di Lartos per la base e di Paros per la figura. A proposito di marmi: se già nel 2008 era emerso come l’ala sia nel pario di Chorokadi-Lakkoi, grazie alle analisi mineralogiche affidate ad Annie e Philippe Blanc (Paris VI - Pierre et Marie Curie) la statua risulta per intero in marmo pario, da diverse cave: il braccio destro e il busto sono nel pregiato Lychnites, a differenza del blocco inferiore, del drappeggio posteriore del mantello o del frammento della parte inferiore dell’ala destra; l’ala sinistra, due frammenti della parte superiore della destra e il settore intermedio tra corpo e panno posteriore del mantello provengono invece da Chorokadi-Lakkoi.

 

          Il nuovo restauro, su cui riferiscono tra gli altri Daniel Ibled, Anne Liégey, Ludovic Laugier, ha mirato alla ripulitura del marmo, all’evidenziazione delle lesioni dei frammenti nonché alla patinatura dell’ala destra e della parte sinistra del busto; sono stati riscontrati nuovi attacchi di pieghe e di piume dell’ala sinistra in origine riportate, forse ardite aggiunte per il completamento dei volumi, in quanto la loro qualità di esecuzione è molto simile al resto della statua; inoltre, è stato deciso di smontare completamente il panno del mantello retrostante per rinforzare i collanti, evitando la posa di una nuova armatura metallica sulla sua parte concava; infine, i sondaggi sulla parte in gesso del busto, oltre a riportare in luce un ricciolo antico, hanno permesso il recupero della forma del collo. Il rimontaggio dei ventitre blocchi del battello ha previsto l’integrazione di alcuni frammenti, tra cui tre già identificati da Marianne Hamiaux e Alain Pasquier nei magazzini del Louvre nel 1996, e dei calchi di almeno altri undici frammenti ristudiati a Samotracia nel 2013 dalla Wescoat, da Ludovic Laugier e da Nicolas Bresch. Altra acquisizione importante riguarda la disposizione della statua sul battello: sul blocco C 4 è riemersa la parte anteriore della cavità di incastro del plinto, e la sua lunghezza complessiva implica che Nike fu arretrata di una trentina di centimetri rispetto alla sistemazione inizialmente prevista, correzione dell’ultimo minuto in probabile connessione con il compito assolto dalla figura anche per l’equilibrio dei blocchi della base.

 

          La terza e ultima parte è merito di Marianne Hamiaux, che aiuta l’occhio del lettore a comprendere meglio il monumento tramite la descrizione di Nike e della nave da guerra sottostante (per la forma dei reali rostri di rado conservati, si veda anche la discussione dei rinvenimenti nel mare delle Egadi da parte di S. Tusa, J. Royal, The landscape of the naval battle at the Egadi Islands 241 BC, in JRA, 25, 1, 2012, pp. 12-25, 39-45: la guaina superiore di due esemplari reca a rilievo una Vittoria alata con corona nella mano destra issata). Con le vesti agitate dal vento, il mantello in procinto di aprirsi e il chitone tenuto sulla spalla destra da una sottile bretella, attendibile anche a sinistra, Nike è in un movimento transitorio ed energico. Se Heiner Knell nel 1995 aveva escluso un atterraggio, il piede destro, di cui resta il tallone nudo, si sollevava appena, mentre il sinistro era ancora in aria: Nike sta terminando il volo. È destinato (forse) a fare dimenticare la ricostruzione di Benndorf e von Zumbusch il sobrio disegno realizzato da Valérie Fouet (fig. 147), sul quale solo il braccio sinistro e la testa sono inventati, mentre la mano destra è impegnata in un gesto di ‘saluto’ (ma Bernhardt, op. cit., pp. 90-92, discorda, preferendo integrare una corona).

 

          Sin qui i dati sono indiscutibili, ma con il contesto storico-artistico ritornano le incertezze. Il collegamento del drappeggio con la tradizione attica può essere meno diretto di quanto affermato dalla Hamiaux, ma è indubbio che le possibilità espressive ‘barocche’ nelle vesti conoscano significativi preludi nelle pieghe esagerate ed energiche per esempio della figura N sul frontone occidentale del Partenone, nella Nike di Peonio e nei virtuosismi degli acroteri del tempio di Asclepio a Epidauro (sulla «tradizione barocca» e sul suo valore di presunta rivendicazione almeno implicita dell’autorità culturale ateniese si veda il contributo molto interessante ma problematico di P. Schultz, Style, Continuity and the Hellenistic Baroque, in A. Erskine, L. Llewellyn-Jones [a cura di], Creating an Hellenistic World, Swansea 2011, pp. 313-344).

 

          Vista la natura di un libro indirizzato a un pubblico di non soli specialisti, è lodevole la scelta della Hamiaux di non avventurarsi in «pericolose» operazioni di attribuzione e datazione del monumento (a suo dire meglio inscrivibile tra il 220 e il 190 a.C., arco temporale condivisibile: si veda infra). Ella pare però perplessa su una committenza rodia, a lungo la più prospettata – Karl Lehmann a parte – anche dopo il raffreddamento dell’entusiasmo dovuto al fatto che un frammento di una piccola base con un resto del nome di uno scultore con l’etnico «rodio», attribuito al monumento da Hermann Thiersch, non può invece appartenergli. Viceversa, l’opzione rodia, rispettata in studi tedeschi dell’ultimo decennio (A. Grüner, Die Nike von Samothrake, in L. Giuliani [a cura di], Meisterwerke der antiken Kunst, München 2005, pp. 51-71; U. Mandel, in P.C. Bol [a cura di], Die Geschichte der antiken Bildhauerkunst, III. Hellenistische Plastik, Mainz a. R. 2007, pp. 137-141), è stata declassata come la meno plausibile di tutte da Brunilde Sismondo Ridgway (2000). Di recente si sono così moltiplicati i tentativi di revisione della cronologia, ora sulla base di considerazioni storiche e iconografiche (e non stilistiche, per una supposta inutilità dello stile quale criterio datante vista la non linearità dei suoi svolgimenti nel periodo ellenistico, una constatazione troppo comoda e semplificante) e storiche, ora tramite argomenti invece anche stilistici. Non mancano così nuove proposte di collocazione del monumento all’inizio del III sec. a.C., basate sull’affinità (tipologica) con le rappresentazioni sui conî monetali di Demetrio Poliorcete emessi all’indomani della sconfitta di Ipso quali strumenti di promozione e riabilitazione della propria immagine regale: si vedano C. Miedico, Comunicare il potere presso la corte di Demetrio Poliorcete, in S. Bussi, D. Foraboschi (a cura di), Roma e l’eredità ellenistica, Pisa-Roma 2010, p. 43 pp. 37-45, e soprattutto la ricostruzione più articolata di Bernhardt, op. cit., con parecchi ragionamenti sì suggestivi ma eccessivamente costruiti a tavolino, che fanno della Nike una dedica provocatoria all’inizio di una ‘guerra di monumenti’ tanto lunga da coinvolgere poi i Tolemei e gli stessi Rodi. Viceversa, secondo l’autorevole parere di Olga Palagia (2010), anche in considerazione del controllo politico del santuario da parte di Filippo V dal 200 circa al 179 a.C., la Nike appartiene a una fase più tarda nel II sec. a.C., in sintonia con l’abbassamento cronologico dell’abituale magnete della scultura medio-ellenistica, l’altare cosiddetto di Zeus a Pergamo, sopravvalutato se preso per esclusivo esponente della corrente ‘barocca’. Si tratta semmai del monumento dove quel linguaggio formale è per noi più vistoso, ma ci mancano o non siamo in grado di afferrarne gli antecedenti; oltretutto, si fa fatica ad avvertire una «grande affinità» della statua con la posa del cosiddetto Principe delle Terme. A ogni modo, la Palagia ha stabilito un rapporto con la vittoria di C. Ottavio su Perseo, che, sconfitto a Pidna nel 168 a.C., cercò rifugio estremo nel santuario di Samotracia. Tuttavia, non sembra logica la sequenza delle sue deduzioni (stile ‘barocco’, artista greco, magari rodio, di ‘scuola’ pergamena e dunque committenza romana), perché dalla forma artistica è difficile ricavare l’occasione storica. In proposito è già scettica B.D. Wescoat, Insula Sacra: Samothrace between Troy and Rome, in M. Galli (a cura di), Roman Power and Greek Sanctuaires. Forms of Interaction and Communication, Athens 2013, p. 75, osservando la differenza di comportamento dei Romani nei santuari greci nel II sec. a.C., un ragionamento che non mette al riparo da eccezioni a quel che sappiamo; è però degno di nota come più tardi L. Mummio nell’Asklepieion di Epidauro avesse usurpato un monumento navale del genere, forse degli Achei e risalente alla seconda metà del III sec. a.C., tramite la sostituzione di una propria effigie a una Nike forse in origine presente (sul caso da ultimo si veda J. Griesbach, Jede(r) ist ersetzbar? Zur Wiederverwendung von Statuenbasen im Asklepios-Heiligtum von Epidauros, in C. Leypold, M. Mohr, C. Russenberger [a cura di], Weiter- und Wiederverwendung von Weihestatuen in griechischen Heiligtümern, Rahden 2014, pp. 59 sg.).

 

          L’insieme di indizi e il buon senso raccomandano quindi di non abbandonare la pista rodia. Sull’impiego di un tipo di marmo possono incidere più fattori, tra cui anche l’origine della maestranza e non necessariamente della committenza; tuttavia, così come per l’ipotesi della Wescoat sulla facciata dell’edificio di Filippo III e Alessandro IV, la scelta di un marmo non particolarmente idoneo per lavori scultorei fuori da Rodi può anche avere concorso – assieme alla perduta iscrizione – a proclamare la provenienza dei dedicanti (difficile invece condividere la posizione di Bernhard, op. cit., pp. 73-77, sull’uso simbolico di quel marmo quale manifesto di una futura talassocrazia di Demetrio a danno anche di Rodi).

 

          Rodi possedeva un’‘aristocrazia navale’ orgogliosa dei propri successi, che contribuì in modo decisivo alle vittoria nelle battaglie di Side e Mionneso nell’estate del 190 a.C. contro Antioco III, exploit esaltato anche da Livio e Appiano, dipendenti da Polibio, e da una fonte rodia (H.-U. Wiemer, Rhodische Traditionen in der hellenistischen Historiographie, Franfurt a. M. 2001, pp. 107-128). Rodi, ‘scuola’ o meno (ma dovremmo prima metterci d’accordo sul senso da conferire alla nozione di ‘scuola’), offriva condizioni idonee per l’installazione di famiglie di scultori, tutt’altro che itineranti, e di conseguenza per lo sviluppo di notevoli competenze tecniche e artigianali (di interesse S. Maillot, Une association de sculpteurs à Rhodes au IIe siècle av. J.-C.: un cercle d’intégration à la société rhodienne, in L. Bodiou, V. Mehl, J. Oulhen, F. Prost, H. Wilgaux [a cura di], Chemin faisant. Mythes, cultes et société en Grèce ancienne. Mélanges en l’honneur de Pierre Brulé, Rennes 2009, pp. 39-57).

 

          A Rodi era fiorente la tradizione tipologica di monumenti in forma di nave (non è ‘solo’ questione di botteghe specializzate nella loro realizzazione, che si spiegano con la frequenza di una siffatta prassi dedicatoria), come confermato anche da una scoperta nell’area delle necropoli di Nisyros, un monumento funerario sempre in marmo di Lartos forse di un illustre personaggio distintosi come ufficiale della flotta rodia dopo l’incorporazione dell’isola nello Stato rodio nel 201 a.C. (M. Filemonos-Tsopotou, Πρώρα πολεμικού από τη Νίσυρο, in Α. Giannikoure [a cura di], ὌλβιοϚ Ἄνερ. ΜΕΛΕΤΕΣ ΣΤΗ ΜΝΗΜΗ ΤΟΥ ΓΡΗΓΟΡΗ ΚΩΝΣΤΑΝΤΙΝΟΠΟΥΛΟΥ, Athena 2013, pp. 265-285). Rodi, patria delle associazioni, ne aveva varie anche di Samothraikiastai, a loro volta legate all’ambiente militare della marina (per esempio, V. Gabrielsen, The Navies of Classical Athens and Hellenistic Rhodes: An Epigraphic Comparison, in REtMilAnc 6, 2013, pp. 69-75). L’«universo di relazioni triangolate tra Roma, Rodi e il santuario di Samotracia» è stato già sottolineato da Fausto Zevi (1997); così, la scelta dell’erezione del monumento nell’«isola troiana» poté essere favorita pure dai Romani, per i quali l’assimilazione dei Penati ai Grandi Dèi di Samotracia sembra essersi affermata nei primi decenni del II sec. a.C. e diventa sicura alla metà dello stesso secolo (Cassio Emina).

 

          Sulla datazione e sulla committenza si continuerà comunque a discutere. Sono però sottigliezze al cospetto del successo delle nuove indagini. Magnifica è la scultura («semble modelé au pouce comme une terre glaise», disse un artista a Champoiseau) e non da meno il restauro: un ringraziamento agli specialisti coinvolti nell’impresa e agli autori del volume per la grande qualità e la riuscita conciliazione degli studi tecnici e storico-artistici.

 

 

 

Sommario

 

J.-L. Martinez, La restauration de la Victoire de Samothrace et de l’escalier Daru : les contours du projet, p. 17

 

L’île de Samothrace : histoire, culte et sanctuaire

 

D. Matsas, L’île de Samothrace des origines à nos jours, p. 28

B.D. Wescoat, Le sanctuaire et le culte des Grands Dieux de Samothrace, p. 42

L. Laugier, La rotonde d’Arsinoé et ses vestiges conservés au Louvre, p. 60

L. Laugier, Les témoignages du culte des Grands Dieux dans les collections du Louvre, p. 62

L.. Laugier, Le relief d’Agamemnon : une scène d’initiation à Samothrace ?, p. 68

 

La Victoire de Samothrace, de sa découverte à nos jours

 

M. Hamiaux, La découverte de la Victoire et les anciennes restaurations, p. 72

S. Pagès-Camagna, L. Laugier (con i contributi di Ph. e A. Blanc, E. Lambert, A. Maigret, J. Marsac e G. Verri, La Victoire sous l’œil des scientifiques, p. 90

D. Ibled, A. Liègey, L. Laugier (con i contributi di N. Bruhière, C. Devos, P. Klein, B. Lafay, V. Picur, V. Pillard), La nouvelle restauration du monument de la Victoire, p. 104

 

L’étude du monument de la Victoire

 

M. Hamiaux, La description et la construction du monument, p. 142

M. Hamiaux, Le contexte historique et artistique, p. 164

B.D. Wescoat, Quel cadre architectural pour la Victoire?, p. 174

 

Annexes

 

Les images du chantier, p. 182

La numérisation en 3D du monument de la Victoire de Samothrace, p. 186

Glossaire, p. 189

Bibliographie, p. 191