Elsner, Jaś - Meyer, Michel (ed.): Art and Rhetoric in Roman Culture. i-iv-504 p., ISBN:9780511732317, £84.99
(Cambridge University Press, Cambridge [UK] 2014)
 
Recensione di Massimiliano Papini, La Sapienza Università di Roma
 
Numero di parole: 4807 parole
Pubblicato on line il 2016-04-26
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=2590
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          L’insegnamento della retorica, legato alle funzioni della direzione politica, nell’Antichità era un fenomeno culturale con schemi concettuali trasversali in grado di abbracciare tutti gli aspetti dell’educazione e, dunque, con rapporti con altri saperi quali poesia, critica letteraria, grammatica e storiografia.

 

         A parte il colto procedimento dell’ekphrasis e il suo ruolo nella paideia, molto indagato negli ultimi anni, parecchi brani della letteratura greca e latina instaurano confronti tra i diversi media, e oggi è cresciuta la sensibilità per un loro studio all’interno delle specifiche parti nelle opere dei singoli scrittori.

 

         Il quadro di Elena di Zeusi è usato da Cicerone (Inv. II, 1-3) per esemplificare l’eclettismo degli autori cui si può attingere nello scrivere un manuale di retorica – altra cosa è servirsene anche per una ricostruzione di massima dei committenti e per la comprensione storico-artistica e religiosa dell’opera perduta.

 

         Altri passaggi sono stati utilizzati dagli studiosi per il recupero (parziale) dei giudizi critici della critica d’arte ellenistica (Senocrate e più tarde teorie basate su concetti astratti), come quando Quintiliano (XII, 10, 1) delinea un capitolo sintetico di storia dell’arte greca secondo un disegno parabolico evolutivo affine alla progressione nella retorica, da esordi grezzi alla perfezione, il tutto però a partire dalla premessa che si può ottenere l’eccellenza in più generi, perché a tutti non piace una sola forma, in parte per contingenze di tempi e luoghi, e in parte per il giudizio di ciascuno. Frequenti, sin da Aristotele, sono i paralleli con la pittura: i toni di cui si serve l’oratore per variare il discorso possono essere avvicinati ai colori del pittore (Cicerone, de Orat. III, 217).

 

         Ancora, la varietà delle arti figurative può rispondere a quella del linguaggio poetico: c’è chi apprezza Ennio, chi Pacuvio e chi Accio, mentre nella pittura ad alcuni piacciono i dipinti rozzi, trascurati, foschi, ad altri quelli chiari e luminosi (Cicerone, Orat. 11, 36; analogo pensiero è diversamente declinato da Orazio nel più famoso ut pictura poesis).

 

         Sempre Quintiliano si avvale dell’analogia della prospettiva pittorica per difendere il potere persuasivo dell’oratoria e le sue strategie illusionistiche (II, 17, 20-21). Anche nella discussione intorno alla qualità essenziale del decorum, gli autori insistono sulla necessità di tenere presente il limite, nell’oratoria così come nelle arti: poiché il decor affianca sempre l’ars, sono necessarie adeguate variazioni per armonizzare le opere con le necessità estrinseche, per cui è spesso utile cambiare alcune cose dall’ordine fissato e costituito, ed è parimenti opportuno (decet) variare costumi, volti e ritmo sia nelle statue sia nelle pitture per Quintiliano (IX, 4, 7; II, 13, 8); alla convenienza devono badare il poeta, il pittore, l’attore e l’oratore (Cicerone, Orat. 74; sulle intersezioni molteplici fra teatro e oratoria vd. F.R. Nocchi, Tecniche teatrali e formazione dell’oratore in Quintiliano, Berlin 2013).

 

         Se la retorica si avvale di forme visuali per rendere più toccanti e persuasivi fatti o idee, certe proprietà, come l’amplitudo (grandezza), possono nobilitare la scultura, la pittura, le formae degli uomini, di molti animali e anche degli alberi e, infine, i discorsi (Plinio il Giovane I, 20, 5). Ricordiamo, infine, il proliferare all’interno delle scuole di retorica di esercitazioni che prevedevano di assumere la difesa o l’accusa di personaggi, spesso mitologici o storici; perciò a volte anche artisti come Fidia, Parrasio e Prassitele possono divenire protagonisti di singolari vicende giuridiche. In breve, «the rhetoricisation of art criticism makes perfect sense as an intrinsic component of an elite culture viewing» (J. Tanner, The Invention of Art History in Ancient Greece. Religion, society and artistic rationalisation, Cambridge 2006, p. 254).

 

         Di tali questioni e altro si occupa in modo più approfondito l’importante volume curato da Jaś Elsner e Michael Meyer, contenente lunghi articoli tesi a stabilire il significato della pratica retorica per le visioni figurative romane e a spiegare come, viceversa, l’arte abbia concorso alla configurazione di concezioni retoriche; un libro che si distingue anche per il lodevole proposito di contribuire a un incremento degli scambi tra studiosi di archeologia classica e di letteratura antica ugualmente interessati a entrambi i versanti, monumentale e testuale.

 

         Uno degli editori (Elsner) ha ritenuto inoltre opportuno compiere un ulteriore passo e avvalersi della tripartizione della retorica da parte di Aristotele (con la suddivisione in ethos, pathos e logos) per l’analisi di quelle che chiamiamo opere d’arte. Tale strumento secondo Elsner è in grado di fornire un modello sociale e antropologico per afferrare il fitto intreccio di interrelazioni tra produttori e destinatari: ethos rappresenta il carattere, le virtù sociali e i valori di tutti i responsabili della creazione artistica, dai committenti agli artigiani; pathos indica non solo la ricettività dei destinatari, ma anche le loro mentalità, emozioni e sentimenti; logos, infine, è la forma e lo stile figurativo selezionato.

 

         Questo «sistema retorico», esemplificato sulla base di due archi trionfali (Tito e Costantino), è giudicato flessibilmente applicabile a ogni contesto e può allora rimpiazzare per Elsner quel «sistema semantico» di Tonio Hölscher, rimasto abbastanza stabile nei secoli e valido in tutto l’Impero, utilizzato spontaneamente nella pratica delle officine e recepito altrettanto naturalmente dalle consuetudini visive degli osservatori. Come noto, la locuzione elaborata da Hölscher, in seguito estremamente citata – e talora banalizzata – insiste, in modo molto chiaro, sul linguaggio figurativo tipologico quale mezzo di comunicazione e sul pluralismo nella scelta dei modelli (greci) destoricizzati, ossia utilizzati per nuovi contesti romani in modo non per forza condizionato dalle loro origini; un «sistema» poi potenziato grazie al parallelo con i genera letterari da E. La Rocca, La fragile misura del classico. L’arte augustea e la formazione di una nuova classicità, in M. Barbanera (a cura di), Storie dell’arte antica, Roma 2004, pp. 81-87.

 

         La proposta di Elsner, mirante a includere ancora di più le manifestazioni figurative all’interno della cultura romana, è ovviamente legittima, ma può anche portare a teorizzazioni e complicazioni che circondano – e soffocano – monumenti e manufatti antichi con troppe parole moderne (per quanto ispirate ad antiche formulazioni), un rischio che, per diverse ragioni, pare correre qualche contributo all’interno del volume: almeno agli occhi di chi scrive, è questo il caso delle analisi di Katharina Lorenz sulla retorica della dislocazione dei soggetti mitologici dipinti nella Casa del Menandro a Pompei e di Caroline Vout su un’ara funeraria della fine del I sec. d.C. da Roma, conservata presso la Lady Lever Gallery di Liverpool. Qualche perplessità è destata inoltre dall’utilità del «nuovo» modello per lo studio dei manufatti. Del resto, l’unico articolo  o quasi (un accenno anche a p. 230 nel capitolo di Verity Platt) che più lo applica alla lettera è la seconda parte della trattazione di Jennifer Trimble sulla «retorica dell’apparenza nella statuaria iconica imperiale» (pp. 129-149): alla fine della sua lettura, viene però da chiedersi quali ne siano i benefici pratici, giacché le esigenze di considerazione onnicomprensiva di tanti aspetti (natura e autorità degli onorati e dei dedicanti, terminologia delle dediche, spazi religiosi e civici, ripetitività delle convenzioni visuali, modalità di ricezione), contrariamente alla convinzione dell’autrice, sono già ben avvertite dalla critica che più si occupa di ritrattistica, anche senza il bisogno di ricorrere al «sistema retorico» aristotelico; lo stesso può valere per il suo adattamento all’imagerie cristiana da parte dello stesso Elsner (p. 348).

 

         Il volume, diviso in quattro sezioni (spazi pubblici, immagini appartenenti alla sfera domestica, arte funeraria e, su un piano più generale, legami tra cultura visuale e teoria retorica), inizia con due articoli con la parola «sublime» all’interno del titolo.

 

         Nel primo, Edmund Thomas evidenzia analogie e legami tra retorica e architettura a livello terminologico e in termini di struttura e composizione, con attenzione a Dionigi di Alicarnasso e soprattutto a Vitruvio, alla base del cui trattato si trovano tre termini, quali ordinatio, dispositio e distributio, che fanno parte anche della preparazione dell’oratore; parimenti, altri tre con una risonanza estetica per l’edificio compiuto, quali eurythmia, symmetria e decor, trovano impiego nella teoria retorica (per le parziali convergenze tra le lingue settoriali della retorica e dell’architettura, malgrado il giusto invito alla cautela per evitare «una banale filologia delle concordanze», vd. anche C.M. Calcante, Architettura e iconismo: retorica dei genera dicendi e teoria degli ordini architettonici in Vitruvio, Cahiers des études anciennes 48, 2011, pp. 119-139, che si sofferma sulle elaborazioni dei retori in materia di decor, mimesis e varietà stilistiche quali retroterra della teoria vitruviana degli ordini architettonici; sul legame tra architettura e retorica nel mondo greco sin dal V sec. a.C. vd. G. Marginesu, Architetti, scrittura e retorica nell’Atene classica, ASAtene 91, S. III, 13, 2013, pp.  61-76).

 

         Thomas, nel rimarcare gli usi di immagini architettoniche per la definizione di questioni retoriche e, all’opposto, le descrizioni di reali architetture mediante il ricorso a un linguaggio retorico, si focalizza a questo punto sul trattato Del Sublime dello Pseudo-Longino (di verosimile cronologia tardoflavia): infatti, alcune caratteristiche del sublime possono avere anche un significato architettonico mediante l’accostamento (per lo più poco puntuale, in verità) con alcuni passaggi di Vitruvio, Quintiliano, Apuleio, Plinio il Giovane, Dione di Prusa e Elio Aristide. Caratteristiche come: altezza ed eccezionalità, estasi, dismissione dello stile turgido, teoria del discorso quale frutto di una lunga esperienza, i cinque luoghi o fonti del sublime, dimensioni cosmiche, amplificazione, grandezza, imitazione e competizione con i grandi modelli letterari del passato, ricerca del patetico e del commosso da parte della poesia e dell’oratoria, malgrado i loro diversi fini (la prima provoca sorpresa, la seconda mira all’evidenza rappresentativa, enargeia), raggiungimento del sublime mediante la rinuncia alle congiunzioni nonché uso degli iperbati e successione sconvolta nell’ordine di parole e pensieri (l’arte è perfetta quando sembra essere natura). Thomas, alla luce di questi principi, prova allora un’interpretazione (moderna) in termini retorici (antichi) di costruzioni del periodo flavio e traianeo, come la domus Augustana di Domiziano (l’architettura di Rabirio poté avvalersi di principi sublimi attraverso la profusione di ornamenti nell’«Aula Regia» e nella cenatio Iovis), il foro e i «Mercati» di Traiano (il sublime vi è raggiunto non più lasciando libero sfogo all’elaborazione architettonica, ma combinando bellezza e utilità) o di edifici microasiatici quali il ninfeo dedicato da M. Ulpio Traiano a Mileto, il ninfeo di Traiano e la biblioteca di Celso a Efeso: «la pubblicazione del trattato poté aiutare a trasformare il potenziale della ‘rivoluzione architettonica romana’» (p. 83).

 

         La citazione di un brano dello Pseudo-Longino con la sua menzione (polemica) di un confronto tra il «colosso difettoso» (lo Zeus di Fidia, come sulla scia di Wilamowitz e di Reinhold Merkelbach o secondo un’alternativa meno convincente ma ancora in circolazione, il colosso di Rodi?) e il Doriforo di Policleto (36, 3: «nei prodotti della tecnica viene ammirata l’accuratezza dell’esecuzione [akribeia], nelle opere di natura la grandezza [megethos]», con la raccomandazione che la techne sia di sussidio alla natura in ogni circostanza perché la loro reciproca alleanza può porre le condizioni per l’opera perfetta), accomuna l’articolo di Thomas al seguente di Francesco De Angelis.

 

         Il suo bel contributo torna su una controversia di lunga data riguardante la colonna Traiana e la (il)leggibilità dei suoi rilievi: il silenzio degli scrittori antichi al loro riguardo è tutt’altro che stupefacente se non per le attese moderne e, come scontato, non è da considerare frutto di una loro visione negativa di fronte a un eventuale esperimento fallito, perché al proposito sono ben note, per esempio, le omissioni sulla «scultura architettonica» da parte dello sguardo selettivo di Pausania sull’acropoli di Atene, a Delfi o a Epidauro. A parte le prime sei spire ben decifrabili dal livello del suolo – e a meno di non ipotizzare visioni dalla terrazza della basilica Ulpia e da quelle supposte della biblioteca –, nessun osservatore antico poté mai seguire quei rilievi nella loro totalità, il che vale comunque per tante altre opere di varia cronologia, benché ormai sia divenuto un luogo comune degli studi il confronto con il fregio della cella nel Partenone, altrettanto poco visibile, fuori e dentro il colonnato, per l’elevata altezza e la penombra della stretta peristasi. Qualche critico nella colonna ha intravisto nel passato la libertà di un artista che, sciolto da obblighi verso il committente, lavorò solo per se stesso, pago delle proprie forme e conscio del fatto che queste mai sarebbero state vedute in modo adeguato (Ranuccio Bianchi Bandinelli); altri un’espressione del fasto e della gloria del principe al cospetto del cielo e del tempo senza finalità informative (Paul Veyne); viceversa, si è anche provato a mostrare la visibilità e la possibilità di lettura quasi totale del fregio secondo assi preferenziali nord-ovest/sud-est (Martin Galinier). Ma questo è un «problema» solo per noi, non per un fruitore antico, attento o distratto che fosse. Ai suoi occhi si trattava di un monumento spettacolare, che, con un enorme sforzo architettonico e scultoreo, intendeva informare in modo effettivo o potenziale, come preteso sia dalle norme del «genere» sia dalle aspettative degli osservatori antichi, abituati dall’età repubblicana alle tabulae triumphales e al corrente degli eventi anche per altre vie (orazioni, lettere inviate dai generali, commentari, pitture prese sul campo); un monumento che, leggibile per segmenti grazie anche alla ricorrenza e alla ridondanza delle scene, insieme al foro mirava a impressionare mediante la rappresentazione meticolosa di grandi imprese pietrificate e rese leggendarie, senza imporre al frequentatore del complesso di girarci ventitre volte intorno. Perciò, a giudizio di De Angelis, la colonna Traiana diventa l’esempio di una riuscita fusione tra megethos (grandezza, evidente sin dall’iscrizione, che proclama l’altitudo del mons e del luogo sgombrato per la sua edificazione, sia nelle dimensioni del monumento che rispecchiano la grandiosità del committente) e akribeia (accuratezza meticolosa nei rilievi); due termini frequentemente utilizzati assieme e in relazioni varie, complementari e/o contrastanti, da scrittori antichi, quali Luciano (Hist. Conscr. 27) in rapporto allo Zeus di Fidia, un’opera topica in tale senso, come emerge anche da un brano di Plinio il Vecchio (XXXVI, 18-19, parimenti citato da De Angelis) o da un altro di Quintiliano; secondo un suo ragionamento intorno al fatto che nessuno eccelle nelle grandi cose se manca nelle piccole (II, 3, 6), sarebbe un controsenso dire che Fidia dette una forma perfetta a Giove, se poi tutti gli ornamenti dell’opera fossero stati elaborati da un altro – oppure dire che un oratore non sa parlare o che un bravo medico è incapace di guarire le lievi indisposizioni.

 

         Nella sezione sulla ritrattistica, il contributo di Eve D’Ambra sulla bellezza nel ritratto femminile romano pare stonare nel contesto generale del volume (ricompare il termine «Zeitgesicht» a p. 116, che converrebbe invece abbandonare anche dopo le recenti messe a punto di Klaus Fittschen).

 

         Di maggiore interesse si profila il confronto tentato da Jennifer Trimble tra le descrizioni fisiche degli imperatori nelle relative vite di Svetonio e l’aspetto dei ritratti in bronzo e in marmo, con la conseguente registrazione di una loro non equivalenza: un’operazione da approfondire, estendibile anche alla Historia Augusta e ad altri testi tardoantichi, sulla scia degli ottimi spunti già di V. Neri, La bellezza del corpo nella società tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo, Bologna 2007, pp. 124-157. Come spiegare quelle discrepanze? Come rilevato appunto da Neri, anzitutto Svetonio sembra non risentire dell’influenza di fonti iconografiche, ma sceglie il punto di vista di coloro che potevano contare su una conoscenza intima dei personaggi, quali gli addetti al servizio imperiale e il personale medico della corte. A divergere sono poi ovviamente gli intenti di un testo e delle immagini, quantunque entrambi i «generi» alla fine condividano il fatto di non puntare a descrizioni oggettive e fotografiche.

 

         Per Svetonio la bellezza, pur mai «idealizzata», appartiene ai migliori imperatori, mentre la laidezza morale implica anche quella fisica. D’altra parte, nelle opere ritrattistiche non era affatto semplice ottenere una similitudo ex vero, tanto più quando si dovevano eseguire imagines di personaggi del passato basati su una già disponibile, compiendo di conseguenza un’imitazione di un’imitazione, sostiene Plinio il Giovane (IV, 28); inoltre, è istruttiva un’altra sua osservazione su committenti abituati a indicare al pittore e allo scultore quale espressione dare e come ritoccare (III, 10, 6, a proposito dei ritratti dei figli morti); infine, anche gli artefici sono tutt’altro che osservatori nascosti: un naturalismo neutro non esiste, perché l’artista «ha bisogno di un vocabolario prima di accingersi a copiare la realtà», come scriveva Ernst Gombrich.

 

         La seconda parte del volume si apre con un capitolo dedicato al dolore di Agamennone e alla rappresentazione del sacrificio di Ifigenia grazie all’ingenium di Timante: nell’Orator Cicerone interpreta la sua scelta come esempio di decorum, mentre Valerio Massimo sottolinea il limite del potere espressivo del pittore; Quintiliano ne parla a proposito dell’opportunità o meno di tacere ciò che per ragioni estetiche o etiche non può essere detto, perché alcune cose non devono essere scoperte o non possono essere espresse come meritano; si aggiunga che Eustazio di Tassalonica presenta non la retorica come imitazione della pittura, ma quest’ultima come emulazione della poesia, perché Timante avrebbe coperto la testa di Agamennone in virtù del modello dell’eccesso di sconforto di Priamo nel ventiquattresimo libro dell’Iliade.

 

         Se le fonti sono di nuovo raccolte in S. Kansteiner et alii [a cura di], Der Neue Overbeck, II. Klassik, Berlin-Boston 2014, pp. 801-805, degno di nota risulta l’«effetto Timante» nelle arti figurative e nella retorica del XVI-XVII sec., come messo in luce da M. Leone, L’inimmaginabile, in Lexia 7-8, 2011, pp. 471-489, che ha notato come l’exemplum ritorni allora nell’alveo delle lettere, diventando sostanzialmente una metafora artistica della figura retorica nota come aposiopesi, ossia quando un frammento di discorso è lasciato intenzionalmente incompleto al fine non solo di veicolare l’impressione di una mancanza di volontà o di capacità a continuarne l’enunciazione, ma anche di stimolare chi lo riceve a completarlo con l’immaginazione. Platt, dopo essersi avvalso in modo molto rapido soltanto di un’immagine almeno riecheggiante il motivo del capo velato (il quadro nella Casa del Poeta Tragico a Pompei), si appropria del modello teorico di Elsner a p. 230, per riferirlo al perduto originale: Timante usò the «logos of painting to build the pathos of spectactors into the ethos of the painter’s own command», una frase più ben costruita che comprensibile.

 

         Nella terza parte del volume, si attiene maggiormente ai monumenti l’analisi di Barbara Borg sul processo graduale di «Entmythologisierung» nel dossier dei sarcofagi del III sec. d.C.: vi si riscontra un allontanamento dalla narrazione mitologica e uno spostamento dell’enfasi su figure individuali, che, assumendo teste-ritratto, instaurano un collegamento più preciso e specifico con i morti, mentre i dettagli di azioni ed eventi tendono a diventare secondari (come nei miti di Endimione e Persefone e nelle scene di amazzonomachia). La differenza basilare risiede nella funzione primaria dei miti sui sarcofagi del II sec. d.C. colmi di immagini emozionali in qualità di exempla mortalitatis; per converso, nel secolo successivo è più forte il desiderio di dare forme visuale agli encomi dei morti e di rappresentarne lo status, per cui si assiste a un cambiamento del «linguaggio» e della «retorica» narrativa, stavolta da intendere come composizione delle scene, proporzione delle figure, movimenti e pose dei protagonisti (p. 251).

 

         L’autrice compie anche una breve e condivisibile digressione su alcuni punti significativi nelle Imagines di Filostrato maggiore, tra cui l’interesse per gli stati emotivi dei protagonisti, che paiono prestarsi a un confronto più con la pittura pompeiana o i sarcofagi del II sec. d.C. che con quelli del secolo seguente; ciò mette in guardia dal volere per forza ricercare parallelismi tra Filostrato e l’arte del suo tempo (vd. anche L. Abbondanza, Filostrato maggiore, Immagini, Torino 2008, p. 90, che li ha invece colti proprio nel linguaggio figurativo dei sarcofagi mitologici del II-III sec. d.C., contrassegnati «da una narrazione dinamica, composta da linee spezzate e molteplici…»).

 

         Con Zahra Newby si ritorna ai sarcofagi del II sec. d.C. riletti tramite i vari usi dei paradigmi mitologici negli epicedi di Stazio, che, oltre a lodare il destinatario e a sollecitare le aspirazioni culturali dei lettori, incrementano l’intensità della perdita e del dolore per i superstiti: se gli epicedi, tutti rivolti a uomini, sono sepulchra, i sarcofagi divengono poemi in pietra. Ciò prefigura gli exempla mortalitatis (per riprendere l’espressione di Barbara Borg) sui sarcofagi del II sec. d.C., talora, specialmente sui lati brevi, ornati anche di figure in lutto presso tombe.

 

         Maggiore attenzione è riservata a un noto sarcofago ostiense del Museo Chiaramonti, del 160 d.C. circa, con i protagonisti dotati di teste-ritratto, fatto realizzare da Ehodus per se stesso e Metilia Acte, santissima coniunx, la cui pietà era tale da potersi calare nei panni di Alcesti; la studiosa nota come nella scena all’estrema destra Alcesti, a capo velato in atto di essere riportata tra i vivi da Ercole, non ha la testa-ritratto, eventuale spia di come Ehodus non sarebbe invece riuscito a strappare la moglie agli Inferi (pp. 282-283; vd. anche pp. 326-327), una deduzione un po’ esagerata: la lavorazione della testa, celata dal velo, con un profilo non personalizzato può essere stata più economica in termini di tempo. Forzato sembra inoltre il parallelo tra l’abbondanza di motivi narrativi sui sarcofagi, non strettamente funzionali all’espressione della tristezza e della disperazione nelle storie mitiche, e un esempio tratto da Stazio (p. 278).

 

         Dopo la «Entmythologisierung» del III sec. d.C., i sarcofagi del IV sec. d.C. via via rinunciano del tutto ai miti, a differenza di quanto accade nella decorazione degli spazi domestici, allorché la professione di identità dei defunti non è più in termini di status ma di fede; donde l’esame della trasformazione della loro «retorica encomiastica» nell’ambito della cultura visuale tardoantica e cristiana sullo sfondo di un’introduzione ai Progymnasmata di Aftonio Sofista (seconda metà del IV sec. d.C.) in un complicato contributo di Elsner: dopo un preludio su alcuni sarcofagi del II-III sec. d.C., egli esamina la peculiare synkrisis tipologica di quelli cristiani (con il ricorso a precedenti esemplari desunti dal Vecchio Testamento ma sorpassati dalla Cristianità), caratterizzati da una maggiore inclusione di temi polemici volti a marcare quanto specificamente non cristiano, dunque correlabili in chiave retorica alla sfera dello psogos (biasimo), come nelle immagini di martirio e nell’arresto di figure eroiche come Pietro e Paolo.

 

         La quarta e ultima parte è dominata da un contributo denso ed estremamente fine di Michael Squire, volto a esplorare la comune matrice retorica che unisce opere d’arte e poesia e ad analizzare le connessioni tra immagini e parole sulle cosiddette Tabulae Iliacae, negli ultimi anni oggetto di un rinnovato interesse (l’articolo può essere letto insieme al libro di D. Petrain, Homer in Stone. The Tabulae Iliacae in their Roman context, Cambridge 2014, con ulteriori valutazioni sui loro possibili contesti d’uso).

 

         Il distico elegiaco dell’esemplare più celebre, quello capitolino, con una formulazione retoricamente molto sofisticata, invita a imparare la techne teodorea, in modo tale da possedere la misura di tutta la saggezza (sophia) dopo avere padroneggiato la taxis di Omero. Taxis (=ordo) appartiene alla critica letteraria e alla retorica e indica l’arrangiamento dei fatti in un racconto. Se quindi è esaltata la techne teodorea, capace di imporre una taxis visuale a un materiale letterario, sin dalla Poetica di Aristotele, di Omero è celebrata proprio la peculiare struttura narrativa con un ordinamento libero e selettivo e non strettamente lineare e cronologico della materia (il mos Homericus per Quintiliano equivale a un ordo non naturalis, ma artificiosus) a differenza di altri poeti del ciclo epico.

 

         A questo punto, per quanto le situazioni non siano del tutto sovrapponibili al caso delle Tabulae Iliacae, allo studioso non sfuggono talune anomalie della decorazione nell’ambiente «h» della casa di Ottavio Quartione a Pompei, particolarmente nel fregio minore iliaco: sulla parete orientale collidono diversi momenti narrativi con episodi del IX e del XXIV libro, uniti dalla reiterazione della schema iconografico di Achille seduto; anomalie che paiono invitare a un gioco retorico i fruitori in movimento, sfidandoli a esplorare la narrativa analettica e prolettica di Omero e a formulare nuove connessioni narrative (lo stesso autore è tornato sul tema, coinvolgendo anche le decorazioni della Casa del Sacello Iliaco e della Casa del Criptoportico, in Running rings round Troy: Recycling the ‘Epic Circle’ in Hellenistic and Roman art, in M. Fantuzzi, C. Tsagalis [a cura di], The Greek Epic Cycle and Its Ancient Reception, Cambridge 2015, pp. 496-542).

 

         Le Tabulae Iliacae costituiscono una sorta di corrispettivo del tempio di Cartagine, dove Enea contempla una selezione di immagini dai poemi del Ciclo (Iliade compresa), con la rappresentazione del labor sofferto dai Troiani: le battaglie iliache disposte ex ordine sono però viste o meglio vissute dall’animus del protagonista violando talora l’ordine cronologico (in particolare, nell’uccisione di Reso da parte di Diomede) e d’altronde, come già sottolineato nel 1994 da Alessandro Barchiesi, l’Eneide stessa non ne narra la storia ex ordine; semmai, sarà sul nuovo scudo nel libro ottavo che Enea vedrà i pugnata…in ordine bella forgiati da Vulcano con una sequenza lineare e cronologica, come nella tradizione dell’epos annalistico, culminante in medio con la battaglia di Azio del 31 a.C. Squire non si accontenta del commento di Servio (Enea parla solo delle imprese di Diomede e di Achille, in modo tale da essere scusato per essere stato vinto da grandi nemici), perché lo sguardo dell’eroe a Cartagine pare tradurre in parole i giochi retorici con cui hanno dimestichezza anche gli «artisti visuali» contemporanei.

 

         Il suo saggio si conclude con la modalità della mnemotecnica e delle arti della memoria tramite l’impiego di imagines e loci (privati e pubblici), fondamentali nell’educazione retorica per la composizione di un discorso (oratio): per un oratore la capacità di creare immagini mentali non è all’opera solo nella memoria artificiale, ma è oltretutto necessaria anche durante l’actio stesso per mettere sotto gli occhi degli uditori le cose assenti. I commenti retorici sui problemi di trasformazione delle parole in immagini – e viceversa – e sull’ordo non necessariamente lineare da praticare nei discorsi hanno importanza anche per l’interpretazione dei manufatti che si cimentano direttamente con i testi, come appunto le Tabulae Iliacae; oltretutto, sul verso di alcuni esemplari spiccano le griglie che dispongono le lettere dentro un «quadrato magico», laddove in due casi un esametro invita a guardare il gramma meson e a continuare poi nella direzione preferita, enfatizzando perciò le scelte dell’osservatore nella costruzione delle sequenze a partire dal punto centrale – analogamente, sul recto ci si muovere in ogni direzione a partire dalla vignetta centrale, che sulla Tabula Iliaca Capitolina esalta la fuga di Enea e la fondazione di Roma, un inizio per gli occhi che coincide con l’apice del racconto!

 

         Soprattutto un brano di Quintiliano (XI, 2, 19-21) serve emblematicamente a riassumere il contenuto dell’intero volume con l’intreccio di retorica, architettura e arti visuali: «la prima idea si assegna come a un vestibolo, la seconda, s’immagini, come a un atrio; quindi si va attorno ai cortili e si stabilisce un collegamento non solo come le camere e le esedre, ma anche con le statue e con gli oggetti di questo genere...»; ma, continua Quintiliano, l’esempio che chiama in causa una grande domus divisa in molte stanze si può allargare alle opere pubbliche, a un lungo viaggio, al perimetro di una città e ai dipinti.

 

         Il volume si chiude con una «coda» di Michel Meyer riservata alle funzioni retoriche dei quattro stili della pittura romana anche in relazione ad altre forme artistiche, uno spunto interessante ma in parte guastato da qualche schematica differenziazione iniziale tra «greco» e «romano» e da conclusioni generiche almeno per specialisti di archeologia classica.

 

         Terminiamo proprio con la pittura. Quintiliano (XI, 3, 67), nel sottolineare l’importanza per l’oratore dell’efficacia della gestualità che fa capire la maggior parte delle cose anche senza parole, evoca la pittura, opera silenziosa e immutabile in grado di penetrare negli affetti più riposti al punto tale da superare il potere della stessa parola. Ma quando il confronto si fa più concreto e diretto, ecco profilarsi, come inevitabile, la difesa della specificità e della superiorità del proprio sapere: per lo stesso Quintiliano (VI, 1, 32) era riprovevole l’uso di dipingere su un quadro o un telone la scena cruciale di un crimine da esporre durante il processo per commuovere un giudice, perché un avvocato doveva fidare più nella propria eloquenza che in una muta immagine.

 

 

 

Contents

 

J. Elsner, Introduction, 1

 

Part I Architecture and Public Space, 35

 

  1. E. Thomas, On the Sublime in architecture, 37
  2. F. De Angelis, Sublime histories, exceptional viewers: Trajan’s Column and its visibility, 89
  3. J. Trimble, Corpore enormi: The Rhetoric of Physical Appearance in Suetonius and Imperial Portrait Statuary, 115
  4. E. D’Ambra, Beauty and the Roman female portrait, 155

 

Part II The Domestic Realm, 181

 

  1. K. Lorenz, The Casa del Menandro in Pompeii. Rhetoric and the Topology of Roman Wall Painting, 183
  2. V. Platt, Agamemnon’s grief: On the Limits of Expression in Roman Rhetoric and Painting, 211

 

Part III The Funerary, 233

 

  1. B.E. Borg, Rhetoric and art in third-century AD Rome, 235
  2. Poems in Stone: Reading Mythological Sarcophagi through Statius’ Consolations, 256
  3. C. Vout, The funerary altar of Pedana and the rhetoric of unreachability, 288
  4. J. Elsner, Rational, passionate and appetitive: The Psychology of Rhetoric and the Transformation of Visual Culture from non-Christian to Christian Sarcophagi in the Roman World, 316

 

Part IV Rhetoric and The Visual, 351

 

  1. M. Squire, The ordo of Rhetoric, and the rhetoric of order, 353
  2. M. Meyer, Coda: The Rhetoric of Roman Painting within the History of Culture: A Global Interpretation, 418B

 

Bibliography, 446

Index, 494