Palmieri, Maria Grazia: Penteskouphia : immagini e parole dipinte sui pinakes corinzi dedicati a Poseidon, (Tripodes, 15), 275 p., ISBN : 978-960-9559-06-5
(Scuola archeologica italiana di Atene, Atene 2016)
 
Compte rendu par Marina Albertocchi
 
Nombre de mots : 2908 mots
Publié en ligne le 2017-02-16
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=2850
Lien pour commander ce livre
 
 

 

          Il volume di M. G. Palmieri è dedicato all’analisi di un lotto di pinakes arcaici da Penteskouphià, nell’eschatià corinzia, argomento che suscita un immediato interesse nel lettore sia per la ricchezza dei motivi iconografici rappresentati sia come rara testimonianza della pittura antica, non perfettamente sovrapponibile a quella del ben più noto repertorio vascolare. Esso prende le mosse dalla tesi di laurea dell’A., concentrata sulle immagini di artigiani dipinte sui pinakes.

 

         Il tema è reso difficile - oltre che dalla dispersione del materiale - dalla frammentarietà di approcci interpretativi, spesso rivolti solo ad un campione delle immagini raffigurate; l’A. si pone dunque il corretto obiettivo di riesaminare secondo “un’ottica globale” tali manufatti, seppure con il limite costituito dal fatto che si tratta di un riesame del materiale edito. Il numero dei pinakes rinvenuti, come viene infatti ricordato, è molto più alto di quello compreso nel catalogo. Spontanea sorge dunque una certa delusione nel lettore che, sulla base del titolo, si sarebbe aspettato una trattazione sistematica dell’intero complesso; la spiegazione del taglio dato si trova a p.16, dove l’A. ricorda come il corpus completo sia in corso di preparazione da parte di E. Hasaki. 

 

         Dopo la breve introduzione esplicativa del metodo utilizzato nello svolgimento del lavoro e comprendente una presentazione dell’opera (capitolo primo, pp.13-17), l’A. tratta dunque del luogo di rinvenimento dei pinakes e della loro possibile contestualizzazione (capitolo secondo, pp.18-26).

 

         Il contesto di appartenenza dei pinakes è ritenuto dalla maggior parte degli studiosi che se ne sono occupati un contesto sacro, anche se il breve scavo condotto dagli archeologi americani agli inizi del secolo scorso nell’area del primo fortuito recupero non ha portato alla luce alcuna struttura. L’assenza di informazioni sul luogo esatto di rinvenimento e sulla composizione dei depositi rende inoltre estremamente difficile interpretare il criterio di deposizione, apparentemente relativo ad uno scarico (deposito secondario). Ciò che sembra comunque certo, al di là del repertorio iconografico in gran parte riferito all’abilità artigiana, è che nei pressi si doveva trovare un’area di lavorazione artigianale grazie alla presenza di un corso d’acqua, di fonti d’argilla e di legname. L’A. discute delle ipotesi formulate a riguardo, mantenendo una posizione di doverosa cautela.

 

         Il terzo capitolo tratta brevemente della tecnica in cui sono realizzati i manufatti, e in particolare dello stile pittorico e della loro cronologia (pp. 27-48). L’A. analizza dunque lo stile dei pinakes editi, suddividendoli in tre gruppi cui sono attribuiti i pezzi databili nell’arco di un cinquantennio, tra la metà del VII e la fine del VI sec. a.C., e in cui si trovano raffigurazioni di livello piuttosto diverso. Nonostante le descrizioni spesso accurate dei singoli pezzi, il lettore non ha la possibilità di valutare le osservazioni stilistiche condotte e verificare le datazioni proposte data l’assenza di illustrazioni (che riguardano solo una decina di esemplari tra quelli commentati). Le datazioni fornite per i pinakes sono calibrate su quelle della ben nota pittura vascolare coeva, anche se l’A. conclude che la diversa destinazione dei due tipi di manufatti impedisce di stabilire una stretta relazione tra i due linguaggi figurativi. Interessante è l’osservazione che alcune immagini, comuni a forme vascolari di ampie dimensioni (come i crateri), sono chiaramente adattate alle dimensioni del pinax, a testimonianza dell’esistenza di cartoni che venivano utilizzati nelle botteghe dei ceramisti, e nello stesso tempo denunciano dei rapporti con il repertorio coroplastico.

 

         Il quarto capitolo, invece, analizza distintamente i temi iconografici raffigurati, dalle figure divine a quelle umane, ai soggetti mitologici (pp.49-84). Particolarmente complesso - e in questo caso va apprezzato lo sforzo compiuto dall’A. per ricomporre i pezzi di un mosaico composito - è il problema connesso alla comprensione del legame tra i vari temi figurativi, specialmente tra i due gruppi principali delle divinità e degli artigiani. Tale analisi è fondamentale per tentare di ricostruire la funzione e il contesto di appartenenza del corpus di oggetti. Nel capitolo viene infatti fornita una panoramica dettagliata dei motivi raffigurati e delle varianti nelle quali sono rappresentati i diversi temi; ancora una volta, tuttavia, l’assenza di un diretto riscontro con le immagini, quasi sempre solo descritte, costituisce un grosso limite alla partecipazione del lettore al percorso analitico compiuto dall’A.

 

         Dalla rassegna presentata e dalla discussione affrontata nel commento emergono tre temi dominanti: la rappresentazione della divinità evidentemente titolare del luogo di culto cui i pinakes si riferivano, Poseidon, la rappresentazione dell’abilità tecnica dell’artigiano, descritta con minuziosità in tutte le sue fasi, e quella della paideia aristocratica, evocata attraverso i suoi simboli più caratteristici (la caccia, la guerra e l’hippotrophia). Interessante è l’accento posto dall’A. sulla liminarità, aspetto che sembra tornare più volte nelle immagini raffigurate, del resto strettamente connesso alla paideia aristocratica e ancor più alle attività artigianali.

 

         L’A. fa solo un accenno (p.77) ad un aspetto che avrebbe meritato di essere maggiormente sviluppato, quello della possibile collocazione delle tavolette in modo da formare delle scene narrative, più o meno articolate e allusive al dedicante o alla divinità tributaria; tale ipotesi è stata recentemente formulata, con ottime argomentazioni, da G. Salapata[1]. Trovo senz’altro verosimile la possibilità che anche i pinakes di Penteskouphià, sia che fossero appesi ad alberi o alle pareti, potessero essere letti in forma combinata, ipotesi che permetterebbe tra l’altro di stabilire dei nessi tra immagini e “mondi” tra loro apparentemente distanti.

 

         Interessante è anche la considerazione che le figure mitiche, ben radicate in un ambito locale, siano associate a quelle degli artigiani, in un rapporto dialettico che nobilita il mondo lavorativo e in un gioco di specchi nel quale l’immagine del dedicante si riflette con quella del suo “doppio” aristocratico, che ha come riferimento l’ambito mitico. Tale rapporto mi sembra possa essere correttamente interpretato alla luce del sistema interpretativo di De Polignac sull’offerta, secondo il quale esiste uno scambio simbolico tra divinità, donatore e gruppo testimone della dedica, con una mutevole dinamica relazionale che vede l’offerta al centro dello scambio: il gesto pubblico della dedica offre infatti al fedele l’occasione per rispecchiarsi in una comunità dai valori condivisi[2].  

 

         Un intero capitolo è dedicato alle iscrizioni presenti sui pinakes (quinto capitolo, pp.85-105). L’A. riprende in questo caso il lavoro di R. Wachter, che nel 2001 ha riconsiderato tutte le epigrafi dei pezzi editi. L’attenta disamina dell’A. si pone correttamente l’obiettivo di definire attraverso le iscrizioni l’identità dei dedicanti e la loro relazione con gli artigiani autori delle tavolette. Dalla disamina emergono alcuni elementi interessanti, quali quello della presenza di artigiani non corinzi e quello della chiara attestazione di artigiani specializzati, ben radicati nella Corinto dell’epoca. Meno chiara appare la relazione con personaggi di rango elevato, attestati da alcuni antroponimi.

 

         Un altro dato importante è rappresentato dall’attestazione del nome della divinità oggetto della dedica: le ricorrenze designano infatti Poseidon come divinità pressoché esclusiva, affiancata in parte dalla sposa Anfitrite. Un tentativo apprezzabile è quello di mettere in collegamento la circostanza della dedica e i manufatti, nel caso specifico attraverso il dato epigrafico. L’A. nota infatti l’esistenza di appellativi, in alcuni casi mai attestati, che suggerirebbero una stretta relazione tra immagini e circostanza rituale, in cui venivano forse svolte delle performances da parte di personaggi particolari. La connessione sembra anche evidente nell’uso di dediche in metrica, che fanno pensare alla recita delle formule stesse nell’ambito dell’azione rituale, possibilmente anche accompagnata dalla musica. 

 

         Nel sesto capitolo l’A. cerca di contestualizzare le immagini più frequentemente rappresentate (pp.106-124). Qui l’A. riesamina i temi principali “in relazione al contesto”, suggerendo alcune ipotesi sull’ambientazione del culto, le modalità di svolgimento di alcuni riti (in cui i pinakes potevano svolgere una parte attiva) e le forme di organizzazione sociale desumibili dalle immagini raffigurate.

 

         Interessante è il tentativo di dare un volto ad un “paesaggio sacro” che in questa zona doveva avere una sua fisionomia, ora ben poco riconoscibile. L’ipotesi, sostenuta dall’A., dell’esistenza di una santuario dedicato a Poseidon in cui si celebrava un culto open-air è abbastanza convincente, pur se non suffragata da altre evidenze archeologiche; meriterebbe di essere valutata in modo più approfondito a tal proposito la relazione temporale tra l’esistenza del luogo di culto e l’installazione delle officine artigiane (problema cui si accenna a pp.129-130). La constatazione che la serie di pinakes raffiguranti i vasai al lavoro si concentra tra gli inizi del VI sec.a.C. e la metà del secolo, in concomitanza con la massima diffusione della ceramica corinzia nel bacino del Mediterraneo, non esclude infatti l’esistenza di impianti in un momento precedente. Del resto il numero di pinakes riconducibili alla seconda metà del VII sec.a.C. è decisamente esiguo (nel commento dell’A. se ne possono contare poco più di 20, alcuni dei quali risalenti comunque ad una fase avanzata del CA, e dunque alle soglie del VI sec.a.C.).

 

         Nella discussione relativa al ruolo delle immagini nella valenza del culto tributato, l’A. dedica alcune pagine alla rappresentazione di Poseidon con il fiore di loto; va sottolineato, tuttavia, che i pinakes con questo attributo sono solo sette e, inoltre, il fiore sarebbe presente solo su uno di questi (Cat.Ab2). Negli altri casi il tridente o un –probabile- scettro retto dal dio presentano una terminazione a forma di fiore di loto (non illustrato). Come ricorda la stessa A., il fiore rappresenta un motivo ornamentale estremamente comune nel repertorio iconografico della ceramografia corinzia, e la sua lettura come richiamo al “mondo extraurbano sede di riti di passaggio” (p.114) ci sembra un po’ azzardata.

 

         Scarsamente condivisibile è altresì l’ipotesi che tende ad attribuire un qualche ruolo svolto da altre divinità nell’area, in special modo Artemide. L’immagine della dea, nella sua veste di Potnia Theron, è solo indiziata su un solo pinax; l’idea che essa possa essere collegata all’unica figurina edita associata al corpus dei pinakes, riconosciuta dall’A. come la rappresentazione di una donna gravida, è certamente da rivedere. In primo luogo la statuetta frammentaria presenta un semplice ingrossamento del ventre, da interpretare come la deformazione grottesca di una figura che non sembra nemmeno femminile data l’assenza dei seni, secondo un canone rappresentativo non inconsueto nella coroplastica[3]; in secondo luogo, come ricordato dalla stessa A. a p.29, la statuetta era associata a diverse altre così come a ceramica miniaturistica. In assenza dunque dell’intero contesto è certamente da evitare la tentazione di attribuire un particolare significato ad un’unica immagine, di lettura peraltro controversa.

 

         Maggiore attenzione andrebbe invece posta al significato dell’immagine di Atena, raffigurata in almeno due pinakes e ricordata nelle formule di dedica. E’ noto infatti come la dea e Poseidon siano strettamente legati non solo nella sfera di pertinenza del cavallo (ad entrambi è attribuita l’invenzione del morso), ma anche in quella del mare, ed è proprio l’ingegno, la metis, a rappresentare il trait-d’union tra le due divinità, in stretta relazione con il suo doppio, l’alke[4].  

 

         Un tentativo molto apprezzabile dell’A. è poi quello, come già notato, di suggerire dei possibili gesti rituali che vedesse coinvolta la dedica dei pinakes. Senza arrivare ad ipotizzare una loro applicazione al carro del dio, è probabile che essi fossero dedicati alla fine di un percorso liturgico che li poteva vedere come protagonisti attivi, implicati in atti rituali accompagnati dalla musica e dalla recita di formule di preghiera[5]. Che la loro destinazione finale fosse quella di essere appesi ci pare indubbio, sia in base alla presenza dei fori di sospensione su tutti gli esemplari che all’osservazione che molti di essi erano dipinti su entrambi i lati; la pratica di appendere i pinakes, specialmente ai rami degli alberi, è del resto ben attestata sia nel repertorio di immagini vascolari sia nelle testimonianze letterarie. In tal senso, l’ipotesi dell’esistenza di un bosco sacro, adombrata dall’A. a p.126, assume maggiore consistenza; la sacralità del luogo sarebbe infatti richiamata visivamente dai pinakes appesi, che connoterebbero il “paesaggio sacro”.

 

         Nel settimo capitolo (epilogo, pp.125-132), l’A. passa ad analizzare il contesto storico ed economico in cui si colloca la produzione di questi oggetti, e ritorna sui tre temi fondamentali che abbiamo ricordato sopra: la presenza di un’aristocrazia detentrice di cavalli, il suo collegamento con la produzione ceramica e le diverse valenze del culto di Poseidon, signore delle profondità marine e terrestri. Il legame tra il mondo aristocratico e quello artigiano, entrambi raffigurati sui pinakes, viene qui esplicitamente spiegato dall’A. attraverso il diretto controllo esercitato da gruppi aristocratici, contrari alla tirannide cipselide, sulla produzione ceramica e la sua successiva commercializzazione. Tale legame viene reso tangibile grazie alla frequente associazione dei due motivi iconografici sui pinakes dipinti su entrambi i lati. La discussione di questo specifico aspetto viene però resa difficoltosa non solo dalla già rilevata mancanza di un adeguato apparato iconografico, ma anche da quella di grafici o dati numerici che possano dar conto del ricorrere delle associazioni in percentuale.

 

         Non viene inoltre più ripresa in questa sede l’idea, ricordata più in alto, che l’immagine dell’artigiano abbia un valore paradigmatico, talora associata a quella di soggetti mitici (p.74); tale chiave di lettura mi sembra invece assai suggestiva anche nella diretta associazione artigiani/cavalieri, in un gioco di specchi nobilitante in cui l’artigiano si relaziona attraverso le immagini del proprio mestiere con una classe sociale affatto diversa dalla propria. Con tale chiave di lettura si ripresenta, forse con maggiore concretezza, il tema della metis cui l’A. accenna in più punti del volume: il controllo del cavallo attraverso il morso, strumento della metis divina e dono per l’uomo, rappresenta la metafora nobile del controllo del fuoco nel procedimento di cottura della ceramica. In coda al volume trova spazio il catalogo (pp.133-225). Esso è organizzato secondo 14 soggetti iconografici, a ciascuno dei quali è attribuita una lettera maiuscola; essi sono ordinati sulla base della ricorrenza, in ordine descrescente.

 

         L’assenza di una numerazione progressiva rende assai difficoltoso il reperimento di un singolo esemplare, oltre ad impedire l’immediata percezione del numero di pezzi inclusi nel catalogo (il conteggio effettuato porta ad un numero complessivo di 204 esemplari, di cui purtroppo solo 24 sono illustrati nelle tavole in coda). Essi comprendono per la maggior parte gli esemplari conservati all’Antikensammlung di Berlino, quasi tutti pubblicati da Furtwängler nel 1885, per i quali la documentazione è generalmente lacunosa di qualche dato (spesso relativo alle dimensioni); al secondo posto, per numero di attestazioni, si trovano gli esemplari conservati al Louvre pubblicati da Collignon nel 1886 o rinvenuti sul sito web del Museo. Pochi esemplari frammentari, conservati nel Museo di Corinto, sono sostanzialmente inediti (sono stati inseriti in una tesi di Master discussa nel 1964), e l’A. ha avuto la possibilità di prenderne visione diretta e di fornirne un’illustrazione.

 

         In conclusione, il lavoro di M.G.Palmieri si pone come un’interessante tentativo di restituire unità e coerenza ad una serie di oggetti così frammentata per temi iconografici e per vicende legate alle modalità del loro rinvenimento. Lo sforzo compiuto dall’A. è notevole, specie nel tentativo di ricondurre i pinakes al momento della loro fabbricazione, in una Corinto potente e in fase di grande sperimentazione espressiva. Il punto debole di questo volume è rappresentato dalla presentazione, assai carente nell’apparato illustrativo, lacuna che inficia l’immediata comprensione dei numerosi spunti forniti dall’A. Di contro, sono proprio questi spunti a costituire il punto di forza del lavoro: essi presentano dei problemi interpretativi e alcune possibili risposte utili a combinare tale apparente disomogeneità di temi, spianando la strada a successivi approfondimenti e ipotesi indirizzate lungo la via correttamente indicata, quella di leggere insieme immagini, parole e ambiente.  

 

 

 


[1] G. Salapata, Terracotta Votive Offerings in Sets or Groups, in S. Huysecom-Haxhi, A. Muller (edd.), Figurines grecques en contexte. Présence muette dans le sanctuaire, la tombe et la maison, Villeneuve d’Ascq 2015, pp.179-197, con bibliografia precedente.

[2] F. De Polignac, Quelques réflexions sur les échanges symboliques autour de l'offrande, in C. Prêtre, S. Huysecom-Haxhi (edd.), Le donateur, l'offrande et la déesse. Systèmes votifs dans les sanctuaires de déesses du monde grec (Colloque Lille, décembre 2007), Kernos suppl. 23, Liège 2009, pp.29-37.

[3] Il delicato momento della gravidanza era infatti comunemente esorcizzato attraverso la rappresentazione di figure grottesche che offrono una versione deformata e caricaturale, non privi di una valenza apotropaica, di temi importanti nel tessuto sociale quali il concepimento: si veda su questo tema la scrivente in Osservazioni in merito alla rappresentazione della gravidanza nella coroplastica greca, in Simbolo e gesto. La determinazione di genere nelle statuette fittili del mondo greco, Atti del Colloquio (Genova, aprile 2016), c.d.s.

[4] Il tema del confronto tra le due divinità specie in rapporto all’invenzione del chalinos e al suo significato è ben analizzato in E.Villari, Il morso e il cavaliere. Una metafora della temperanza e del dominio di sé, Genova 2001, dove l’attribuzione dell’invenzione ad Atena è sottoposta a revisione sulla base delle tradizioni ad essa sottese.

[5] Tale filone interpretativo segue l’approccio sociologico basato sul concetto di agency, che ha aperto nuove prospettive sui processi di interazione attiva tra dedicanti, oggetti e luoghi di dedica. Su tale teoria esiste una vasta bibliografia; per una sintesi dell’idea di agency applicata agli oggetti si veda almeno A.M. Jones, N. Boivin, The Malice of Inanimate Objects: Material Agency, in D. Hicks, M.C. Beaudry (edd.), The Oxford Handbook of Material Culture Studies, Oxford-New York 2010, pp.333-351.