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Compte rendu par Micaela Antonucci, Università di Bologna Nombre de mots : 2604 mots Publié en ligne le 2017-10-10 Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700). Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=3036 Lien pour commander ce livre
Questo ricco e splendido volume, frutto della collaborazione tra l’École pratique des hautes études di Parigi e il Kunsthistorisches Institut di Firenze, curato dai rispettivi direttori Sabine Frommel e Gerhard Wolf, raccoglie i contributi di autorevoli studiosi di varie nazionalità su un tema sinora poco frequentato nella letteratura critica, nonostante la sua importanza e il potenzialmente inesauribile campo di esplorazione, che recentemente si è guadagnato una nuova attenzione: quello dell’architectura picta.
Negli ultimi anni infatti, diverse iniziative si sono concentrate su questo soggetto: oltre al convegno organizzato nel 2009 dall’École pratique des hautes études e dal Kunsthistorisches Institut, si ricordano le mostre dedicate all’architettura dipinta organizzate nel 2010 a Madrid (“Arquitecturas pintadas del Renacimiento al siglo XVIII”, Museo Thyssen-Bornemisza), nel 2012 a Lisbona (“A Arquitetura Imaginária: Pintura, escultura, artes decorativas”, Museu Nacional de Arte Antiga) ed a Urbino (“La città ideale. L’utopia del Rinascimento a Urbino tra Piero della Francesca e Raffaello”, Galleria Nazionale delle Marche), nel 2014 a Londra (“Building the Picture. Architecture in Italian Renaissance Paintings”, National Gallery).
Il rapporto tra pittura e architettura è uno degli elementi fondanti su cui si costruiscono le più innovative ricerche artistiche nel corso dei secoli. Se l’architettura si trova sia attorno sia dentro la pittura – da un lato, gli ambienti degli edifici offrono gli spazi per la realizzazione di affreschi e, dall’altro, le architetture dipinte hanno un ruolo centrale nella composizione pittorica – la pittura è spesso il seme da cui nasce l’architettura – nel corso dei secoli le ricerche architettoniche sono preannunciate e influenzate dalle raffigurazioni pittoriche, che divengono uno degli strumenti privilegiati nella diffusione delle conquiste formali delle opere costruite. Lo studio di questo complesso intreccio tra le due arti richiede dunque la stretta sinergia tra storici dell’arte e storici dell’architettura: ed è proprio questa sinergia che ritroviamo nei saggi che compongono il volume curato da Sabine Frommel e Gerhard Wolf. Essendo l’ambito potenzialmente vastissimo, per poter avere un quadro omogeneo e il meno frammentario possibile, è necessario restringere il perimetro della ricerca: la scelta in questo caso è stata quella di focalizzare l’attenzione sugli sviluppi dell’architettura dipinta in Italia fra tardo Medioevo e Rinascimento, concentrandosi in particolare sui principali centri dell’elaborazione culturale e artistica di questo torno di tempo, ovvero Firenze e la Toscana, Roma, Venezia. Volutamente sono stati esclusi, all’interno del perimetro così individuato, lo studio del rapporto tra architettura e paesaggio e l’analisi dei disegni oltre che dei dipinti – che avrebbero richiesto strumenti interpretativi più specialistici.
Nell’universo artistico compreso tra le coordinate temporali, spaziali e tipologiche fissate, emergono poi alcune tematiche centrali, come sottolineato dai due curatori nei loro interventi: Wolf parla di cinque «potenziali costellazioni» dell’architettura picta: la citazione di edifici reali; la creazione di edifici di fantasia combinando elementi di epoche diverse; l’immaginare nuovi spazi ispirati al mondo classico; il confronto tra architettura antica e moderna, in particolare a Roma; la creazione di nuovi spazi urbani (G. Wolf, Architectura picta tra spazio e corpo, pp. 287-293).
Sull’importanza del tema figurativo della rappresentazione della città – incarnata dalle celeberrime “icone” delle tre tavole di Berlino, Urbino e Baltimora – insiste anche Sabine Frommel, che sottolinea come queste rappresentazioni rivestano «una funzione semantica e iconologica» e al tempo stesso ricoprano «il ruolo di strumento politico», creando la «visione della città come opera d’arte globale in senso umanistico» (S. Frommel Architectura picta, pp. 11-19).
Un ruolo da protagonisti nelle ricerche sull’architettura dipinta lo hanno sicuramente gli architetti-pittori, che agiscono contemporaneamente nell’ambito immaginato e in quello reale. Tra questi, uno dei più celebri è senza dubbio Giotto di Bondone, che si impone come una delle figure centrali del saggio di Francesco Benelli (L’architettura dipinta nella pittura toscana medievale, pp. 21-41). L’autore, che ha già dedicato a Giotto numerosi e approfonditi studi, evidenzia come questo straordinario artista – seguendo la strada aperta da Cimabue – abbia innescato una vera e propria rivoluzione nell’architettura dipinta, creando una nuova concezione dello spazio pittorico e animando gli edifici dei piatti fondali di matrice bizantina e orientale con la tridimensionalità dei volumi prospettici che anticipano le innovazioni rinascimentali: come ricorda Cennino Cennini nel Libro dell’arte, egli «tramutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno». Le novità e le convenzioni pittoriche introdotte da questo gigante dell’arte, in particolare nei capolavori dei cicli decorativi nella Cappella degli Scrovegni e nella Basilica di San Francesco ad Assisi, vengono poi assorbite e reinterpretate dai suoi discepoli e dai principali personaggi della scuola toscana – come aveva già magistralmente evidenziato Arnaldo Bruschi nel suo studio sugli sviluppi artistici pre-brunelleschiani (Prima di Brunelleschi: Verso un’architettura sintattica e prospettica I. Da Arnolfo a Giotto; II. Da Giotto a Taddeo Gaddi al tardo Trecento, recentemente riediti in A. Bruschi, L’antico, la tradizione, il moderno. Da Arnolfo a Peruzzi, saggi sull’architettura del Rinascimento, a cura di M. Ricci and P. Zampa, Milano 2004): da Taddeo Gaddi a Masaccio, da Duccio di Boninsegna a Pietro e Ambrogio Lorenzetti, l’architettura dipinta diventa uno spazio sempre più realistico senza tuttavia perdere i forti connotati simbolici e allegorici.
Il racconto di questa ideale “genealogia dell’architettura dipinta” prosegue nel saggio di Christoph L. Frommel (L’architectura picta da Giotto a Raffaello, pp. 69-97), passando dalla Toscana a Roma e arrivando fino all’inizio del XVI secolo. Un percorso in cui l’autore, che ha già affrontati questi temi in molti dei suoi fondamentali studi sull’arte e sull’architettura rinascimentale, individua come figura altrettanto fondamentale dopo Giotto quella di Filippo Brunelleschi: che introduce la prospettiva centrale e getta le basi per le nuove rappresentazioni architettoniche nella pittura e nella scultura operate da Donatello (capace di un’inedita profondità spaziale nei bassorilievi raffiguranti il Banchetto di Erode e la Danza di Salomè, oltre che nei tondi nella Sacrestia Vecchia), da Masaccio (autore, forse insieme allo stesso Filippo, della celeberrima Trinità, in cui architettura e pittura si compenetrano in una intimità mai raggiunta prima) e da Ghiberti (che nei riquadri della Porta del paradiso inserisce la narrazione all’interno di inediti edifici classicheggianti). Queste innovative esperienze si irradiano e si sviluppano fuori dall’ambito toscano grazie a un altro gruppo di artisti, influenzati più o meno direttamente dalla figura di Leon Battista Alberti: in particolare Andrea del Castagno, Andrea Mantegna e Piero della Francesca – autori, com’è noto, di veri e propri caposaldi dell’architectura picta quattrocentesca come il Ciclo delle donne e degli uomini illustri, la Camera Picta nel Palazzo Ducale di Mantova, la Flagellazione di Urbino. Grazie anche a queste esperienze, la rappresentazione della città, che trova espressione in indiscussi capolavori come le tavole di Berlino, Urbino e Baltimora – da Frommel convincentemente ricondotte all’ambito di Giuliano da Sangallo – diventa un tema sempre più centrale, portando per la prima volta l’architettura ad essere protagonista assoluta dei dipinti. Dalle varie corti italiane, i risultati di queste geniali sperimentazioni confluiscono nel Cinquecento a Roma, dove trovano una straordinaria sintesi nell’opera di due figure centrali del Rinascimento, ovvero di Donato Bramante e del suo geniale allievo Raffaello Sanzio: due pittori-architetti che, nella ricerca di una nuova grandiosa architettura “all’antica”, sperimentano i linguaggi e le invenzioni in parallelo nelle opere dipinte e in quelle costruite, che si influenzano vicendevolmente creando una stretta e reciproca connessione. Una lezione che viene ulteriormente sviluppata dal senese Baldassarre Peruzzi, pittore, scenografo e architetto che nella Sala delle Prospettive della Farnesina porta l’abilità prospettica verso vette di puro virtuosismo, annullando il limite della parete costruita attraverso vedute illusionistiche perfettamente corrispondenti alla realtà.
Sabine Frommel raccoglie il testimone della narrazione e ci conduce attraverso l’evoluzione dell’architectura picta nell’opera della “seconda generazione” dei maestri del Rinascimento (Dall’eredità di Raffaello alla Controriforma: le tendenze, pp. 99-123). Gli allievi di Raffaello ne raccolgono l’eredità e sviluppano nuove soluzioni in cui la restituzione pittorica sempre più fedele degli edifici antichi diventa elemento di crescente importanza nel progetto delle architetture contemporanee: in particolare, oltre a Giovan Francesco Penni e Perin del Vaga, è la figura di Giulio Romano, altro pittore-architetto, che da Roma a Mantova introduce nell’architettura sia dipinta sia costruita forme e soluzioni innovative. In questo percorso, un forte elemento di discontinuità è rappresentato dal Sacco di Roma, che da un lato innesca una nuova fase nella ricerca sull’architettura dipinta e dall’altro, con la diaspora degli artisti in fuga dall’Urbe, favorisce la diffusione in tutta la penisola e ancora oltre in Europa dei modelli del Rinascimento romano, che penetreranno nelle tendenze locali rivitalizzando con originali novità le tradizioni autoctone. I casi esemplari di questa evoluzione scelti da Sabine Frommel sono la decorazione dell’Oratorio di San Giovanni Decollato, dove si confrontano Perin del Vaga, Francesco Salviati e Pirro Ligorio; e la Sala dei Cento Giorni nel Palazzo della Cancelleria decorata da Giorgio Vasari. Architetture, monumenti e cantieri diventano protagonisti nei cicli decorativi, sempre più orientati alla celebrazione e all’autorappresentazione politica – basti pensare agli affreschi di Salviati e di Taddeo Zuccari rispettivamente nei palazzi Farnese a Roma e a Caprarola, o all’opera di Vasari nel palazzo Vecchio a Firenze. Un’altra “svolta tematica” importante si ha dopo la Controriforma, in particolare dopo l’elezione al soglio pontificio di Pio V nel 1566: i temi mitologici sono sempre più sostituiti da quelli religiosi e storici, coinvolgendo nel processo di cambiamento anche le architetture dipinte. Questi percorsi di ricerca proseguono oltre i confini della penisola e arrivano nel Nord Europa – grazie all’opera di artisti italiani attivi all’estero, come ad esempio Francesco Primaticcio e Sebastiano Serlio, chiamati alla corte di Francesco I in Francia – che si innesta sulla tradizione di rappresentazione degli sfondi architettonici degli artisti tardo-gotici e fiamminghi. Frommel conclude dunque questo ricco e piacevole racconto attraverso il Cinquecento con un’opera emblematica degli intrecci di linguaggi e modelli diversi: La costruzione della Torre di Babele di Peter Bruegel il Vecchio, in cui «la tradizione biblica si fonde con quella pagana, quella mediterranea con quella nordeuropea. Infinitamente più simbolica della città ideali di Berlino, Urbino e Baltimora, più scettica della veduta di San Pietro di Vasari, l’architettura diventa qui protagonista dell’opera, incarnazione del fallimento umano».
Il saggio di Maria Beltramini e Howard Burns ci porta infine a Venezia, area in cui la pittura sin dal XIII secolo mantiene sempre un carattere originale e autonomo, ma sempre in contatto e in dialogo con le tradizioni e i modelli provenienti dalle altre “capitali artistiche” della penisola (L’architettura nella pittura veneziana, 1270-1600, pp. 125-154). Come sottolineano gli autori, «Venezia non fu né isolata né isolazionista», ma ha sempre avuto un’identità fortemente autonoma pur se debitrice alle influenze esterne, anche per via della sua singolare condizione geografica – come ci ricorda la celebre frase di Francesco Sansovino: «Venetia sola posta in mezzo all’acque, non ha cosa in terra alla quale si possa paragonare». Con l’acquisizione dei territori della terraferma veneta, a partire dal XIV secolo, la città lagunare diviene un vero e proprio Stato e insieme uno dei principali centri artistici italiani. La rappresentazione dell’architettura nella pittura veneziana, che era iniziata già dalla fine del Duecento raccogliendo l’influenza della tradizione bizantina dei mosaici, si trasforma così nel corso dei secoli fino al tardo Cinquecento seguendo la mutazione dei gusti, dei linguaggi e delle condizioni storiche. Gli autori ci accompagnano lungo questo percorso, attraverso l’analisi delle opere degli artisti più significativi in ambito veneto – dalla famiglia Bellini (Jacopo e poi i figli Gentile e Giovanni), passando per Vittore Carpaccio, Tintoretto, Paris Bordon, Sebastiano del Piombo e Tiziano fino a Paolo Veronese – e delle casistiche più frequenti di architetture dipinte (tavole d’altare con finte prospettive che creano “cappelle virtuali” in spazi ristretti; cornici come finestre aperte su uno spazio illusionistico; sfondi architettonici nei ritratti; tele di grande formato per palazzi pubblici). Come a Firenze e a Roma, anche a Venezia l’architettura dipinta è sempre in stretto e proficuo dialogo con quella costruita, divenendo un importante mezzo nello studio dell’Antico e, attraverso questo, nell’elaborazione di un nuovo linguaggio architettonico; ma un’altra influenza altrettanto importante è quella che arriva dal Nord Europa – in particolare attraverso la figura di Albrecht Dürer, che soggiornò a lungo nella città.
Unico saggio a concentrarsi non su un contesto geografico ma su una tipologia dell’architettura dipinta è quello di Philine Helas, che si misura con il modello del tempio e il ruolo della scala nella pittura tra medioevo e Rinascimento (Sui gradini del tempio. Il tempio e la scala nell’architectura picta tra il XIV e il XVI secolo, pp. 43-67). Quello del ruolo della scala nell’architettura costruita è un tema sinora relativamente poco studiato, nonostante dalla metà del XV secolo si assista a un’interessante mutazione morfologica e funzionale di questo elemento che, con l’approssimarsi dell’età barocca, guadagna un ruolo da protagonista nell’architettura civile in Italia e in Europa (oltre ad alcuni studi sulle scale nell’architettura di singoli artisti, come tra gli altri Antonio da Sangallo il Giovane e Palladio, riferimento ancora valido a tale proposito è il volume a cura di A. Chastel e J. Guillame che raccoglie gli atti del convegno L'escalier dans l’architecture de la Renaissance organizzato a Tours nel 1979, edito nel 1985). Proprio in considerazione dello stretto legame tra architetture dipinte e architetture costruite, l’analisi di Helas porta un originale contributo a questo tema, ricostruendo con grande attenzione il ruolo della scala nell’architectura picta da Giotto a Tintoretto e utilizzando i mutamenti nella rappresentazione di questo elemento come una significativa cartina di tornasole della «trasformazione che investe i principi compositivi e gli spazi narrativi all’interno delle immagini». L’autrice sceglie di concentrarsi in particolare su due invarianti tematiche leggendone le trasformazioni nel corso dei secoli: le diverse ricostruzioni dipinte del Tempio di Salomone e le modalità di raffigurazione delle scale di accesso al tempio. Filo conduttore di questa analisi è un soggetto particolarmente presente e ricorrente nell’iconografia pittorica a partire dal XIV secolo: quello della Presentazione di Maria al Tempio, frequentato da tutti i grandi pittori a partire da Giotto fino a Jacopo Tintoretto – passando per Taddeo Gaddi, Paolo Uccello, Jacopo Bellini, Ghirlandaio, Carpaccio, Tiziano, Perin del Vaga, Baldassarre Peruzzi, Daniele da Volterra. Attraverso questo lungo e attento excursus, l’autrice ci mostra come la scala non si limiti al ruolo di elemento funzionale nell’edificio rappresentato, ma sia sempre di più una protagonista della composizione architettonica e dell’azione narrata: «molto prima che la scala diventasse un elemento architettonico che si propone come allestimento scenografico urbano, i pittori dimostrarono la carica innovativa della sua forma e il suo potenziale scenografico, aprendo la strada alle scalinate barocche».
Strumento di grande utilità nel seguire in un percorso unitario le varie tematiche affrontate nei diversi saggi, e insieme raro repertorio di bellezza, è l’Atlante che costituisce una cospicua parte del volume: 119 tavole a colori, dalla Crocifissione di San Pietro nella Scala Santa (1260-80) alla Costruzione della Torre di Babele di Peter Bruegel il Vecchio (1563), che si possono scorrere come una lunga narrazione per immagini che consente di confrontare in modo efficace ed immediato la diversità di soluzioni o di variazioni sui temi e iconografie ricorrenti, e di ricostruire un percorso evolutivo dell’architectura picta nel corso dei secoli attraverso un’eccezionale raccolta di straordinari capolavori artistici.
Indice
Architectura Picta, di Sabine Frommel, 11 L'architettura dipinta nella pittura toscana medievale, di Francesco Benelli, 21 Sui gradini del tempio. Il tempio e la scala nell’architectura picta tra il xiv e il xvi secolo, di Philine Helas, 43 L’architectura picta da Giotto a Raffaello, di Christoph L. Frommel, 69 Dall’eredità di raffaello alla controriforma: le tendenze, di Sabine Frommel, 99 L’architettura nella pittura veneziana, 1270-1600, di Howard Burns e Maria Beltramini, 125 Atlante, 155 Architectura picta tra spazio e corpo, di Gerhard Wolf, 287 Bibliografia, 295 Indice dei nomi, 303 Crediti fotografici, 306
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Éditeurs : Lorenz E. Baumer, Université de Genève ; Jan Blanc, Université de Genève ; Christian Heck, Université Lille III ; François Queyrel, École pratique des Hautes Études, Paris |