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Compte rendu par Paolo Liverani, Università di Firenze Nombre de mots : 2768 mots Publié en ligne le 2019-01-17 Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700). Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=3037 Lien pour commander ce livre
Partendo dagli esempi dell’Egitto romano, il volume si occupa della pittura antica su tavola di cui è rimasta scarsissima evidenza archeologica a causa della deperibilità del materiale. Se prescindiamo dai ritratti di El-Fayum, anche gli esemplari egiziani, gli unici sopravvissuti grazie al particolare clima, sono rimasti prigionieri di un limbo: troppo tardi per gli egittologi, troppo antichi per i bizantinisti, troppo periferici ed esotici per gli archeologi classici. Il tema tuttavia non è importante solo in sé, ma anche in rapporto alle origini dell’arte cristiana in genere e più specificamente della produzione delle icone.
Nell’introduzione Mathews caratterizza questa classe di dipinti con immagini divine per il loro carattere frontale, non narrativo, e per la tecnica a tempera che li distinguerebbe dai ritratti di El-Fayum (p. 16), i quali sarebbero invece generalmente realizzati a encausto. A ben vedere, però, queste caratteristiche non differenziano le immagini divine dai ritratti umani: anche questi infatti sono frontali e non narrativi, inoltre anche i ritratti funerari utilizzano con grande frequenza la tecnica a tempera, come viene chiaramente descritto anche nel capitolo finale del medesimo volume (pp. 224-225). Venendo a cadere queste peculiarità, l’unico criterio valido per isolare la classe scelta per questo corpus da altri esemplari di tavole dipinte, rimane quello iconografico. Ciò ha qualche ricaduta sulla composizione del corpus da cui – come si vedrà – va quindi espunto il famoso “tondo” di Berlino con il ritratto della famiglia imperiale dei Severi.
Il primo capitolo esamina le poche informazioni disponibili sul luogo di rinvenimento delle tavole e cerca di contestualizzarle per ricavare indicazioni sulla loro funzione. Il tema è di estremo interesse, ma talvolta l’autore tende a forzare l’evidenza. Le tavole sono state trovate normalmente in abitazioni private ma, pur riportando come autorevole l’opinione di Thelma K. Thomas che le case dell’Egitto tardoantico non avevano stanze specializzate per le diverse funzioni (p. 33), Mathews sostiene il contrario e ritiene che la presenza di tavole dipinte raffiguranti divinità affisse alle pareti autorizzi a parlare di “oratori domestici”, con una impropria estensione alla religione pagana di un concetto e di una funzione peculiarmente cristiana. Tale denominazione sembra frutto di quella tendenza dell’autore a sottolineare la continuità negli usi religiosi tra paganesimo e cristianesimo anche oltre il limite che i dati autorizzerebbero. Un caso simile è l’utilizzo del termine Pantheon (pp. 12-13) applicato per estensione alle figure che accompagnano Cristo: Maria, gli angeli e i santi. Curiosamente, invece, il termine “icona” viene usato dall’autore in senso storico-artistico, riservandolo rigorosamente alle tavole dipinte a soggetto cristiano, anche se è perfettamente conscio che la parola greca viene impiegata dalle fonti in maniera indistinguibile anche per indicare ritratti civili e pagani. Particolarmente notevole invece per l’argomentazione di Mathews è la tavola da Edfu raffigurante Fortuna-Anthousa (pp. 38-41), proveniente da un ambito evidentemente cristiano, ma con l’immagine della personificazione di Costantinopoli, databile alla fine del VI secolo. Si dovrebbe forse discutere più a fondo se essa implichi la “santificazione” di tale personificazione – come propone l’autore – o piuttosto non documenti la penetrazione in ambienti religiosi di tradizioni civiche. In ogni caso il parallelo con la statua di Fortuna che doveva sorgere sulla Colonna dei Goti a Costantinopoli (che ritorna insistentemente nel volume: pp. 24, 41, 135, 214) è inappropriato. Questa colonna era stata già studiata dall’autore in un precedente contributo (The Piety of Constantine the Great in his Votive Offerings, Cahiers archéologiques 53, 2009/10, pp. 5-16), nel quale la attribuiva a Costantino come offerta alla Fortuna Redux per la vittoria di Crisopoli su Licinio. Mathews, però, non tiene conto del fatto che la Fortuna Reduce è un elemento del rituale del trionfo: è la dea che – come dice il nome – gli imperatori ringraziavano perché aveva permesso loro di ritornare da vincitori e che, sotto gli imperatori cristiani, continua la sua funzione acquistando un valore civico, come accade più in generale a tutto il rituale del trionfo e alle onoranze imperiali (P. Liverani, Templa duo nova Spei et Fortunae in Campo Marzio, RendPontAc 79, 2006-2007, pp. 291-314). Questo semplice fatto esclude l’attribuzione della colonna a Costantino, che dopo la battaglia contro Licinio sarebbe arrivato a Costantinopoli per la prima volta: dunque senza compiere alcun ritorno. D’altra parte non viene considerata neppure l’attribuzione di R. H. W. Stichel a un imperatore assai più tardo: Anastasio (Fortuna Redux, Pompeius und die Goten. Bemerkungen zu einem wenig beachteten Säulenmonument Konstantinopels, in IstMìtt 49, 1999, pp. 467-492).
Nel secondo e terzo capitolo c’è il nucleo centrale del volume, costituito dall’esame di una serie di “icone pagane” che l’autore ha potuto raccogliere in un corpus di 59 tavole dipinte sparse per il mondo in venti collezioni diverse, databili per lo più tra il I e il IV sec. d.C., raffiguranti divinità (tranne i ritratti imperiali severiani su cui cfr. infra), una parte significativa delle quali sono state sottoposte da Norman Muller ad analisi per identificare pigmenti e leganti. Questo esame diretto e dettagliato di materiali spesso poco noti permette fondamentali acquisizioni, quali l’identificazione di una serie di tavole con rappresentazione di divinità egizie come porte di piccoli sacelli piuttosto che come elementi di trittici, oppure il riconoscimento che il famosissimo “tondo” di Berlino con la famiglia di Settimio Severo è stato in realtà ritagliato in età moderna da una tavola rettangolare di grandi dimensioni (p. 78). L’importanza di questo nucleo è davvero notevole e l’autore ritiene che questi dipinti costituiscano, per così dire, l’“anello mancante” tra la pittura su tavola di tradizione classica e le icone cristiane non solo da un punto di vista tecnico, ma anche religioso, in quanto testimonierebbero il costume di dedicare questi dipinti con finalità votive.
Particolarmente importante è la discussione di tre schemi (templates), che corrispondono a tipi di monumenti e a funzioni differenti, precedentemente non sempre ben compresi o addirittura non identificati. Si tratta 1. degli sportelli di naiskoi portatili egiziani, 2. dei trittici e infine 3. delle tavole a più registri con figurazioni dimensionate gerarchicamente, utilizzate per presiding divinities, divinità che presiedono su altre figure minori. Non si tratta di una tipologia fine a se stessa perché il funzionamento, per così dire, di ognuno di questi schemi è differente anche se tra il primo e il secondo ci può essere un rapporto di derivazione. Il primo, inoltre, è specificamente legato alla ritualità egizia, mentre il secondo, pur conoscendo qualche antecedente pagano, si sviluppa sostanzialmente in ambito cristiano ed è destinato a una grande fortuna in epoca post-antica.
Qui è opportuno fare una precisazione relativa al “tondo” di Berlino raffigurante la famiglia imperiale: in esso il ritratto di Settimio Severo richiamerebbe quello di Serapide a causa dello schema a quattro boccoli della frangia, tuttavia da un lato tale schema non è particolarmente evidente nella tavola di Berlino e dall’altro il dettaglio è già presente nella ritrattistica antonina. L’affermazione secondo cui tale elemento caratterizzante sarebbe copiato from a Bryaxis cult statue of the emperor in Alexandria (p. 79) è ovviamente una svista poiché Bryaxis è uno scultore della seconda metà del IV secolo avanti Cristo. Mathews inoltre propone di identificare questa tavola con quella ricordata in un papiro (P. Oxy. 1449), che riporta l’inventario delle proprietà di nove templi minori della zona di Ossirinco, in cui viene descritto tra l’altro un εἰκονίδιον raffigurante Caracalla con i suoi genitori (pp. 80-82). La descrizione del soggetto calza a pennello, ma la definizione di εἰκονίδιον non si accorda con le dimensioni originali della tavola: oggi il “tondo” misura 31 cm di diametro, ma – essendo stato ritagliato – potremmo stimare una dimensione lievemente superiore. Se cerchiamo dei termini di comparazione, è vero che alcune delle tavole studiate nel volume in esame hanno dimensioni superiori come quella di Soknebtunis e Min (fig. 1,18: cm 59x54 ma calcolando anche la cornice) o quella di Heron e Nemesis (fig. 2,7: cm 58,1x47,7 con la cornice), ma altre sono di dimensioni minori, come quella di Heron e Lykurgos (fig. 2,3: cm 33,3x19,1 compresa la cornice). Inoltre, i ritratti di El-Fayum sono normalmente più stretti, anche se possono essere più alti, e infine il ritratto femminile da Hawara (British Museum GRA 1889,1018.1) se togliamo la cornice misura solo cm. 25.9 di altezza per 20.4 di larghezza (S. Walker, M. Bierbrier [a cura di], Ancient Faces: Mummy Portraits from Roman Egypt. A Catalogue of Roman Portraits in the British Museum, London 1997, pp. 121-122, n. 117), una misura che possiamo considerare abbastanza comune. In sintesi: non possiamo considerare la tavola di Berlino un “ritrattino” (εἰκονίδιον). Secondo Mathews i ritratti menzionati dal papiro – e dunque la tavola di Berlino – sarebbero stati offerti ai templi in occasione della visita della famiglia imperiale in Egitto nel 199 d.C.: Settimio Severo sarebbe stato accolto come un’epifania del dio Serapide e le città dell’Egitto avrebbero dedicato un ritratto del dio nei templi locali (p. 82). Tuttavia, questa ricostruzione è tutt’altro che dimostrata: non si capisce per quale motivo, per esempio, i ritratti dell’imperatore non possano essere stati dedicati nei templi semplicemente per festeggiare l’evento e per spirito di lealismo. Potremmo ricordare a questo proposito un altro papiro, quasi contemporaneo (BGU II 362: 215 d.C.), relativo alle spese di un tempio nel nome di Arsinoite, che elenca diversi casi di στέψις (incoronazione) di ἀσπιδεῖα. cioè di imagines clipeatae forse imperiali (A. Łukaszewicz, ἀσπιδεῖον, ZPE 67, 1987, pp. 109-110), che facevano parte dell’allestimento festivo del luogo. In breve non c’è motivo di includere la tavola della famiglia dei Severi tra quelle relative alle divinità.
Il quarto capitolo esplora le fonti letterarie, che mostrano ancora notevoli potenzialità se lette con l’occhio dell’archeologo e dello storico dell’arte. Particolare risalto acquista un brano degli Atti apocrifi di Giovanni del II sec. d.C., che parla del ritratto dell’evangelista realizzato per Licomede, il notabile a cui il santo aveva salvato la moglie e che, convertitosi, lo ospitava a Efeso. Il ritratto era nella camera da letto e veniva decorato e venerato con fiori e lucerne dal padron di casa, come un theios anèr, mostrando un indubbio legame con le tradizioni precristiane. Nella stessa direzione vanno le notizie di Ireneo di Lione (adv. her. 1.23; a cui si sarebbe potuto aggiungere Ippolito, Refutatio omnium haeresium, VI, 20, 1-2), sui ritratti di Simon Mago e di sua moglie Elena raffigurati come Zeus e Atena e venerati dai membri della loro setta. Pure importante è l’esame della visione di Pacomio, che ha interessanti assonanze con il mosaico dell’arcone trionfale di S. Paolo fuori le mura a Roma.
Il quinto capitolo affronta l’iconografia di Maria sottolineando gli elementi comuni con l’iconografia della Isis lactans, sia nella posa che nel trono. La discussione è interessante, tuttavia soffre di un’eccessiva focalizzazione sulle immagini divine e sull’Egitto. L’immagine della donna seduta con un bambino in grembo, infatti, è sufficientemente diffusa in antico: si pensi nell’Italia repubblicana alle Madri campane, oppure in età imperiale alle raffigurazioni sui sarcofagi. Lo stesso dicasi per i troni, sui quali esiste una discreta bibliografia che non sembra utilizzata. Inoltre il confronto soffre di un apriori caratteristico di Mathews, quello di scartare ogni possibile confronto con l’iconografia imperiale, come se le iconografie sacre e quelle politiche non fossero comunicanti e gli attributi regali divini non derivassero da quelli umani. Un approccio più ecumenico e l’uso di qualche elemento di semiotica avrebbe giovato alla discussione, anche quando si pone l’interessante tema dello sguardo delle immagini frontali. Nemmeno su questo punto, infatti, ci si può limitare alle immagini divine, poiché lo sguardo verso lo spettatore appare già in epoca assai precedente con specifiche funzioni (F. Frontisi-Ducroux, Du masque au visage. Aspects de l'identité en Grèce ancienne, Paris 1995) e viene sfruttato a fondo in epoca tardoantica in ambiti e con funzioni differenti. In particolare, il fenomeno dello sguardo che va oltre lo spettatore era stato definito frontalità “approssimata” (approchée) da R. Tefnin (Les regards de l'image: Des origines jusqu'à Byzance, Paris 2003, p. 126, ma con un approccio psicologizzante non accettabile) e potrebbe essere messo a fuoco ulteriormente in una visione più sistematica (P. Liverani, Chi parla a chi? Epigrafia monumentale e immagine pubblica in epoca tardoantica, in S. Birk, T.M. Kristensen, B. Poulsen [a cura di~, Using Images in Late Antiquity, Oxford & Philadelphia 2014, pp. 3-32).
Il sesto capitolo analizza una serie di rilievi rinvenuti negli scavi di S. Polyeuktos, che costituiscono un rarissimo caso di icone in marmo, decorazione del templon della chiesa, distrutte dagli iconoclasti: un unicum di straordinario interesse e pochissimo studiate. Si tratta di dieci pannelli di marmo raffiguranti Cristo, Maria e otto apostoli, che Mathews può ricostruire in maniera convincente come sovrapposti all’architrave del recinto del templon, confrontando questo allestimento con quanto sappiamo di quello di Santa Sofia. Il risultato è di grande importanza e si deve alla capacità dell’autore di analizzare finemente il dato archeologico nel contesto delle fonti letterarie e liturgiche.
Nel successivo capitolo l’indagine si estende a una serie di tavole lignee figurate, più o meno complete, che vengono ugualmente attribuite a strutture simili al templon di S. Polyeuktos. Sono realizzate con tecniche differenti e hanno soggetti diversi, dunque la pertinenza a strutture di questo tipo è ipotetica anche se verosimile. Sono considerate inoltre le icone dipinte nelle nicchie del Monastero Rosso di Deir Amba Bishai in Egitto, un monumento recentemente recuperato e restaurato, con un patrimonio figurativo straordinario e meravigliosamente conservato, databile al sesto secolo, per quanto riguarda la maggior parte delle icone di santi dipinte nelle nicchie, ma con interventi di settimo e ottavo secolo per il resto. Segue un’importante discussione di alcuni dei principali testi relativi alla dottrina delle immagini nell’ambito della controversia iconoclasta, tra cui un peso particolare hanno le definizioni del Concilio di Nicea II (787), spesso trascurate, mal comprese o mal tradotte negli studi sul tema. Le precisazioni qui espresse sono di grande interesse, anche se dispiace che, anche in questo caso come in tutto il volume, i testi originali non siano riportati e al massimo pochi termini greci siano translitterati. Pur comprendendo l’esigenza di allargare la platea dei potenziali lettori, un volume di questa importanza e l’acribia filologica dell’autore avrebbero richiesto che i testi originali venissero riportati almeno in nota.
L’ottavo capitolo è dedicato infine agli aspetti tecnici della pittura – ma su questo valgono le riserve espresse a tale proposito trattando l’introduzione – e a istituire un legame con l’arte dei periodi bizantini più avanzati fino al Trecento italiano. Questa “coda” su periodi assai successivi, tuttavia, non sembra indispensabile all’economia del volume.
In sintesi si tratta di un’opera di grandissima importanza, che servirà a lungo da punto di riferimento per studiosi di discipline diverse, dall’evo antico al periodo bizantino. La quantità e qualità di dati nuovi presentati è impressionante e lo stesso vale per la qualità della documentazione e delle illustrazioni. L’argomentazione costringe a ritornare in maniera originale su concetti dati per scontati restituendo loro freschezza e interesse. Allo stesso tempo, però, la lettura richiede un vigile senso critico: oltre alle osservazioni più puntuali sopra proposte, resta un problema di metodo poiché sembra che Mathews non sempre distingua a sufficienza tra un livello antropologico e uno più propriamente religioso. Ci sono infatti elementi, che potremmo definire linguistici in senso lato, o se si vuole semiotici, che si mantengono nel passaggio tra religioni tradizionali e cristianesimo, ma che non necessariamente vanno considerati come spie di continuità religiosa o per lo meno non senza una serie di distinzioni e di cautele, per non rischiare di ridurre la dimensione religiosa a un indistinto senso del “numinoso”. Così come non stupisce il fatto di ritrovare negli autori cristiani il distico elegiaco, le forme della retorica ciceroniana e perfino i loci della tradizione classica, allo stesso modo è naturale che gli schemi iconografici utilizzati nell’arte classica ed egizia – e quindi anche per la raffigurazione delle divinità tradizionali – si ritrovino impiegati per elaborare l’iconografia paleocristiana, ma il fenomeno va visto senza limitarsi troppo strettamente al corpus delle tavole dell’Egitto tardo, pure importantissime, e all’immaginario divino.
Sommario
Introduction. The survival of ancient panel paintings, pp. 9-27 Sites of discovery, places of cult, pp. 29-55 Panel paintings in the primary sources, pp. 57-83 Restructuring and Hellenizing the Egyptian pantheon, pp. 85-129 Icon stories and visions, pp. 131-151 The iconography of Mary, pp. 153-169 The cult of Templon icons in Constantinople, pp. 171-193 Egyptian icon cult and the decree of the Council of Nicaea II, pp. 195-215 Christian art, east and west, pp. 217-237 Appendix A: Pigment identification, p. 238 Appendix B: Media analysis, p. 239 Appendix C: Corpus of Panel Paintings from ancient Egypt, p. 241
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Éditeurs : Lorenz E. Baumer, Université de Genève ; Jan Blanc, Université de Genève ; Christian Heck, Université Lille III ; François Queyrel, École pratique des Hautes Études, Paris |