Gage, Frances: Painting as Medicine in Early Modern Rome. Giulio Mancini and the Efficacy of Art, 8" × 10", 248 p., 48 color/18 b&w ill ISBN: 978-0-271-07103-9, 89.95 $
(The Pennsylvania State University Press 2016)
 
Compte rendu par Daniela Simone, Università di Bologna
 
Nombre de mots : 1686 mots
Publié en ligne le 2018-09-21
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Attraverso una disamina dettagliata di fonti di varia natura- dalle epistole ai testamenti, dai trattati di medicina ai poemi letterari-, l’autrice compie un viaggio nella Roma del XVII secolo, immergendosi in alcuni degli aspetti identificativi della cultura del periodo. La società dell’epoca è mutevole, variegata e fondata su concezioni che spesso possono addirittura apparire in antitesi fra loro ma la verità è che il Seicento è un secolo di contraddizioni, come un prisma sfaccettato dai riflessi cangianti. Cogliere appieno la sua portata, abbracciare esaustivamente tutti i suoi aspetti è davvero arduo e forse neppure possibile; la nostra non è che una conoscenza parziale data anche la perdita di molte delle testimonianze e dei documenti prodotti.

 

         Giulio Mancini è una delle figure più emblematiche di un determinato sentire, di quella cultura che caratterizza indelebilmente il primo trentennio del secolo; nel bene e nel male egli ha contraddistinto e indirizzato lo svolgersi degli studi storico critici, ha condizionato gli sviluppi del collezionismo e della stessa storia dell’arte.  Si è discusso ampiamente, anche di recente, se la portata delle sue riflessioni, se l’esposizione delle sue teorie, sia stata effettivamente innovativa o semplicemente quella meglio preservatasi fino ai giorni nostri.

 

         Certo è che il Mancini ha ben chiari i rapporti clientelari che si intrecciano nella Roma papale. Uomo del suo tempo, il medico senese riesce a costruire attorno a se una rete di intendenti, artisti, mecenati, cardinali ed eruditi legati fra di loro a vario titolo e accomunati da interessi vivaci ed eclettici. Così non è infrequente trovare nella sua cerchia, ma così come in quella di altri circoli, l’eminente cardinale affascinato dall’alchimia, dall’astrologia o attratto da pratiche che sfiorano l’esoterismo. Ma questo perché nella complessità del Seicento non vi sono dicotomie a priori, non vi sono rigidi confini invalicabili né tanto meno l’etica e la morale percorrono binari ben prestabiliti. Così, la stessa carriera professionale di Mancini è costellata da attività che ad un primo sguardo sembrano non avere molto in comune fra loro; dagli esordi universitari a Padova il Mancini si divide tra gli studi medici, gli interessi letterari e il ruolo di agente per conto di figure del suo entourage familiare. Uno degli scopi dell’autrice è proprio quello di tracciare convincentemente il filo conduttore tra gli interessi manciniani, traccia che è fondamentale seguire per comprendere più in profondità la sua opera e le implicazioni che ne conseguono. Le sue Considerazioni sulla Pittura, il Del’ honore, il Della Ginnastica, della Musica e della Pittura, non hanno un approccio univoco rispetto le tematiche che trattano ma sono testi che oggi potremmo scherzosamente definire interdisciplinari; la medicina è trattata scientificamente ma non ci si preoccupa di affiancarvi concezioni che nascono da superstizioni piuttosto che da prove fondate. L’arte è diletto per la mente e lo spirito, ma è anche manifesto del proprio rango sociale così come può influire sulla nascita di un erede maschio e in buona salute. Alcune asserzioni che oggi possono far sorridere sono però la  linfa che ha animato e mosso le azioni ed i pensieri per secoli, concezioni che hanno determinato scelte e giustificato decisioni. E così come non è possibile ridurre ad una definizione semplicistica il Seicento non è pensabile racchiudere sotto un’unica etichetta i lavori del Mancini in particolare ma tutto il contesto culturale che gli gravita attorno in generale. Ed è un nuovo approccio quello che si prefigge l’autrice, una indagine che tenga conto appunto della globalità degli interessi del medico senese e della complessità del coevo panorama culturale, dove la filosofia e la fisiologia sono interdipendenti e la teologia informa l’anatomia. Se da un lato Frances Gage tenta di ridare credibilità alla morale dell’uomo Mancini, dall’altro propone una nuova visione dei suoi scritti artistici, nell’ottica di concezioni filosofiche e mediche che spesso esulano da postulati estetici.

 

         L’autrice tenta di ricostruire il terreno nel quale nasce e si sviluppa il concetto di godimento estetico dell’opera d’arte, ripercorrendo alcuni degli assunti cardine del Rinascimento fino a vagliare l’impatto del Concilio di Trento sulla diffusione delle arti, dimostra l’impossibilità di netta scissione tra oggetto di culto e oggetto d’arte ed evidenzia come nel momento in cui si delinei una precisa volontà estetica alla base delle raccolte artistiche e della pratica del collezionismo conviva contestualmente un interesse devozionale per l’immagine: rivestita ancora di poteri miracolosi, taumaturgici e di funzioni apotropaiche. Per tutto il Cinquecento ed ancora nel secolo successivo e dunque nei circoli culturali del Mancini, resta viva l’attribuzione di fini educativi e morali ai dipinti, alle sculture, alle immagini in generale. In questo senso le teorizzazioni del Mancini, soprattutto quelle espresse nelle Regole per compare, collocare e conservare le pitture, non hanno un taglio del tutto innovativo ma hanno le proprie radici in un contesto ben delineato e consolidato. Ma quanto l’organizzazione delle collezioni e la disposizione delle opere suggerita dal Mancini è dettata da fini terapeutici ed etici- o costruita attraverso le sue inclinazioni mediche- più che da fini decorativi ed estetici? Quanto il suo gusto artistico, o la scelta di particolari soggetti in favore di altri, è stato veicolato da convinzioni terapeutiche? A queste ed altre domande l’autrice fornisce delle risposte vagliando appunto quelli che sono gli interessi del medico senese; analizza il carteggio con il fratello, quelli avuti con gli altri familiari e conoscenti e profila il ruolo che rivestì nella società romana a partire dagli anni venti. La studiosa non manca di ricostruire un contraltare alla cultura del Mancini e di indagare gli studi dei medici, dei filosofi, degli eruditi a lui coevi o con i quali il Mancini ha avuto modo di entrare in contatto. Il panorama che ne consegue è abbastanza completo e serve a meglio contestualizzare le concezioni del Mancini. Così, appare chiaro che Mancini ha consapevolezza dell’efficacia delle immagini ed in taluni casi intende i dipinti come aiuti medici più che per il valore estetico intrinseco. Mancini confida nello stimolo che le opere d’arte possano produrre su un osservatore e come ciò che viene immagazzinato dagli occhi viene assimilato dalla mente e conseguentemente anche dal corpo. Ad esempio, nella sua veste da medico, sebbene metta le mani avanti sostenendo che non vi siano evidenze scientifiche a riguardo, sconsiglia alle future madri di tenere nella propria camera da letto opere che raffigurino nani, personaggi strani o affetti da strane patologie, onde evitare che attraverso l’immaginazione i genitori possano imprimere “nel lor seme, come in parte propria, una simil constitutione come s’è impressa per la veduta di quell’oggetto et figura”. Mancini suggerisce quale immagini  sono più indicate per differenti tipologie di infermità e che possono venire in aiuto di colui che ne fruisce la vista, alleviandone il malessere: il paesaggio sarà da preferire per coloro che soffrono di una salute cagionevole, i dipinti allegri (e tra questi include anche le lascive) avranno un effetto terapeutico sui malinconici e sul bilanciamento degli umori.

 

         I suggerimenti del Mancini quindi sulla disposizione dei dipinti lungo le pareti delle dimore nobiliari seguono due direttrici, una bene consolidata, del fine istruttivo delle opere e del loro valore in quanto esempi di virtù, l’altra più esclusiva potremmo dire che lega i quadri univocamente al loro possessore: in una sala di rappresentanza i soggetti da esporre saranno simili e adattabili ai vari collezionisti, nelle camere da letto e nelle stanze private la scelta sarà dettata dalla specificità dei bisogni del padrone di casa. In quest’ottica sarebbe interessante poter comprendere quanto e in quali casi la scelta di dipinti da parte dei collezionisti sia stata dettata dal gusto estetico e quanto piuttosto sospinta da interessi terapeutici.

 

         Il ruolo protettivo e miracoloso delle immagini è ampiamente riconosciuto nella sfera pubblica, nel 1622 ad esempio Papa Gregorio  XV promuoveva l’erezione di un altare in Santa Maria della Vittoria per collocarvi la pala della Sacra Famiglia, immagine miracolosa che si credeva avesse portato alla vittoria sui protestanti, e comunque da anni si continuava a celebrare l’immagine della Madonna con Bambino in Santa Maria in Aracoeli, che aveva liberato la città dalla peste nel VI secolo. Ciò conferma che il ruolo assegnato alle opere d’arte dal Mancini trovava un  sostrato molto forte e nello stesso tempo un ambiente particolarmente ricettivo. Le istruzioni fornite ai suoi malati o semplicemente a chi voleva garantirsi una vita  sana e longeva trovano vasto seguito. 

 

         E’ invero che lo studio della Gage fornisce spunti interessanti sebbene alcune ipotesi meritino ulteriori approfondimenti; la studiosa si concentra principalmente su due categorie di opere quali meglio esemplificative delle concezioni del Mancini: la pittura di paesaggio e quella di storia.

 

         Certamente i paesaggi sono intesi dai tempi di Leon Battista Alberti come dipinti che portano diletto e ristorano l’animo di chi li guarda ma necessita di trovare ulteriori connessioni, ulteriori prove l’eventuale legame esistente tra questa concezione e i suggerimenti del Mancini sulle specie arboree e gli elementi vegetali che non dovrebbero mai mancare e da inserire in tali pitture. Allo stesso modo sembra funzionare poco l’esempio della commissione dell’Erminia tra i Pastori al Carracci da parte di Monsignor Giovan Battista Agucchi, perché se è vero che il soggetto deve rispondere al desiderio dell’erudito di ritirarsi in una vita contemplativa e trovare ristoro dalle fatiche della corte papale non si può prescindere dalla volontà del prelato di stabilire una intima connessione con il poema del Tasso e il dettagliato programma iconografico mira inequivocabilmente ad assicurarsi questa interdipendenza; allo stesso modo la scelta delle specie vegetali  da inserire non segue una inclinazione terapeutica ma piuttosto cade inizialmente su quelle che meglio si sposano con l’ambiente entro cui si svolge la storia per poi finire su quelle meglio riconoscibili. Al di la di queste e di alcune affermazioni che possono apparire un po’ forzate lo studio di Frances Gage è di gran valore, e contribuisce ad aggiungere un ulteriore tassello alla conoscenza e comprensione del Seicento e di una figura così di spicco e fondamentale come quella di Giulio Mancini.