Galbois, Estelle: Images du pouvoir et pouvoir de l’image. Les "médaillons-portraits” miniatures des Lagides, (Collection Scripta antiqua, 113), 287 p., ISBN : 978-2356132260, 25 €
(Editions Ausonius, Bordeaux 2018 )
 
Compte rendu par Massimiliano Papini, La Sapienza Università di Roma
 
Nombre de mots : 3575 mots
Publié en ligne le 2020-06-18
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il libro è la versione rivista di una tesi di dottorato sostenuta nel 2007 a Parigi, condotta sotto la guida di François Queyrel e Fritz-Heiner Mutschler e nelle intenzioni originarie finalizzata a raccogliere le raffigurazioni di dimensioni piccole (o piccolissime) dei sovrani ellenistici e degli insigni personaggi della Repubblica e della prima età imperiale, una categoria spesso negletta ma analogamente idonea per esaminare i nessi tra arte e potere. Il volume, che ha già ricevuto recensioni positive (M.E. Gorrini, in Bryn Mawr Classical Review 1, 29, 2020; E. Prioux, in Aitia 9, 1, 2019, con qualche tenue riserva), si articola in tre parti nevralgiche e ha un taglio più contenuto: anche sulla scia degli interessi di Queyrel (il quale ha di nuovo illustrato gli svolgimenti della ritrattistica tolemaica in O. Palagia [ed.], Handbook of Greek Sculpture, Berlin-Boston 2019, pp. 194-224), la scelta ha privilegiato le rappresentazioni della dinastia lagide entro “medaglione”, ossia in una cornice per lo più ovale o circolare, meglio indagabili rispetto ai Seleucidi o agli Attalidi. La decisione facilita la composizione di un corpus di centotrentotto documenti di fattura perlopiù curata, di grande ricchezza iconografica e di provenienza innanzitutto dal regno lagide. Le effigi arrivano sino alla base del collo (quarantadue volte) o sono collocate su busti (in novantasei casi) e sono in maggioranza viste di profilo e isolate; risaltano opere come la sardonica al Kunsthistorisches Museum di Vienna (cat. G10bis, per la quale si veda anche E. Zwierlein-Diehl, Magie der Steine. Die antiken Prunkkameen im Kunsthistorischen Museum, Wien 2008, pp. 56-73,238-247, n. 1) o la lastrina rettangolare in bronzo (cat. M18) di ignota provenienza (e funzione incerta) oggi alla Bibliothèque nationale de France, con due personaggi di prospetto variamente identificati (Tolemeo II-Helios e Arsinoe II-Iside per Queyrel, seguita da Galbois) – la inconsueta iconografia del manufatto attrae più volte l’autrice. Sotto l’etichetta di “médaillons-portraits” si radunano supporti eterogenei anche per materiali: in primo piano si trovano le cretule e la glittica; seguono gli anelli in metallo, oro, argento, bronzo e osso; le coppe con emblemata (due esemplari del “Ptolemy Group” di produzione ateniese dell’inizio del III sec. a.C. oppure le teste in faïence a forte rilievo forse appartenenti a coppe); gli ornamenti di cofanetti e klinai; i medaglioni in faïence; gli specchi a scatola; infine, i coperchi di pissidi in metallo e in terracotta. L’adozione di quell’etichetta, per quanto virgolettata (ma le virgole sono scomparse nella summenzionata recensione di Gorrini), non pare del tutto felice per riunire i disparati manufatti, ai quali non può che corrispondere una pluralità di contesti d’uso e di funzioni. Gli oggetti sono elencati in un catalogo suddiviso per materiali che, dopo alcune premesse metodologiche, contiene schede essenziali, dotate di una descrizione sommaria e non sempre accompagnate dalle relative fotografie. Sebbene il lavoro si concentri sull’iconografia lagide, non mancano aperture verso altri ambiti geografici e culturali, come soprattutto la Macedonia e il regno pergameno, o sguardi su differenti periodi storici, come l’età imperiale (pp. 75-77); confronti sono pure instaurati con pratiche di età moderna (per esempio, pp. 21, 75, 81). Inoltre, sono citate le rappresentazioni di sovrani in piccolo formato ma di altro genere, come le testine in avorio appartenenti a klinai sia dalla “tomba di Filippo II” sia da altri sepolcri macedoni (pp. 83-84): in questo e in ulteriori casi, che implicano sì un arricchimento del volume ma, al contempo, un allontanamento dal suo argomento precipuo, sarebbe stata necessaria l’indicazione di qualche titolo bibliografico in più. Galbois dedica rapide annotazioni ad altre immagini di taglia ridotta, tra le quali l’eikonion di Temistocle nel naos di Artemide Aristoboule (sulla cui natura il dibattito resta aperto, tanto che, pur senza grandi motivazioni, per qualche commentatore si doveva trattare di un pinax dipinto) e il ritratto in bronzo da Cirene identificato con Arcesilao IV; non può mancare il richiamo al capolavoro in miniatura di straordinaria precisione della mano di Teodoro, la minuscola quadriga poi trasferita a Praeneste, che, non a caso esaltata da Posidippo di Pella, aveva anticipato il gusto ellenistico per il dettaglio rifinito in una forma minuscola tipico anche dell’epigramma. Degna di nota è poi la frequenza a partire dal II sec. a.C. dei medaglioni con ritratti di Demostene, Eschine, Euripide, Teofane di Mitilene e Catone Uticense, già esaminati dall’autrice in una tesi di laurea inedita svolta presso l’università di Poitiers.

 

         L’introduzione si apre con l’interrogativo ambizioso “qu’est-ce qu’un portrait?”, un tema sul quale la stessa autrice nel 2013 ha incentrato due contributi in forma più estesa. Qui le considerazioni sono più sbrigative, a partire dalla citazione dell’epigramma sempre di Posidippo che esalta le qualità mimetiche e la somma diligenza d’esecuzione della statua di Filita di Cos. Le testimonianze antiche sottolineano come le immagini sin dal periodo arcaico – e in maniera sempre più intensa dal tardo IV sec. a.C. – obbediscano alla aletheia/similitudo e come intendano rendere presenti i personaggi, fungendone da duplicati o sostituti: tra le varie fonti, spicca nella vita plutarchea la reazione di Alessandro al cospetto di un grande andrias di Serse riverso a terra, verso il quale egli pronunciò delle parole come se si rivolgesse a un vivo. Il ritratto di per sé non è però riducibile a un mero fatto di somiglianza, ma è una costruzione che incarna un’ideologia, il che per l’autrice vale ancora di più per i sovrani: «le portrait royale n’est pas un portrait réaliste», secondo la troppo risoluta affermazione leggibile a p. 151. Poiché i dinasti possiedono un corpo naturale, uno politico e uno divino, Galbois si avvale persino della teoria dei due corpi del re di Ernest H. Kantorowicz – ma ormai dagli anni Settanta del secolo scorso nell’antichistica si tendono a evidenziare ruoli sociali e messaggi politici delle antiche effigi. Tuttavia, la questione è ben più complessa, e per una messa a punto intorno agli intensi scambi tra le sfere del reale e dell’arte in relazione alla ritrattistica si raccomandano almeno due capitoli del libro di T. Hölscher, Visual Power in Ancient Greece and Rome between Art and Social Reality, Oakland 2018, pp. 151-201, dove, a  p. 189, si legge: «…Indeed, in the expanding and fruitful scholarship during the last generation on Greek and Roman portraiture the phenomenon of the individual has practically fallen into oblivion. Semiotic approaches, instisting on the construction of meaning in the medium of visual art by arbitrary signs, have increased the disregard of references to (individual) reality in art. Nevertheless, individual portraits exist, and as historians we have to cope with them»; lì sono rilevanti anche i ragionamenti a p. 210, sull’uso moderno del termine “realismo” nel senso – fuorviante – di pura obiettività. D’altronde, anche l’incisore Dioscuride è lodato per avere espresso la imago di Augusto simillime, come sostiene Plinio il Vecchio. Certo, sulla realizzazione di un’immagine influiscono tanti fattori, quali i soggetti, le funzioni e le singole inclinazioni degli artefici, esemplificabili grazie a un brano della Poetica di Aristotele con almeno tre fondamentali possibilità, ricordato dalla studiosa. Il punto di forza del suo lavoro non risiede però nell’identificazione dei personaggi, non facile per i commentatori moderni perché i profili possono ingannare, tanto più se in miniatura e se non fortemente personalizzati, al di là poi delle somiglianze dovute alla parentela e rimarcate in chiave di continuità dinastica (per le ambiguità e la «idéalisation» di talune raffigurazioni si veda pp. 162-163). Può capitare dunque che l’autrice nel ventaglio delle controversie attribuzionistiche, di cui danno conto le schede finali, nel testo scelga invece un’opzione senza spiegazioni aggiuntive: per esempio, si veda l’impronta in gesso da Memphis (cat. P 7), data per effigie di Tolemeo I, quantunque gran parte delle voci elencate nella relativa scheda (tre su quattro) risulti essersi espressa a favore di Tolemeo III. Talvolta, come nella scheda relativa all’intaglio in granata con un’effigie di solito identificata con Berenice II (cat. G 14), ella si discosta dall’opinione corrente a favore di Arsinoe III, ma senza approfondimenti. Semmai, più avanti, nella seconda parte, il libro (pp. 91-92) si confronta con i possibili modi di individuazione dei ritratti da parte dei fruitori antichi, i quali, a tal fine, avrebbero necessitato di una visione ravvicinata dei sovrani, in occasione delle rare apparizioni pubbliche ad Alessandria o nella chora, oppure di averne memorizzato i lineamenti grazie alla diffusione di monete e statue. Eppure, i proprietari di simili oggetti con piccoli ritratti potevano avere un approccio non paragonabile a quello odierno, abituato a stabilire comunanze iconografiche tra media figurativi; non è così escludibile che a volte potesse bastare all’acquirente sapere che si trattava della rappresentazione di quel determinato sovrano, anche al di là della riconoscibilità effettiva o meno del viso da parte sua. Se dalla tradizione si apprende la preferenza di Alessandro per Pyrgoteles accanto a Lisippo e Apelle, quali sono le ragioni che hanno sinora provocato la ripetuta noncuranza per i ritratti in miniatura anche in taluni importanti libri focalizzati sulla imagerie dei sovrani? Galbois adduce più motivi: la piccolezza appunto; la dispersione delle pubblicazioni e delle opere in musei principalmente europei e americani; la frequente assenza di informazioni puntuali sul luogo di rinvenimento; le sporadiche fonti letterarie antiche. Alcune cause valgono però anche per molte produzioni (incluse quelle più studiate), ed è semmai la frammentazione delle competenze, colpevole di avere scomposto la realtà antica in tante “nicchie”, ad avere indotto a prediligere la scultura di dimensioni grandi o naturali a scapito delle “arti decorative” e suntuarie, di norma indagate da un più esiguo gruppo di specialisti, tra i quali conta Dimitris Plantzos, mentre con i ritratti in miniatura come «Propagandamittel» si è cimentata Renate Thomas nel 2007; a titolo esemplificativo, informazioni sulla capillare diffusione dell’immagine di Arsinoe III sono anche in E. Ghisellini, Due ritratti di bronzo tolemaici nel Museo Archeologico di Firenze, in ArchCl 55, 2014, pp. 240, 244-246). Se poi si distingue E. Gagetti, Preziose sculture di età ellenistica e romana, Milano 2010, sulle statuette in materiale prezioso “a tutto tondo”, la cui introduzione si sofferma su una preliminare definizione di “piccolo formato”, la pubblicazione esemplare nel 2015 delle numerose cretule scoperte a Nea Paphos da parte di Helmut Kyrieleis, più scrupoloso nelle identificazioni delle effigi, costituisce un’anticipazione notevole anche per questo libro.

 

         Dopo il preambolo sui materiali e sui supporti, nella prima parte Galbois esamina rapidamente le ricorrenze dei “médaillons-portraits” nella decorazione architettonica, che sono però tutt’altra cosa, come i clipei scoperti nella sala H del ginnasio di Pergamo o a Delo, nel monumento cd. di Mitridate a Delo o nell’heroon di Calidone. Che l’origine dei clipei in marmo sia specificatamente pergamena per il suddetto ritrovamento (p. 49) pare un assunto ingiustificato, e risultano scontate le conclusioni: i “médaillons-portraits” trattati dal libro non dipendono da clipei scolpiti o dipinti, non sono rappresentazioni abbreviate e adattate di statue, e, infine, neanche è opportuno stringerne troppo le relazioni con le effigi monetali. Tale eterogenea categoria di immagini, possiede le sue peculiarità senza per forza seguire modelli concepiti nelle officine al servizio dei re ad Alessandria; d’altronde, come sottolinea l’autrice sulla scia di John Ma, neppure la statuaria, data la pluralità dei luoghi e delle committenze, ricalca un unico tipo “ufficiale” (p. 92).

 

         La seconda parte si sposta sui contesti e sulle funzioni dei manufatti, con una distribuzione non del tutto armonica degli argomenti, condizionata, in modo inevitabile, dalla loro varietà, e analizza dapprima i ritrovamenti in archivi di natura ufficiale e privata, come quelli in plurime località dell’Egitto e, al di fuori, a Callipolis, a Nea Paphos e ad Artachate. È lodevole il tentativo di combinare le opere con gli usi attestati dalle poche informazioni desumibili dalle fonti letterarie: nel caso delle relazioni diplomatiche, è famosa l’offerta di Tolemeo IX Soter II a L. Licinio Lucullo di un prezioso smeraldo legato in oro su cui era inciso il suo ritratto – l’unica ragione che spinse Lucullo ad accettare il dono. In aggiunta, Galbois indaga a lungo il ruolo delle effigi in miniatura nella cornice delle varie forme di culto per i sovrani lagidi, negli ultimi decenni sempre più esplorate della critica anche per l’indagine dei rapporti tra il potere centrale e i vari livelli delle comunità locali (per esempio, si veda S. Pfeiffer, Herrscher- und Dynastiekulte im Ptolemäerreich. Systematik und Anordnungen der Kultformen, München 2014). A parte quelle corone sacerdotali che, attestate dai documenti epigrafici, prevedevano al centro l’inclusione di bustini, per le testine in faïence si ipotizza una funzione affine in ambito “privato” alle “oinochoai delle regine” (delle quali la studiosa si serve anche per altri motivi): sulla scia di un saggio preliminare di Sophia Aneziri del 2005, qualche giusta osservazione è riservata all’ambiguità dell’aggettivo “privato” in relazione alle attività di quell’ambito cultuale e ai loro attori. Non sono da escludere utilizzi legati all’espressione di riconoscenza e di lealtà, come per le coppe a emblema ateniesi, il che vale anche per altri oggetti impiegati nel milieu “domestico”. Alla maniera della “Alessandromania” già supposta tra l’altro per i medaglioni di Tarso e di Aboukir con il ritratto di Alessandro Magno nel III sec. d.C., Galbois intravede manifestazioni di “Lagidomania” negli specchi a scatola scoperti a Corinto, Ermione e forse a Creta oppure nel cofanetto pompeiano “aux bustes divines” da Pompei valorizzato da Queyrel nel 1984; per i ritratti tolemaici che, quando fissati ai fulcra, subentrano alle più consuete immagini della cerchia dionisiaca e provengono da aree al di fuori del regno tolemaico, è concepibile anche un’allusione alla loro tryphe. L’autrice dedica poi più pagine alla sfera funeraria, dalla quale però all’interno della sua raccolta deriva soltanto cat. M3 (un vaso in miniatura in piombo dalla necropoli di Hadra, verosimilmente con Tolemeo I e Berenice I), benché non siano dimenticati gli anelli in osso e in metallo in tombe a Cipro nonché, più singolarmente, nell’area del Ponto Eusino. Dopo i contesti, si discutono le condizioni di fruizione delle opere trattate, mentre committenti e acquirenti hanno un profilo sfuggente, quantunque qualche aiuto venga dai documenti papiracei (élite, il vocabolo spesso usato come formula di comodo dagli archeologi, nasconde realtà antiche ben più articolate). Il quesito relativo alla diffusione dei ritratti in miniatura in rapporto alle impronte e ai calchi in gesso («des modèles exposées dans les ateliers pour guider l’acheteur?») da Memphis e dal “tesoro” di Begram non è risolto in maniera molto perspicua.

 

         La terza parte inizia con i principi generali di rappresentazione dei sovrani, con una discussione sulle particolarità dei volti dei re e, più raramente, delle regine, trasmesse dalle fonti letterarie. Sono così richiamati dei brani di Plutarco sull’aspetto reale dei sovrani (Antigono Monoftalmo, Cleopatra VII): il biografo tratteggia ritratti parziali o superficiali, perché nelle sue Vite contano maggiormente le gesta e le qualità morali degli uomini illustri, e tal proposito è rievocato un giudizio formulato nel 1942 da Ernest Babelon (ma sull’impiego da parte di Plutarco delle statue iconiche si veda la bibliografia citata da chi scrive in Similitudinem effingere ex vero: immagini e biografie in età imperale, in B. Borzì, L. Scanu [a cura di], Inclusioni culturali. Arte e architettura italiana in dialogo con altri mondi, Padova 2019, pp. 34-35, nota 33). Seguono diverse riflessioni sulla sfera dell’arte e sulle stilizzazioni dei volti dei sovrani (ma è naturale che essi non siano effigiati malati o con segni di età resi con eccessiva crudezza), e non manca una sezione riguardante soprattutto l’obesità di certi re, Tolemeo II, III, IV, o altri appartenenti alla fase più tarda della dinastia: una positiva esibizione, come noto, di prosperità – seguita anche da una parte rilevante della imagerie etrusca funeraria palesemente influenzata da quella tolemaica, non di rado ignorata dagli archeologi classici. Più significativi risultano i paragrafi con la descrizione delle vesti e delle insegne che compongono il costume dei re lagidi sui ritratti in miniatura, come il diadema dalle estremità talora frangiate, la (rara) kausia, la clamide: ciò consente il riscontro di divergenze tra le varie classi di rappresentazione, perché la kausia o la kausia diadematophoros, che esaltano le origini greco-macedoni della dinastia, sono estranee alle monete e al repertorio scultoreo. È attestata l’uniforme militare, almeno per l’età tardo-ellenistica, come sulla cretula oggi a Toronto forse proveniente da Edfu (cat. A14), con la testa eventualmente di Tolemeo X quasi di prospetto, elmata e accompagnata da scudo e lancia. Nel costume della basilissa si inserisce la trattazione delle pettinature, quali la “Artemispielart” o, più spesso, l’acconciatura a melone, stimata «senza dubbio» un’invenzione introdotta da Prassitele sulla scia di Alain Pasquier, benché si tratti di un’asserzione malcerta, come già segnalato da Prioux; acconciatura che non è d’altronde classificabile come uno strumento di “propaganda” lagide (oltretutto sull’applicazione della nozione di “propaganda” alle molteplici rappresentazioni dei Tolemei Galbois a p. 150 si dice a ragione perplessa). La regina può poi comparire diademata e velata e, nelle riproduzioni non troncate al collo, con chitone e himation. Meritano spazio anche le insegne faraoniche (corone per i sovrani, mentre sono più marginali simili testimonianze per le regine), che, estranee ai conî, manifestano l’ibridazione tra differenti tradizioni culturali e figurative. La rassegna si conclude con gli attributi che manifestano i diversi aspetti divini della regalità ed è anticipata da due pagine sull’associazione tra Lagidi e divinità, un fenomeno altresì ben analizzato, sia in chiave storico-religiosa sia in chiave iconografica: alla fine del volume l’utile tabella 1 consente una quantificazione delle assimilazioni nel dossier. L’intreccio tra le sfere del reale e dell’arte è marcato, perché, ricorda l’autrice, i sovrani potevano travestirsi da divinità, come, al di là di Alessandro, attestato tra i Lagidi almeno per Tolemeo VIII e Cleopatra VII. Sui “médaillons-portraits” maschili si adoperano le corna di Ammone, l’egida, la corona radiata di Helios, spesso gli attributi di Dioniso, isolati o associati (mitra, nebride, corona di foglie di vite, talora corna taurine) e lo scalpo di elefante, che però non è strettamente da considerare un emblema divino, come ammette Galbois, più incline a vedervi un «symbole de légitimation du pouvoir» in virtù dell’effigie di Alessandro al dritto dei tetradrammi emessi dalla zecca di Alessandria (sullo scalpo di elefante si vedano S.G. Caneva, Arsinoe divinizzata al fianco del re vivente Tolemeo II: uno studio di propaganda greco-egiziana (270-246 a.C.), in Historia 62, 3, 2013, pp. 298-299; K. Ehling, Dionysischer Indieneroberer. Alexander mit dem Elefantenskalp, in R. Gebhard, E. Rehm, H. Schulze [a cura di], Alexander der Große. Herrscher der Welt, Darmstadt-Mainz 2013, pp. 165-169; semmai, l’elefante rimanda anche al ritorno trionfante di Dioniso dall’India, centrale nell’esaltazione in chiave dinastica del dio ad Alessandria, come si evince anche dalla celebre processione voluta dal Filadelfo). Talora una stella adorna la sommità del cranio del re, al livello della parte sommitale del diadema o sulla kausia diadematophoros, perlomeno per gli ultimi Lagidi sulle cretule da Nea Paphos e Edfu, mentre qualche volta compaiono gli attributi di Eracle, uno dei capostipiti della dinastia lagide (come sul medaglione di bronzo da Galjub cat. M19, per il quale si veda anche E. Ghisellini, art. cit., pp. 230-231) e di Ermes (sulle forme di assimilazione dei Tolemei a quest’ultimo dio e sul suo culto in Egitto, sia nella sua veste greca sia in quella greco-egizia di Ermes-Thoth, si veda di prossima pubblicazione il saggio di E. La Rocca, Il mosaico della Casa di Aion a Nea Paphos, 3. Hermes e i Tolemei, c.d.s.). Anche le regine sub speciae deae assumono attributi quali la stephane, considerata funzionale alla visualizzazione di un rapporto con Era in abbinamento al velo (ma basta per una stringente associazione con quella dea?); altri attributi rimandano ad Afrodite, Artemide, Atena, Demetra e, come ovvio, Iside (per la cretula a Toronto si veda anche C.M. Havelock, A portrait of Cleopatra II (?) in the Vassar College Art Gallery, in Hesperia 51, 1982, p. 274; per il legame tra i Tolemei e la coppia Serapide-Iside in ambito “privato” si veda da ultima E. Fassa, Sarapis, Isis, and the Ptolemies in Private Dedications. The Hyper-style and the Double Dedications, in Kernos 28, 2015, pp. 133-153). Le osservazioni finali di questa parte si concentrano sulle rare immagini ibride, caratterizzate da una combinazione delle due tradizioni iconografiche, greca ed egiziana, con qualche adattamento nei ritratti in miniatura: il sovrano può comparire con gli attributi di Arpocrate, con la corona di Osiride, con la corona hem-hem (sulle cretule di Nea Paphos), mentre due casi, quali l’intaglio in vetro del British Museum (cat. V11) e la cretula al Museo Archeologico Nazionale di Atene (cat. A46), mostrano le regine rispettivamente con corona hem-hem e con spoglia di avvoltoio, corna di ariete e corona hathorica. Sarebbe stato interessante qualche parallelo più insistito tra l’iconografia dei re e delle regine e le loro denominazioni divine desumibili da altri documenti – fonti letterarie, papiri, iscrizioni – e delineate per esempio per Arsinoe II (in merito al suo rapporto specie con Afrodite e Iside) da S. Caneva, Costruire una dea. Arsinoe II attraverso le sue denominazioni divine, in Athenaeum 103, 1, 2015, pp. 95-122.

 

         La sintesi conclusiva rinforza il valore dei materiali trattati e la necessità del libro, che, in definitiva, fornisce una panoramica utile dai risultati condivisibili. Galbois ha il merito di avere raggruppato una miriade di oggetti che, per quanto parte del “paesaggio visuale quotidiano” degli Antichi, continua a sfuggire a molti studiosi – ma non ai più avvertiti. Dopo lo studio di Kyrieleis sulle cretule di Nea Paphos, il volume concorre quindi a incrementare le conoscenze intorno all’imagerie lagide, rivalutando quelli che, a dispetto del formato ridotto, equivalgono a dei «véritables “miroirs des princes”».