Harlaut, Cécile - Hayes, John Z.: Pottery in Hellenistic Alexandria. Aux origines d’Alexandrie et de sa production céramique. Hellenistic pottery deposits from Alexandria, (Études Alexandrines, 45), 368 p., 434 Ill. en noir et blanc et 65 en couleur, ISBN : 978-2-490128-01-3, 40 €
(Centre d’Etudes Alexandrines, Alexandrie 2018)
 
Compte rendu par Carlo De Mitri
 
Nombre de mots : 2055 mots
Publié en ligne le 2019-04-28
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Come anticipato già nel titolo bilingue, il testo è nettamente suddiviso in due parti che non sono propriamente ben armonizzate, pur presentando entrambe grandi pregi.

 

         La prima parte del volume è redatta da Cécile Harlaut ed analizza i rinvenimenti ceramici provenienti da diversi contesti di scavo alessandrini in un periodo cronologico compreso tra la fine del IV e la metà del III secolo a.C. Nell’introduzione l’autrice indica i siti da cui provengono i contesti analizzati: si tratta di scavi urbani condotti nel centro di Alessandria in terreni adiacenti il Consolato Britannico ed il Cricket Ground; a questi si aggiungono i dati degli scavi realizzati presso l’isola di Nelson, a circa 20 kilometri ad Est di Alessandria, e nella necropoli di Plinthine, ubicata a circa 40 kilometri ad Ovest del centro alessandrino. Benché dunque si tratti di scavi differenti, il quadro della documentazione materiale è piuttosto omogeneo e soprattutto la suppellettile di produzione locale presenta analoghe caratteristiche tecniche e lo stesso repertorio morfologico, elementi che giustificano appunto un’analisi comparata. Lo studio analitico è suddiviso in tre parti, sulla base delle fasi cronologiche riconosciute. La fase 1, riferita all’ultimo terzo del IV sec. a.C., è presente soltanto negli scavi effettuati nell’area del Consolato britannico dove è stato indagato un settore dell’abitato la cui cronologia, grazie anche ai rinvenimenti numismatici, viene appunto fissata ai decenni finali del IV secolo a.C. Complessivamente lo studio si basa sull’analisi di 390 esemplari. La fase 2, primo terzo del III sec. a.C., è ben documentata in tutti i siti oggetto d’indagine ed anche il numero complessivo del materiale analizzato, pari a 413 esemplari, è il più cospicuo. Anche per questa fase il dato numismatico è un importante supporto alla datazione dei contesti analizzati. Infine la fase 3, attestata solo negli scavi dell’area del Consolato Britannico e con un numero modesto, ma non specificato, di individui, presenta una sicura datazione iniziale, 270/260 a.C.; quella di chiusura del contesto non è invece ben ma il rinvenimento di alcuni frammenti attribuibili alla Campana A, collocherebbe tale cronologia tra la fine del III e gli inizi del II sec. a.C.

 

         Per le prime due fasi, nella parte introduttiva, viene fornita la quantificazione dei macrogruppi funzionali che sono distinti: ovvero la ceramica fine, suddivisa in quella d’importazione ed in quella di produzione locale, e la ceramica d’uso comune, anch’essa bipartita in base alla produzione allogena o locale. Non è però ben chiarita la situazione riguardante altri gruppi ceramici, nelle note si fa riferimento alla presenza di contenitori da trasporto ma non si forniscono dati quantitativi, e soprattutto non si capisce per quale motivo le lucerne siano inserite nella ceramica fine. Altra annotazione è l’utilizzo di differenti denominazioni per indicare gli stessi oggetti, ad esempio lo stesso tipo di piatto viene definito ora “assiette à bord aplati”, ora “assiette à lèvre aplatie”; questa disattenzione, pur non inficiando la comprensione, crea un’inutile duplicazione di definizioni che non agevola la fluidità del testo. Ad eccezione di queste piccole riserve il catalogo è accurato e ben redatto.

 

         Per quanto concerne la fase 1 è interessante osservare come la totalità della ceramica fine, ben 195 esemplari, sia d’importazione. Si tratta in prevalenza di manufatti di tipo attico, anche se non è possibile stabilire un diretto collegamento con i centri produttivi greci perché il materiale qui attestato appartiene a tipologie è abbastanza diffuse in età ellenistica nell’intera area mediterranea e potrebbe anche appartenere ad officine “satelliti” che riproponevano i modelli attici.

 

         Sono invece quantitativamente inferiori le produzioni che si rifanno ad una derivazione rodia e cipriota. Si osserva anche in questa fase la timida comparsa di esemplari rivestiti da vernice rossa, dato che invece nella fase successiva diverrà uno degli elementi che caratterizzeranno gli oggetti di produzione locale. Per la ceramica d’uso comune, su un totale di 195 individui poco più di un terzo, pari al 36%, è d’importazione, e sembrerebbero appartenere esclusivamente alla ceramica da cucina. Anche se non è possibile definire i luoghi di provenienza sono stati distinti, in base alla caratteristiche macroscopiche, due gruppi differenti, il primo presenta affinità con il materiale di Cipro, il secondo con area microasiatica, in particolare con i manufatti realizzati a Cnido. Sono annoverate principalmente lopades e di chytrai, le stesse forme documentate anche in ceramica da cucina locale. Specificatamente locali sono le forme in ceramica comune; queste costituiscono le prime attestazioni di una industria manifatturiera locale di età ellenistica e, in base al repertorio morfologico documentato, si pongono  quasi in un punto di transizione tra la ceramica fine, di cui riprendono le forme, e la ceramica comune, per le caratteristiche tecniche quali l’assenza di  un rivestimento.

 

         Nella fase 2 appare evidente il profondo cambiamento che si attua  nell’ambito della distribuzione e realizzazione del vasellame in ceramica, ovvero il predominio delle produzioni locali, sia per le ceramiche fini, sia per quelle d’uso comune.

 

         Una tabulazione più efficace dei dati quantitativi avrebbe reso più significativo tale aspetto; infatti la quantificazione presentata è un po’ confusa ed anche ricavare i dati specifici alle singole produzioni, seppur generiche, è alquanto  macchinoso; comunque alla fine si riesce a definire che, per quanto riguarda la ceramica fine, su un totale di 209 esemplari, il 70% è costituito da produzioni locali; per la ceramica d’uso comune, su 204 esemplari, i manufatti locali sono pressoché esclusivi, attestandosi con una percentuale quasi del 95%.

 

         In relazione alla ceramica fine si evidenzia, nei manufatti locali, il passaggio ad un rivestimento in rosso, in anticipo rispetto alla “moda dilagante del rosso” che avrà il suo apice nel II-I sec. a.C. in altre aree, dapprima sempre ad Alessandria e nel Mediterraneo orientale, poi gradualmente si diffonderà anche in occidente. In base alle caratteristiche tecniche sono stati individuati due diversi raggruppamenti, argomento questo che potrebbe sottintendere l’esistenza di diversi luoghi di produzione in un territorio circoscritto nel raggio dei siti oggetto di indagine.

 

         Questa situazione appare analoga con quanto avviene, seppur con discrasie cronologiche variabili, in numerosi siti del Mediterraneo ellenistico con l’acquisizione di competenze manifatturiere che determinano il successo quantitativo delle produzioni ceramiche locali rispetto a quelle d’importazione, ma anche una standardizzazione ed una semplificazione di forme e tipi.

 

         Estremamente interessanti, anche se rischiano di non essere ben valorizzati, i tre approfondimenti posti al termine dell’analisi della ceramica fine della fase 2. Il primo riguarda una breve analisi sui depositi funerari della necropoli di Plinthine in cui convivono due tradizioni, quella attica e quella microasiatica-orientale di matrice rodia soprattutto. Il secondo approfondimento è sui Plakettenvasen, una classe di grandi vasi con decorazioni a rilievo per la quale è stata proposta un’origine alessandrina. Pur non comparendo negli assemblaggi analizzati, l’autrice discute dunque tale ipotesi sulla base delle informazioni ora più corpose relative all’avvio di una produzione figulina locale ad Alessandria. Pertanto l’autrice sottolinea come appaia difficile che manufatti realizzati con una tecnica così avanzata, possano essere stati prodotti negli ateliers alessandrini in un periodo in cui, tra la fine del IV ed il III sec. a.C., si muovevano i primi passi nell’esperienza produttiva ceramica; inoltre anche la cronologia non appare convincente, dato che la presenza di materiale accostabile a quello dei Plakettenvasen si ritrova solo nei contesti alessandrini nel corso del III sec. a.C., quindi nella fase 3. Infine, il terzo approfondimento è relativo alla ceramica dipinta su fondo chiaro, sollecitazione che nasce dal fatto che un cratere relativo a questa classe viene presentato nella seconda parte redatta da John W. Hayes. Il pretesto è fornito dal fatto che alcuni frammenti relativi a tale classe provengono anche dagli scavi del Consolato Britannico ed appartengono appunto alla fase 2. Anche per questi vasi, come per i Plaketten la destinazione primaria sembrerebbe essere stata per un uso esclusivamente funerario, rientrando nel gusto dell’epoca che vedrà poi i vasi di Hadra monopolizzare il mercato in una fase ellenistica più avanzata. Dopo queste interessanti annotazioni, che però sono un po’ sganciate dal catalogo, si ritorna al materiale della fase 2 con l’analisi della ceramica d’uso comune.

 

         Per la ceramica da cucina, pur rimanendo in uso le stesse forme, si registra un aumento di tipi differenti; la ceramica d’uso comune legata ad altri utilizzi differenti da quelli della cottura ha poche forme: il mortaio, la lekane ed una coppa/scodella che costituisce una riproposizione dell’echinus bol.

 

         Infine è presentata la fase 3, attestata solo dai rinvenimenti nel sito del consolato britannico, ma qui, in assenza di dati quantitativi, non è ben chiaro il rapporto tra la ceramica d’importazione e quella di produzione locale. Infatti, dalla presentazione del materiale, sembra emergere una nuova vitalità commerciale confermata dall’arrivo di ceramica prodotta in differenti centri del Mediterraneo, poiché pur rimanendo preminenti le produzioni ateniesi e quelle microasiatiche, in particolare da Rodi e Cipro, si riscontrano anche importazioni da Pergamo, da Creta e dall’Italia, sia con la ceramica sovraddipinta, tipo Gnathia, del sud Italia, , sia con quella a vernice nera di area tirrenica.

 

         Nell’ambito produttivo locale si conferma una cospicua manifattura di ceramiche fini  e d’uso comune, soprattutto da cucina, che registra una standardizzazione di forme e tipi.

 

         Le conclusioni sottolineano come il quadro delle conoscenze sulla fase tolemaica più antica di Alessandria siano ancora incomplete, però la pubblicazione di questi contesti consente ora di disporre di alcuni dati sicuri su cui impostare cronologie più affidabili. Gli aspetti più rimarchevoli sono dunque che nella fase 1 non ci sono indizi di produzione di ceramica fine locale; sono invece presenti le ceramiche d’uso comune che registrano una continuità con la fase faraonica per l’argilla utilizzata e le caratteristiche tecniche, ma hanno un collegamento con la cultura greca per forme documentate. L’utilizzo di nuove argille agevola l’avvio di un’attività manifatturiera di ceramica fine locale agli inizi del III sec. a.C., nella fase 2,  in coincidenza con la netta riduzione delle importazioni. Inoltre le strette assonanze tra la ceramica alessandrina ed il materiale di area levantina e microasiatica, sembrerebbero accreditare la presenza di coloni rodi e di altre aree dell’arco medio orientale, come già annotato in altri studi.

 

         Infine vengono tracciate tre principali direzioni di studio che andrebbero affrontate: cercare di collegare le evidenze di Alessandria con altre importanti realtà produttive del territorio, soprattutto con Naucratis; riesaminare i materiali dalla necropoli di Chatby alla luce delle nuove conoscenze; comprendere meglio i motivi di un probabile “insuccesso” dell’esperienza manifatturiera alessandrina che non ha prodotto oggetti di pregio o destinati ad un ampio mercato e che ben presto è divenuta standardizzata e seriale.

 

         Nella seconda parte, redatta in prevalenza da J.W. Hayes, vengono presentati dei depositi selezionati provenienti dagli scavi realizzati presso il Cricket-Ground, che completano la pubblicazione già edita dei depositi A e B.

 

         Per ogni deposito, in totale otto indicati con le lettere alfabetiche dalla C alla K,  dopo la datazione ed una breve stringa descrittiva del contesto, segue il catalogo dei pezzi, senza alcun commento sulle classi. Unico esemplare per il quale è prevista una scheda descrittiva più articolata è il cratere in ceramica dipinta locale la cui eccezionalità era già stata sottolineata nella prima parte. Infine il volume e corredato da una completa e aggiornata bibliografia e da una serie di tabelle di raccordo tra siti di rinvenimento, i numeri d’inventario, ed i riferimenti nel testo e figure.

 

         Come già anticipato nell’incipit, il lavoro soffre un po’ per la mancanza di coesione tra le parti e si percepisce che sia il risultato di studi autonomi poi confluiti in un’unica pubblicazione. Questo emerge soprattutto quando vi sono annotazioni e riflessioni su esemplari che, pur presentati analiticamente nella seconda parte, sono anticipati nella prima. Infine le tabelle di quantificazione sono poco esplicative e per recuperare i dati relativi ai differenti gruppi funzionali ed alle macroclassi distinte solo tra produzioni importate e locali, occorre ricavarseli in modo autonomo. 

 

         Forse un quadro conclusivo dove far convergere le riflessioni finali sarebbe stato più utile anziché porle al’interno dell’analisi delle fasi dove rischiano di perdere la propria efficacia. Infine molto utile per valorizzare gli importanti dati presentati sarebbe stata la realizzazione di una tabella sinottica delle forme e dei tipi prodotti negli ateliers locali.