Coarelli, Filippo: Statio. I luoghi dell’amministrazione nell’antica Roma. Topografia antica Archeologia Storia romana, 494 p., 20,5x26 cm, 170 ill. in bn, ISBN : 978-88-7140-941-2, 50 €
(Edizioni Quasar di Severino Tognon, Roma 2019)
 
Recensione di Paolo Liverani, Università di Firenze
 
Numero di parole: 2136 parole
Pubblicato on line il 2020-10-19
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=3624
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          Il volume di Coarelli affronta un tema complesso, quello della collocazione nella città di Roma dei luoghi dell’amministrazione, incrociando con la consueta maestria topografia, epigrafia, archeologia, storia e storia dell’arte. In alcuni casi si tratta di proposte avanzate a partire dai risultati degli importanti lavori sviluppati nel corso della lunga carriera dell’autore, in altre di proposte più nuove che in qualche caso non mancano di riservare sorprese.

 

         Il lavoro si articola in nove capitoli preceduti da un’introduzione che tratta un punto chiave della discussione, da cui deriva il titolo stesso del libro, ossia il significato da attribuire al termine statio. L’interlocutore principale in questo caso è Christer Bruun, che nei suoi studi sulla gestione del rifornimento idrico della città di Roma sostiene che il termine sia sempre da intendere in senso astratto: come “amministrazione” piuttosto che come luogo fisico, sede di un ufficio amministrativo. Tale proposta nasce come reazione a interpretazioni, a volte troppo facili, di senso opposto, ma si spinge probabilmente un po’ troppo oltre, negando anche la realtà materiale della Statio aquarum del Lacus Iuturnae presso il Foro Romano, testimoniata con chiarezza da un'iscrizione costantiniana (CIL VI 36951). La condivisibile posizione di Coarelli è che si debba giudicare caso per caso se la singola occorrenza sia da interpretare in senso astratto o materiale. Una riserva su questa discussione è invece possibile in quanto, focalizzata com’è in maniera esclusiva sul significato del termine statio, essa perde di vista il quadro più ampio delle acquisizioni dovute al rigore metodologico e alla straordinaria competenza del Bruun. Questo studioso viene per esempio contestato per l’uso frequente di formule ipotetiche come “niente ci induce a pensare”, “è possibile”, “potrebbe semplicemente indicare”, “potrebbe forse giustificare”, che – secondo l’autore – maschererebbero la debolezza dell’argomentazione (p. 15). Tuttavia si tratta di una contestazione rischiosa, perché qualcuno potrebbe osservare che un tale stile è simmetrico e speculare rispetto a quello dello stesso Coarelli, che ama invece espressioni asseverative quali “certamente”, “sicuramente”, “senza dubbio”, “è chiaro che”, a loro volta non sempre sufficienti a tacitare i dubbi del lettore.

 

         Nei capitoli che seguono si propone la localizzazione dei luoghi in cui si trovavano le strutture fisiche di varie amministrazioni, intendendo questo termine in un senso ampio. Nello spazio che segue non si potrà rendere conto in maniera puntuale di tutte le complesse discussioni che si snodano per più di 400 dense pagine, ma si toccheranno i punti principali o quelli che sollecitano qualche considerazione più immediata. Si comincia con l’Aerarium Saturni, il Tabularium publicum, l’Aerarium militare e il Tabularium principis. Qui l’esame verte essenzialmente sulla topografia del Campidoglio e delle sue pendici verso il Foro Romano, in cui il quadro è stato profondamente rinnovato dal dibattito a cui hanno contribuito principalmente Pier Luigi Tucci e Coarelli stesso, senza dimenticare il rimpianto Emilio Rodríguez De Almeida. Esse hanno cambiato radicalmente le nostre idee su quello che tradizionalmente veniva definito come Tabularium.

 

         Partendo ancora dal Campidoglio – un colle che in questi ultimi anni è al centro dell’attenzione – la discussione affronta il luogo di produzione della monetazione romana, prima del suo trasferimento – verosimilmente sotto Domiziano – nella Regio III, nell’area oggi occupata dalla basilica di S. Clemente.

 

         È quindi il turno di un tema classico: quello dell’Atrium Libertatis. La sua localizzazione repubblicana è fissata sulla sella che univa Campidoglio e Quirinale, sbancata da Domiziano e Traiano. La collocazione tardoantica (ma probabilmente con significato differente) è da porre sul retro della Curia del Senato. Resta invece complessa la discussione della fase medio-imperiale. La proposta del Coarelli è di localizzare l’Atrium nelle biblioteche del Foro di Traiano ai lati della Colonna, soprattutto sulla base della nota iscrizione Libertatis che si trova sulla Forma Urbis Severiana in corrispondenza dell’abside settentrionale della Basilica Ulpia. La tesi merita attenta considerazione, tuttavia la distanza dell’iscrizione rispetto alle biblioteche non può che lasciare perplessi. A margine è possibile anche un’osservazione minore: gli atria Traiani ricordati dall’iscrizione funeraria del grammatico Bonifatius (CIL VI 9446 = 33808) non possono essere più considerati in questa discussione (p. 128) sulla base della rilettura e di una migliore integrazione proposta da Ivan Di Stefano (AE 1997, 166), per cui si dovrà semmai parlare degli atria M[inervae].

 

         Il quarto capitolo affronta la collocazione della Statio Annonae. Di estremo interesse la proposta di ricostruzione (pp. 146-155) della columna Minucia con una lettura attenta e fine dei denari che ce ne conservano l’immagine. La proposta è quella di riconoscere la Statio di età imperiale nell’area di fronte ai carceres del Circo Massimo dove è stato scavato un mitreo.

 

         Giungiamo a uno dei capitoli più ampi ed elaborati, quello relativo alla Statio aquarum e al luogo delle frumentationes. Coarelli ha più volte difeso con vigore la ricostruzione di un unico complesso formato dalla Porticus Minucia Vetus (Largo Argentina) e dalla Porticus Frumentaria come sua estensione nell’area di via delle Botteghe Oscure e del tempio delle Ninfe. Qui, a partire dall’età repubblicana e fino alla riforma del III secolo d.C., avveniva la distribuzione del grano di cui sono discussi in dettaglio gli aspetti monumentali, cronologici, amministrativi e logistici. Su questa base già esplorata, ma che l’autore difende ribattendo ai suoi critici, si innestano considerazioni ulteriori a volte sorprendenti: in particolare Coarelli dimostra il legame esistente tra le frumentazioni e la Fortuna Huiusce Diei venerata nel tempio B di Largo Argentina, quello di forma circolare. Al di là del possibile rimando della pianta del complesso alla forma delle tessere frumentarie, l’analisi dei meccanismi amministrativi è estremamente convincente e riesce a identificare l’iconografia della divinità conservata sul tardo sarcofago dell’Annona (non a caso scelto per la copertina del volume) ricostruendo alcuni dettagli illuminanti. Meno convincente è invece la spiegazione della unificazione tra la curatela delle acque e delle distribuzioni di grano testimoniata a partire da Settimio Severo e fino a Costantino dal titolo del curator aquarum et Minuciae. L’unificazione sarebbe derivata dalla contiguità degli uffici che Coarelli individua alle spalle dei tempietti di Largo Argentina. Sarebbe preferibile invertire il discorso e riconoscere la causa dell’unificazione amministrativa nella connessione delle funzioni – il rifornimento di acqua e grano, vitale per sfamare e dissetare la popolazione – nonché nell’utilizzo di alcuni acquedotti – proprio a partire dall’età severiana – per far funzionare i mulini che macinavano il grano necessario alla panificazione.

 

         Sempre nello stesso capitolo – il più sostanzioso del volume – si tocca il problema delle distribuzioni tardoantiche dopo la riforma del III secolo – attribuita in genere ad Aureliano, ma forse da anticipare almeno in parte. Il problema principale è quello dei gradus, i punti di distribuzione dei pani, che sono invisibili archeologicamente e che è verosimile avessero una distribuzione capillare legata in qualche maniera alle unità abitative delle insulae. Per le distribuzioni di vino, invece, si deve considerare il Templum Solis di Aureliano, di cui conosciamo purtroppo ancora troppo poco, in quanto ne è discusso perfino l’orientamento: se cioè fosse parallelo alla Via Lata, come volevano Hülsen e Castagnoli, o perpendicolare ad essa, come propongono De Caprariis e Torelli, soluzione quest’ultima preferita anche dal Coarelli. Si dovrebbe però tener conto del disegno del codice Destailleur B, pubblicato qualche anno fa (O. Lanzarini, Il tempio del Sole di Aureliano a Roma in due disegni inediti del codice Destailleur B dell’Ermitage, San Pietroburgo, in A. Brodini, G. Curcio [a cura di], Porre un limite all’infinito errore. Studi di storia dell’architettura dedicati a Christof Thoenes, Roma 2012, pp. 101-111; Ead., in O. Lanzarini, R. Martinis, “Questo libro fu di Andrea Palladio”, il codice Destailleur B dell’Ermitage, Roma 2015, p. 24 fol. 55 v, tav. XVII), che fa pendere la bilancia a favore dell’orientamento tradizionale, quello parallelo alla via Lata.

 

         Il settimo capitolo è dedicato alla Prefettura Urbana, altro tema di estrema complessità anche a causa degli sconvolgimenti causati dall’apertura di Via dei Fori Imperiali. In sintesi, la proposta è quella di tre successive collocazioni: nella prima età imperiale nella Basilica Paulli al Foro Romano, a partire dall’età Flavia nel Templum Pacis e infine, in età tarda, nella basilica di Massenzio e nelle strutture ad essa adiacenti verso nord. Altri studiosi – come Palombi – scartano invece il Templum Pacis e collocano la sede della prefettura più a nord-est sulle pendici del colle Oppio, eventualmente proponendo – come Rita Volpe – la struttura scavata in anni recenti sotto le Terme di Traiano e ormai famosa per l’affresco raffigurante una città. Indipendentemente da quest’ultima identificazione, gli argomenti a favore della collocazione nel Templum Pacis si limitano alla presenza della Forma Urbis Severiana, che alluderebbe alle competenze amministrative della prefettura. È possibile tuttavia un’interpretazione diversa e cioè vedere nella Forma una celebrazione del nuovo corso politico di Vespasiano, che allo stesso tempo ristabilisce la pace nell’impero e restaura la buona amministrazione nella città di Roma, devastata prima dall’incendio e quindi dalle appropriazioni di Nerone. In altre parole essa sarebbe una sorta di manifesto di rifondazione, coerente con l’estensione del pomerio voluta dallo stesso Vespasiano, un simbolo del buon governo paragonabile in qualche modo all’affresco medievale del Lorenzetti a Siena. In tal caso il legame con la prefettura non sarebbe così stretto e necessario e si potrebbe far cadere la proposta di collocare qui la sede della prefettura, che appare fragile.

 

         Anche la discussione sulla Basilica di Massenzio meriterebbe approfondimenti: senza entrare in tutti i dettagli, l’idea che la sua abside nord, aggiunta tra la fine del IV e i primi anni del V sec. d.C., ospitasse il Secretarium Tellurense, dove il Prefetto Urbano esercitava i suoi poteri giurisdizionali, sembra difficilmente difendibile: come conciliare infatti la segretezza del procedimento con la sua collocazione nel luogo più esposto e centrale di un’aula gigantesca? Pure la lettura delle strutture immediatamente a nord della basilica richiede qualche ulteriore discussione: esse sarebbero state quasi completamente asportate dai lavori svolti nel XVI secolo in quell’area, tanto che gli scavi per l’apertura di via dei Fori Imperiali non ne hanno trovato traccia. La loro planimetria appare in un paio di disegni del già citato codice Destailleur B (cfr. ora Lanzarini, in Lanzarini, Martinis, cit., pp. 108-110, fol. 35v. tav. XI, pp. 115-116, fol. 54r, tav. XVII) e – con integrazioni – in una pianta del codice Bodleiano di Ligorio (foll. 18v-19r). Tuttavia l’attribuzione delle presunte distruzioni cinquecentesche ai lavori nel giardino di Villa Rivaldi sulla base di un documento del 1547 edito dal Lanciani andrebbe meglio sostanziata. I lavori, infatti, si interruppero alla morte di papa Paolo III già  nel 1549, mentre i disegni Destailleur e la pianta del Ligorio vanno datati agli anni ’50 e ’60 del secolo e dunque sarebbero posteriori alle distruzioni stesse.

 

         Un capitolo più agile è quello dedicato alle cohortes vigilum con interessanti osservazioni: convincente è sia l’ipotesi che gli excubitoria – sette principali e sette sussidiari – fossero le sedi normali delle coorti sia la spiegazione della loro numerazione, che non segue la successione topografica e che potrebbe conservare invece memoria della situazione preaugustea.

 

         Conclude l’opera il capitolo che individua la sede del Catabulum e del cursus publicum rispettivamente nell’area di S. Marcello al Corso sulla via Lata e dell’isolato immediatamente adiacente all’Aqua Virgo sotto Palazzo Sciarra.

 

         Il volume, come si capisce da queste brevi note, è di estremo interesse e, come al solito, anche quando il giudizio su una delle questioni sollevate sia diverso da quello del Coarelli, è sempre molto stimolante e costringe a ripensare in un ampio quadro gli specifici punti, senza accontentarsi dell’opinione vulgata. Una simile visione poteva essere proposta solo da chi possiede ormai una straordinaria padronanza dei vari temi e susciterà certamente molti ulteriori approfondimenti, garanzia dell’interesse dell’opera.

 

         Si sarebbe forse potuto auspicare che l’autore avesse aggiunto una conclusione in cui riesaminare in maniera complessiva i risultati raggiunti. Una sorta di postfazione speculare alla discussione metodologica iniziale per verificarne i presupposti alla luce delle acquisizioni raggiunte. Sarebbe stata l’occasione almeno per accennare le linee complessive di sviluppo ed evidenziare la coerenza e importanza di questo tema trasversale. In un certo senso, infatti, il tema costituisce un’ottima dimostrazione dell’importanza degli studi sulla topografia di Roma: l’autore inizialmente si scusa (p. 7) per aver dedicato una “estensione forse spropositata della trattazione topografica di alcuni argomenti particolari”, ma tale giustificazione non è necessaria in quanto solo una dettagliata analisi topografica riesce a dare conto di un testo di lettura complessa qual è la città e soprattutto la città di Roma. Un testo che – come dice l’etimo del termine – fornisce il tessuto che conferisce concretezza alle analisi non solo archeologiche, ma di storia, di storia amministrativa e storia sociale che altrimenti rischierebbero di rimanere troppo teoriche e sganciate dalla realtà.