Bonnie, Rick : Being Jewish in Galilee, 100-200 CE. An Archaeological Study, XI+373 p., 98 b/w ills, 20 b/w tables, 210 x 297 mm, ISBN : 978-2-503-55532-4, 104 €
(Brepols Publishers, Turnhout 2019)
 
Compte rendu par Paolo Cimadomo, Università degli Studi di Napoli Federico II
 
Nombre de mots : 2009 mots
Publié en ligne le 2020-05-27
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          L’attenzione per gli studi sull’identità ha conosciuto un enorme sviluppo negli ultimi decenni. In particolare, poi, l’ambito relativo alle genti che abitarono la Galilea nei secoli della dominazione romana è stato oggetto di numerosi studi, tanto che ormai è divenuto difficile orientarsi nel mare magnum delle pubblicazioni. Riuscire, dunque, a trovare nuovi punti di vista o studi alternativi diventa sempre più difficile.

 

         L’arduo compito che Rick Bonnie si prefigge in questa monografia è di analizzare appunto cosa potesse significare abitare la Galilea tra il 100 e il 200 d.C., analizzandone tutti gli aspetti archeologici che possono aiutarci ad ottenere una risposta. In particolare, l’Autore si prefigge lo scopo di indagare gli elementi di continuità e di rottura rispetto ai periodi immediatamente precedenti e successivi al II secolo.

 

         Il libro si divide in nove capitoli, comprese introduzione (primo capitolo) e conclusioni (nono capitolo), e tre utili appendici, consultabili anche online e periodicamente aggiornate. Dell’introduzione abbiamo già accennato: l’Autore si sofferma sullo stato degli studi attuali, compiendo una disamina a tutto tondo e affermando gli scopi della sua ricerca, che sono poi quelli già delineati sopra.

 

         Nel secondo capitolo, invece, si entra già nello specifico esaminando le infrastrutture, indispensabili per muoversi nella regione, ma soprattutto rispetto alla regione interessata. Diventa in effetti fondamentale capire quante strade arrivassero in Galilea per comprendere l’importanza strategica dal punto di vista commerciale, ma anche militare. Bonnie è consapevole che nel I secolo la costruzione di strade costituì la priorità in altre aree per due ragioni fondamentali: anzitutto, la Galilea non aveva insediamenti molto importanti; in secondo luogo, le strade imperiali venivano costruite soprattutto per una ragione strategica, legata allo spostamento delle truppe. Tuttavia, spesso gli studi dimenticano l’importanza che dovettero avere le strade rurali, delle quali abbiamo però poche evidenze perché sono archeologicamente più difficili da trovare. L’autore conclude riaffermando che secondo lui le strade in Galilea avessero quindi scarsa importanza, poiché la regione non era importante per lo spostamento delle truppe, che si muovevano più facilmente a nord o a sud della Galilea, tanto che Sepphoris e Tiberiade, i centri principali della Galilea, non furono mai caput viae, a differenza di Legio, sede di una legione, come il nome stesso suggerisce. Ovviamente, il motivo dell’assenza di strade andrebbe anche collegato all’orografia del territorio, composto da avvallamenti e montagne per buona parte, cosa che dovette inficiare la possibilità di spostamenti rapidi. L’Autore adduce come prova della scarsa importanza di queste strade il fatto che dopo Adriano – che pare abbia creato la maggior parte di queste infrastrutture – ci sia una relativa assenza di segni di riparazione delle stesse, segno dello scarso valore dato loro e dell’uso che ne veniva fatto. Questa affermazione può essere considerata parzialmente vera: sebbene sia indubbio che, a differenza di altre regioni, il numero dei miliari dei secoli successivi non pare così alto, se si eccettua la strada che da Legio va a Scythopolis, non si può dire che siano totalmente assenti. La Galilea, quindi, dovette essere di un certo interesse per gli imperatori, sebbene non rappresentasse sicuramente una priorità strategica o economica.

 

         Nell’affrontare la questione dell’identità dei Galilei viene presentato lo studio di tre dei siti principali della regione, ovvero Magdala, Sepphoris e Tiberiade. L’Autore si pone anzitutto il problema di cosa costituisca una città o una comunità urbana, dato che i criteri sono spesso arbitrari. Ne è una prova Magdala, spesso non tenuta in conto negli studi sui centri della Galilea, sebbene fosse un abitato di una certa grandezza. L’autore dunque decide di definire le “comunità urbane” sulla base della loro architettura monumentale e dei servizi pubblici. La scelta è ovviamente discutibile, sebbene possa in questo caso avere senso, dato che Bonnie, come già ribadito, si prefigge lo scopo di analizzare le comunità prendendo in considerazione anzitutto i materiali archeologici. Dopo aver condotto una dettagliata analisi delle tre città, Bonnie cerca di capire i motivi che hanno portato alla decadenza di Magdala e dell’espansione di Sepphoris e Tiberiade. La soluzione sarebbe nel fatto che Magdala fu assediata durante la prima rivolta giudaica e dopo quella data non si riprese mai del tutto, perché apertamente ostile ai Romani, come Yodefat e Gamla, due città che furono poi distrutte e mai più ricostruite. Al contrario, Sepphoris e Tiberiade, entrambe non ostili a Roma, ebbero modo di crescere e svilupparsi.

 

         Il quarto capitolo tratta invece delle strutture pubbliche. La sponsorizzazione alle costruzioni viene in genere considerata appannaggio delle élite locali e non delle autorità imperiali, sebbene ci siano esempi di città favorite dagli imperatori, come Gerasa, che però era un centro per l’amministrazione romana, o Cesarea Marittima e Bosra, entrambe sedi di governatori. Resta tuttavia complicato riuscire ad identificare con quale intensità dei benefattori privati supportarono la costruzione di strutture pubbliche, poiché le evidenze restano davvero minime. L’Autore passa dunque ad analizzare cinque elementi fondamentali per una città antica: le strade colonnate, i teatri, le terme, i templi e la statuaria. L’analisi è davvero ben condotta, prendendo in considerazione le strutture di altre realtà del Vicino Oriente in età romana. Rispetto a tali monumenti, Bonnie passa in analisi i tre possibili atteggiamenti che gli studiosi hanno alternativamente pensato che i Galilei avessero avuto nei confronti delle strutture pubbliche: evitarli, adattarli o neutralizzarli, accettarli lentamente. Tuttavia, l’Autore si rende conto che il vizio di fondo degli studi precedenti è stato quello di considerare la parte urbana giudaica come profondamente distinta da quella non giudaica. In realtà, i cambiamenti di Sepphoris e Tiberiade confermano cambiamenti piuttosto comuni nel Vicino Oriente durante I e II secolo. Anche la scarsità di frammenti di statue va considerata nel suo contesto: oltre al fatto che gli scavi sono ancora molto parziali, non va dimenticato che questi centri non furono certamente di grandezza tale da pensare di poter trovare troppi elementi di rappresentanza.

 

         Il quinto capitolo analizza lo sviluppo della sinagoga dopo il 70, cioè dopo la fine della prima rivolta giudaica. La sinagoga ovviamente rappresenta meglio di qualsiasi altra istituzione un elemento di sicura presenza giudaica. Il problema maggiore di questa analisi è legato al fatto che la presenza di sinagoghe nel territorio della Galilea si sviluppi soprattutto dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme, in particolare a partire dal III secolo. Resta dunque difficile ricostruirne uno sviluppo, soprattutto fino alla prima metà del II secolo d.C. Questa scarsità può essere dovuta al fatto che le sinagoghe rappresentarono in un primo tempo un fenomeno prettamente legato alla regione di Giudea, un fenomeno che si sviluppo nel nord solo più tardi, ma altre spiegazioni possono essere legate al fatto che edifici successivi abbiano obliterato strutture più antiche, oppure che all’inizio non esistesse una struttura distinta, ma che la funzione si svolgesse in strutture domestiche. Resta ancora difficile trovare una soluzione all’enigma. Secondo Bonnie, tuttavia, si può pensare che la maggior parte delle sinagoghe nel primo periodo fossero case-sinagoghe, difficilmente dimostrabili archeologicamente. La sua, dunque, resta una ipotesi, valida come le altre.

 

         Il sesto capitolo invece entra nella sfera più privata, analizzando gli elementi di continuità e discontinuità della vita domestica in Galilea. Lo studio dell’edilizia privata nel Vicino Oriente, se si eccettuano alcuni esempi come quelli di Apamea, Dura Europos e Palmira, resta ancora poco sviluppato paragonato alla ricerca sull’architettura monumentale pubblica. In queste condizioni, lo studio dell’architettura domestica in Galilea sembra comunque ad uno stadio avanzato. Da questo studio, coadiuvato da utili tabelle cronologiche, pare evidente la crescita dei centri principali, ovvero Sepphoris e Tiberiade. Il quadro di relativa stabilità e continuità viene confermato anche dagli studi dei villaggi. La peculiarità della regione è che finora non sono state trovate grandi ville di campagna, e tutte le strutture si trovano sempre in villaggi o città. La casa tradizionale nei villaggi pare continuare nel corso dei secoli senza cambiamenti sostanziali, ma ciò non deve indicare necessariamente una sorta di conservatorismo della popolazione locale. Fanno eccezione le città, che presentano invece importanti cambiamenti, tanto che a questo fenomeno viene dedicato il capitolo settimo.

 

         Nel settimo capitolo, infatti, lo scopo principale è lo studio dei cambi apparenti portati dallo sviluppo dell’architettura domestica, della decorazione e della struttura delle case, in particolare a Sepphoris, di gran lunga la città meglio studiata della regione. Particolare importanza assume dunque l’introduzione della casa con peristilio durante il II secolo. Sebbene ad un primo sguardo si possa credere che queste case riprendano un modello prettamente romano, diffuso tra l’altro in tutto l’impero, Bonnie evidenzia alcune differenze di natura sociale, che mostrerebbero una natura più “introversa” degli abitanti di queste case, fortemente influenzata dalla tradizione locale.

 

         L’ottavo capitolo tocca un’altra tematica spesso utilizzata dagli archeologi come prova definitiva della presenza giudaica, ovvero le pratiche di purificazione legate alla religione. Vi sono infatti alcuni elementi della cultura materiale che vengono ricondotti ai rituali di purificazione giudaici. L’Autore ha qui analizzato le piscine rituali, dette miqva’ot, e i vasi di gesso, considerati dai testi rabbinici come non profanabili, a differenza dei vasi di metallo o vetro. Per le miqva’ot, l’archeologia ha dimostrato una loro comparsa già all’inizio del I secolo a.C. seguita da una rapida distribuzione nel corso del secolo per poi diventare più rari. Pare dunque possibile che questi elementi fossero legati in qualche modo all’arrivo degli Asmonei. A Sepphoris parrebbe che alcune piscine rituali alla fine del I o agli inizi del II secolo fossero riempite e usate come fondazioni per edifici successivi, mentre altre persero la loro importanza rituale e vennero usate come discariche o depositi. Secondo Bonnie, questa decadenza potrebbe essere collegata allo sviluppo dei bagni romani e di sistemi idraulici urbani più complessi, che eliminarono anche l’uso delle cisterne domestiche e delle piscine. Un’altra spiegazione data dall’autore è legata al cambiamento climatico, ma in questo caso mi pare ancora azzardato utilizzarlo come spiegazione poiché i dati che abbiamo a disposizione sono spesso poco chiari e piuttosto generali. Resta tuttavia un suggerimento utile per sviluppi futuri.

 

         Nel caso dei vasi in gesso, invece, sappiamo da vari testi la loro importanza per i riti purificatori. Tuttavia, anche in questo caso abbiamo un netto calo di frammenti di vasi durante il II secolo d.C. Secondo l’Autore, ciò poteva essere dovuto a un aumento del disinteresse verso i rituali religiosi, cosa che giustificherebbe anche l’inutilizzo delle piscine rituali. Infine, va notato che mentre l’uso dei vasi in gesso crolla decisamente, l’utilizzo delle piscine continua, e pare calare in maniera molto più graduale.

 

         Il nono e ultimo capitolo è costituito dalle conclusioni, che cercano di tirare le somme a tutti i discorsi effettuati finora. Bonnie dimostra come vada sfumata la visione binaria tra cultura materiale e pratiche sociali o religiose e come gli abitanti della Galilea si comportino come tutti gli altri abitanti dell’Impero, accettando o meno le pratiche romane non per motivi ideologici.

 

         Come detto all’inizio, concludono il lavoro tre appendici molto utili, relative a tutti i dati delle sinagoghe, delle piscine rituali e dei vasi in gesso. Ottima idea è stata quella di permettere al lettore di connettersi al sito tenuto in costante aggiornamento.

 

         Tenuto conto dei fattori qui analizzati, il libro di Bonnie dimostra di essere un importante contributo alla ricostruzione storica di una regione molto analizzata, tuttavia altrettanto complessa. La sua capacità di fornire spiegazioni chiare e dettagliate per l’enorme materiale archeologico qui presentato ne fa indubbiamente un punto di riferimento per gli studi futuri della regione. La disponibilità di mettere a disposizione il proprio database, insieme con un completo apparato bibliografico, rappresenta un ottimo strumento per gli studiosi di domani, che non potranno far altro che partire dal testo di Bonnie per sviluppare ulteriori analisi.

 

         Per concludere, il testo qui presente va sicuramente consigliato a chiunque voglia iniziare uno studio analitico della situazione in Galilea nel II secolo d.C. con uno sguardo anche ai secoli precedenti e successivi, ma anche alle realtà romane del Vicino Oriente.