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Compte rendu par Massimiliano Papini, Sapienza, Università di Roma Nombre de mots : 3988 mots Publié en ligne le 2021-01-26 Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700). Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=3670 Lien pour commander ce livre Il libro di Emiliano Cruccas, scritto nell’ambito del gruppo di lavoro di Eikonikos, laboratorio di Iconologia e Iconografia del Mondo Classico (Università di Cagliari), segue la pubblicazione di una sua monografia sugli dei senza nome, ossia i Cabiri e i Grandi Dei tra Grecia e Asia Minore (2014). L’agile saggio intende sottolineare l’importanza a Roma dei Grandi Dei di Samotracia: divinità fondamentali perché connesse alle origini dell’Urbe e alla sua appropriazione di aspetti cultuali dal Mediterraneo orientale, secondo processi che si stanno sempre più evidenziando anche grazie ai contributi di altri autori, pubblicati di recente o in contemporanea.
Il primo capitolo funge da introduzione e delinea rapidamente la questione dell’origine e dello sviluppo del culto dei Cabiri e dei Grandi Dei nel Mediterraneo orientale, a partire dall’etimologia del nome Cabiro e del relativo plurale (l’esclusività dell’origine fenicia o levantina è da ridimensionare) e dall’analisi di un brano nel libro III delle Storie di Erodoto sui misfatti dell’empio Cambise in Egitto: questi a Menfi violò il tempio di Efesto (è il tempio di Ptah), deridendone molto l’agalma, molto simile ai Pateci portati dai Fenici sulle prore delle triremi e, aggiunge lo storico, fatti a immagine dei pigmei; sempre a Menfi entrò anche nel santuario dei Cabiri, bruciando gli agalmata dopo averli analogamente derisi, e anche questi sono considerati simili a quelli di Efesto, del quale si diceva che fossero figli. Dal Mediterraneo orientale le divinità si affermarono sotto il nome grecizzato di Theoi Megaloi in un’accezione salvifica e misterica, come nel santuario di Samotracia. La conoscenza di quest’ultimo è però per lo più presupposta dall’Autore, il quale passa a una presentazione concisa dei risultati degli scavi in altri santuari per ricercare tratti comuni, tuttavia in genere non ravvisabili sul piano topografico. Al Kabirion di Chloi, a poca distanza dal porto di Efestia, è dedicata attenzione sia per gli apporti di popolazioni di varia origine sia per gli edifici interpretabili come telesteria di età proto-arcaica, ellenistica e tardo-romana (sulla loro sequenza vd. anche la sintesi di T. Serafini, Telesterion: contributo alla definizione di una tipologia architettonica e funzionale, in ASAtene 97, 2019, pp. 140-144). Il Kabirion di Tebe, che condivide con il santuario di Samotracia l’esistenza di un teatro per la messa in scena di dromena, dal tardo VI sec. a.C. presenta edifici circolari, cui si affianca poi il cd. Rechteckbau, mentre mancano sale assembleari sul modello dei telesteria: la differenziazione planimetrica è stata creduta dettata dalla diversità di svolgimento delle cerimonie (banchetti con partecipanti in posizione seduta e recumbente) e funzionale alla suddivisione dei devoti in base ai diversi gradi di iniziazione, secondo un’idea pronunciata da Sabrina Batino nel 2006. La religione cabirica si distingue per la varietà di sincretismi e di identificazioni con dei e demoni del pantheon mediterraneo, specie dal periodo tardo-classico, così che è diffusa per esempio l’equiparazione tra Grandi Dei in funzione di protettori dei naviganti e i Dioscuri nel mondo greco e microasiatico. Questo rapporto sarebbe confermato a Samotracia dall’edificio rettangolare a pi greco e a cielo aperto, il cd. Cortile con Altare, datato di solito al terzo quarto del IV sec. a.C., sul quale l’Autore torna più volte nel testo. La funzione di altare della lunga struttura marmorea all’interno fu respinta nel 1965 da parte di Henri Seyrig a favore di un’identificazione della costruzione con un salone per i theoxenia dei Dioscuri, dotato di una kline approntata per accoglierne la discesa alla maniera di un rilievo figurato da Larisa al Louvre con due cavalieri in volo denominati Theoi Megaloi, illustrato dallo stesso Cruccas (fig. 7b). Egli sembra approvare quell’ipotesi, ancora in attesa però di ulteriori verifiche: sulla “Altar Court”, in stretta associazione con il teatro, per esempio vd. B. Wescoat, Insula Sacra. Samothrace between Troy and Rome, in M. Galli (ed.), Roman Power and Greek Sanctuaries. Forms of Interactions and Communication, Athens 2013, p. 66 e nota 59, la quale, senza cenni all’idea di Seyrig, ha sottolineato il bisogno di ulteriori indagini architettoniche anche in vista di un riesame della cronologia; tale articolo è oltretutto di rilievo per le “connessioni romane” di Samotracia (pp. 51-63).
Il secondo capitolo entra nel cuore del lavoro, trattando dell’impatto dei Cabiri a Roma, a partire dal parere dello storico Cassio Emina: egli, intorno alla metà del II sec. a.C., insieme ad alii era un sostenitore dell’origine samotracia dei Penati portati da Troia, chiamati theoi megaloi, theoi dynatoi, theoi chrestoi. I legami Roma-Samotracia sono plurimi, soprattutto a partire dalla fine del III sec. a.C., se si eccettua la notizia anacronistica trasmessa da Macrobio secondo la quale persino L. Tarquinio Prisco sarebbe stato iniziato ai misteri dei Grandi Dei: per esempio, M. Claudio Marcello dedicò pinakes e andriantes dal sacco di Siracusa sia a Samotracia sia nell’Athenaion di Lindo (sulle motivazioni della scelta vd. M. Cadario, I Claudi Marcelli. Strategie di propaganda in monumenti onorari e dediche votive tra III e I sec. a.C., «Ostraka», 14, 2, 2005, pp. 159-160). Sempre nel II sec. a.C. anche Callistrato, scrittore di una Storia di Samotracia, una delle fonti citate da Dionigi di Alicarnasso in alcuni capitoli della Archeologia romana e identificabile secondo un’opinione dai più condivisa con lo storico Domizio Callistrato di Eraclea Pontica, sostiene l’origine dei Penati da Samotracia e l’identificazione con i Grandi Dei/Cabiri. Tale elaborazione mitografica è stata ricondotta nel 1997 da Domenico Palombi all’affacciarsi di Roma in Oriente nella prima metà del II sec. a.C., benché la cronologia più bassa di Callistrato al I sec. a.C., proposta da Felix Jacoby, continui a essere ritenuta non escludibile. La penetrazione della religione dei Grandi Dei a Roma sarebbe inoltre attestata a livello sia cultuale sia architettonico, come congetturato in un discutibile contributo di Maggie L. Popkin (2015), volto a illustrare specifici punti di contatto con il santuario di Samotracia per ragioni diverse, come l’uso delle colonne corinzie o la distintiva tessitura della muratura rispettivamente nel tempio di via delle Botteghe Oscure (vd. infra) e nel tempio rotondo del foro Boario (giuste riserve su questi due esempi, tutt’altro che valutabili di «compelling evidence» o «very probably», sono già pronunciate da E. La Rocca, La Nike di Samotracia tra Macedoni e Romani. Un riesame del monumento nel quadro dell’assimilazione dei Penati agli Dei di Samotracia, Atene 2018, p. 57, nota 212). Sempre secondo Popkin, seguita da Cruccas, la aedes Herculis Musarum di M. Fulvio Nobiliore può mostrare presunti influssi culturali e architettonici del santuario di Samotracia, perché la tholos si ispira a modelli della tradizione ellenistica, compresa la cd. Rotonda dedicata da Arsinone II (come se bastasse la pianta circolare non periptera a stabilire un legame specifico; sulla natura ibrida dell’edificio su alto podio e senza appellarsi a vaghe riprese da Samotracia vd. F. Di Stefano, Aedes Herculis Musarum. Connotati cultuali, ideologici e architettonici del monumentum di M. Fulvio Nobiliore, «BCom», 120, 2019, pp. 146-149). Altro parallelo instaurato da Popkin con il santuario dei Grandi Dei (e con il Kabirion di Tebe, dove però il cd. Anaktoron è sostituito dal tempio nel II sec. a.C.) riguarda il dibattuto orientamento del theatrum et proscaenium ad Apollinis costruito con la censura di M. Emilio Lepido davanti al tempio di Apollo in circo a fungere eventualmente da skene, ma l’Autore stavolta riconosce a ragione come l’accostamento non si riveli «privo di criticità». Segue la discussione di altri riscontri dell’interesse verso il culto di Samotracia, quali i tre altari posti sulla spina del circo Massimo ad columnas in quibus stant signa con iscrizioni Diis Magnis, Diis Potentibus/ Valentibus, hoc est/ Diis Terrae et Caelo (Servio): le fonti antiche non asseriscono, come fa Popkin, che quegli altari fossero dedicati agli dei di Samotracia, ma Tertulliano nel De spectaculis precisa come si pensasse (existimant) che le divinità fossero Samothracas. Il capitolo approfondisce poi le identificazioni dei Grandi Dei con i Penati e con i Lari, sviluppando alcuni argomenti già anticipati nelle pagine precedenti. La trattazione procede in modo tortuoso e non rende facile l’accesso a una materia di per sé molto intricata: le complesse dinamiche dei contatti sono difficili da compendiare in poche pagine, così che la matassa delle antiche tradizioni cultuali è esposta con taglio più chiaro e con tutte le necessarie puntualizzazioni da La Rocca, op. cit., pp. 42-57. Cruccas analizza le tangenze iconografiche, cultuali e culturali tra Grandi Dei e Penati, introducendo anche il tema ulteriore del rapporto sincretico con i Dioscuri: l’assimilazione ai gemelli divini, confermata o suggerita da varie testimonianze iconografiche e da deduzioni di natura cultuale, era comunemente accettata a Samotracia ai tempi di Varrone, un’opinione per lui fallace. Il rapporto Samotracia-Penati emerge in alcune notizie antiche (T. Pomponio Attico nello scolio veronese ad Aen. II, 717) oppure nel collegamento afferrabile per la prima volta in Ellanico con il capostipite dei Troiani, Dardano, il quale, addolorato per la morte del fratello Iason, abbandonò l’isola per giungere nella Troade portando con sé gli dei patri: i vincoli fra Troia, Samotracia e Roma possono avere il loro comune denominatore in Enea. Cruccas si sofferma sui Penates nostri(l’espressione è di Varrone) di Lavinio, ai quali ogni anno erano offerti sacrifici dai magistrati romani cum imperio. Dionigi di Alicarnasso a proposito dei Penati, della cui origine da Samotracia non dubita, riferisce, per distanziarsene, le informazioni sullo schema e la morphe trasmesse da Timeo, secondo il quale gli hiera nei santuari di Lavinio consistevano in alcuni caducei di ferro e di bronzo e vasellame ceramico troiano raccolti in più adyta (e non in uno solo, come si legge a p. 36). Quanto al piccolo tempio dedicato ai Penati sub Veliis, che acquista visibilità durante la prima metà del II sec. a.C. grazie agli interventi noti da talune testimonianze letterarie, l’Autore propone «in via del tutto ipotetica» (p. 43), ma per motivi non perspicui, un parallelo funzionale e culturale tra il cd. Cortile con Altare a Samotracia e la riproduzione del sacello sul pannello del sacrificio di Enea nella fronte orientale dell’ara Pacis, che, dietro a una balaustra merlata, mostra due statue di giovani seduti e dotati di lancia con mantello. Le statue custodite nel tempio sono giudicate di antica techne dallo stesso Dionigi di Alicarnasso, il quale le definisce eikones degli dei troiani che a tutti era lecito vedere (ma quella particolare fattura non traspare dalla minuta riproduzione sul pannello dell’ara Pacis), con un’epigrafe che spiegava che si trattava di Penati; i loro schemata militari sono detti dallo storico comuni ad altre statue degli stessi giovinetti osservabili in antichi templi. Inoltre, sulla base dei simulacri, forse gli stessi nel tempio sub Veliis, era scritto Magnis Diis (così Varrone in una citazione serviana). Si arriva poi ai punti di contatto tra i Lari e i Grandi Dei di Samotracia e all’analisi del tempio dei Lari Permarini, che, votato nel 190 a.C. da Emilio Regillo, vincitore (e l’anno seguente trionfatore) contro Antioco III di Siria, fu dedicato nel 179 a.C. da M. Emilio Lepido. L’Autore ne accetta l’individuazione nel tempio tra via delle Botteghe Oscure e via Celsa, stando alla convinzione ribadita da F. Zevi, Minucia frumentaria, Crypta Balbi, Circus Flaminius: note in margine, in A. Leone, D. Palombi (a cura di), Lexicon Topographicum Urbis Romae. Supplementum IV. Res bene gestae. Ricerche di storia urbana su Roma antica in onore di Eva Margareta Steinby, Roma 2007, pp. 371, 375-376; in questo senso vd. anche A. Guaglianone, The porticus bears all the grain: an update of the area of the Porticus Minuciae (Rome), between archaeology and social history, in J. Remesal Rodríguez et alii (eds.), Paisajes productivos y redes comerciales en el Imperio Romano, Barcelona 2019, p. 228. Alla nota 157 di p. 49, nel citare un’idea avanzata nel 1997 sempre da Fausto Zevi (all’indomani della vittoria del capo Mionesso Rodii e Romani dedicarono insieme la Nike di Samotracia), Cruccas accenna alle tante controversie che da tempo avvolgono la statua, quale la definizione della sua cronologia, oscillante in seno alla prima metà del II sec. a.C. e ormai molto dipendente dall’analisi delle vicende storiche. La disputa si è riaccesa con due lavori che, spinti dalla volontà di precisare la datazione, hanno rivisto molti aspetti dell’opera, quali la sua visibilità, l’orientamento in relazione ad altri edifici, la determinazione della tipologia di scafo e la committenza. Così La Rocca, op.cit., pp. 9-39 (con risposta a p. 63 a un altro articolo scritto da Nathan Badoud nel 2018), dopo avere di nuovo respinto i tentativi del suo rapporto con vittorie macedoni del IV-III sec. a.C. azzardati da una parte pur minoritaria della critica, ha sottolineato i possibili punti deboli dell’unione con una delle vittorie ottenute dai Rodii sulle flotte di Filippo V nelle acque di Chio (201 a.C.), a Side su Antioco III (190 a.C.) o, nello stesso anno, al capo Mionneso a fianco di L. Emilio Regillo. Queste idee, le più seguite principalmente a causa del lithos lartios in cui è scolpita la prua della nave, sono da ridimensionare perché gli scultori rodii potevano lavorare anche su richiesta di committenze straniere, così che la scelta del materiale non è decisiva; in aggiunta, non sarebbe stato agevole per i Rodii compiere una dedica in un santuario probabilmente sotto il controllo macedone sino al 168 a.C. Così lo studioso ha preferito chiamare in causa il trionfo navale celebrato nel 167 a.C. sui Macedoni da Cn. Ottavio, il quale catturò il re Perseo fuggito supplice a Samotracia per poi condurlo ad Anfipoli e consegnarlo a L. Emilio Paolo; donde la possibile erezione della Nike da parte dei Romani, favorita dallo stesso ambiente samotrace e inseribile nella logica di un conflitto dispiegato anche a suon di monumenti, in risposta alla colonna votiva di Filippo V o al neorion forse dedicato da Antigono Gonata. A tale tesi hanno replicato K. Clinton, L. Laugier, A. Stewart, B.D. Wescoat, The Nike of Samothrace: Setting the Record Straight, «AJA», 120, 4, 2020, pp. 551-573, riaffermando la visione più tradizionale e riconoscendo nella Nike un dono commemorativo della vittoria di Rodi come alleata dei Pergameni contro Prusa II di Bitinia nel 154 a.C. (perciò la datazione si sposta sempre più verso la metà del secolo), malgrado La Rocca, op. cit., p. 39, abbia reputato quell’aiuto rodio sì oneroso ma troppo limitato con solo cinque quadriremi per spiegare una dedica del genere (ma contro il preteso apporto secondario dei Rodii nell’occasione, sottolineato anche da Badoud, vd. a loro volta gli stessi autori a p. 568, nota 91). Il dilemma non è facilmente risolvibile, perché le ragioni addotte, data la mancanza di molte informazioni e di dati epigrafici che rendano possibile pronunciarsi sulla natura delle dediche, suscitano obiezioni e controbiezioni all’interno dell’universo di relazioni triangolate tra Roma, il santuario di Samotracia e Rodi, nel cui pantheon i Grandi Dei possedevano un sacerdozio ufficiale. Al di là della determinazione dell’evento, la pista rodia non si può scartare, pur se continua a basarsi fortemente sull’uso di quel materiale per basi che, siccome per ora mai documentato al di fuori di Rodi, è considerato frutto di una scelta più connotativa del committente che non dell’officina (a Samotracia si conservano blocchi pertinenti ad altre basi in lithos lartios); nell’isola «patria delle associazioni», oltre al costume dei monumenti in forma di nave, sono poi di interesse i legami tra gli svariati koina, Samothraikiastai inclusi, e l’organizzazione militare/navale dello stato. Tuttavia, alla luce delle nuove argomentazioni, occorre più prudenza, e ritenere che i Romani non potessero erigere un monumento del genere, e tanto meno nel clima subito successivo alla fine della terza guerra macedonica a causa dei rapporti tesi tra Roma e Rodi (che però non per forza dovettero estendersi a un eventuale ingaggio di scultori), è un’esclusione troppo categorica.
Cruccas prosegue il capitolo con i Lares Praestites e, consapevole dei problemi topografici legati alla distinzione ammessa seppur in modo non unanime dalla critica tra il loro sacello e la aedes Larum in summa Sacra via (per la localizzazione di questo tempio vd. P. Carafa, Il Palatino messo a punto, «ArchCl», 64, 2013, pp. 720, 727), preferisce esaminarne le caratteristiche iconografiche trasmesse dai denarii di Lucio Cesio del 112/1 a.C.: ivi compaiono le immagini dei La(res) (P)r(a)e(stites), con un cane ai piedi, sedute e con una lancia nella mano sinistra, desunte forse dai parva signa ricordati dai Fasti di Ovidio votati da Manio Curio Dentato insieme a un’ara alle calende di maggio (ma il poeta sembra suggerirne la scomparsa ai suoi tempi, ricordando gli effetti distruttivi della vetustas e della longa senecta); lo schema è affine ai Dioscuri e soprattutto ai Penati così come riprodotti sul suddetto pannello dell’ara Pacis.
Il terzo capitolo sospende la trattazione sui Grandi Dei di Samotracia, perché si incentra sull’arrivo del culto metroaco a Roma dopo la consultazione dei libri Sibillini, testimoniato sul piano archeologico e letterario e confermato da scene figurate come sulla cd. base di Sorrento. Quest’ultima mostrerebbe «un linguaggio figurativo inusuale…e interessante per il mondo romano, attraverso il quale le figure divine sono distinte da quelle umane attraverso la rappresentazione di queste ultime in dimensioni minori rispetto alle prime» (p. 58). Eppure, questa modalità è tutt’altro che anomala. L’Autore presenta anche la facciata di un tempio sullo sfondo di un rilievo a Villa Medici in cui di norma, a causa della decorazione frontonale, si scorge la riproduzione della aedes di Magna Mater sul Palatino; egli si limita a ricordare come la lastra sia parte della decorazione della cd. ara Pietatis Augustae, con il rinvio alla voce Kybele nel LIMCredatta da Erika Simon del 1997, ma qui sarebbe stato opportuno dare conto dei progressi della ricerca su questa serie di rilievi d’epoca claudia. L’inclinazione a citare in modo stringato i monumenti senza approfondimenti coinvolge anche la tholus di Cibele nominata da Marziale (I, 70), laddove non basta segnalare un articolo di Filippo Coarelli del 1982, giacché nell’epigramma questo e altri luoghi dell’itinerario attraverso la città del liber del poeta sono molto dibattuti. In generale, tale capitolo dialoga poco con il tema portante del libro, e non sembra sufficiente giustificarne l’inserimento con il fatto che gli spettacoli teatrali all’interno delle celebrazioni accomunano la Grande Madre Frigia ai rituali per i Cabiri e i Grandi Dei.
Il «percorso ermeneutico» del volume si chiude con il quarto capitolo, dedicato alla decorazione pittorica dell’atriumnella Villa A “di Poppea” a Oplontis. Questa è la parte più originale del lavoro, perché Cruccas si lancia in un’ipotesi di ricerca al fine tra l’altro di recuperare il profilo e il nome del dominus, identificato con un importante uomo politico di Roma, attivo in campagne militari, visti i numerosi richiami all’idea della vittoria nelle decorazioni. Egli si rivolge alla figura di M. Pupius Piso Frugi Calpurnianus, console del 61 a.C. e uno dei tredici legati pro praetore impegnati contro i pirati, sulla scia di una suggestione avanzata da Gilles Sauron nel 1994, da ritenere sì «assolutamente plausibile» (p. 74) ma in virtù di presupposti divergenti. Questi aveva intravisto in lui il personaggio allegoricamente onorato nell’affresco sulla parete orientale dell’oecus 15, indicando il committente dei dipinti in II stile nel figlio, M. Pupius Piso, pretore del 44 a.C., un assunto però accolto con scetticismo da molti, tra i quali si annoverano i critici coinvolti nell’eccellente edizione globale degli arredi della villa da parte di J.R. Clark, N.K. Muntasser (eds.), Oplontis: Villa A (“of Poppaea”) at Torre Annunziata, Italy, 2. The Decorations: Paintings, Stucco, Pavements, Sculptures, New York 2019. Un altro esponente della famiglia, L. Calpurnius Piso Caesoninus, console del 58 a.C. e proconsole in Macedonia nel 57-55 a.C., ebbe certi legami con Samotracia, come dimostrato da un’epigrafe del 56/5 a.C. con una dedica in suo onore in qualità di patrono della città e da un brano dell’orazione In Pisonem di Cicerone, sebbene manchi l’esplicita conferma di una sua iniziazione. Certo, molti furono i Romani dell’Urbe (sino al 42 %, secondo i calcoli basati sul superstite dossier epigrafico) a essere iniziati a Samotracia a partire dagli inizi del II sec. a.C. sino al tardo II sec. d.C. (per questo interesse romano nel santuario vd. anche Westcoat, art. cit., pp. 55-63). L’Autore tenta una così una nuova lettura del “programma” dell’atrium, ornato sulle due pareti lunghe con la rappresentazione sostanzialmente speculare di un edificio colonnato riccamente decorato e con tre porte. A suo avviso diverse componenti delle scenografie architettoniche, oltre a riferirsi in parte a vittorie militari, spingerebbero verso un preciso contesto culturale o, meglio, cultuale: torcia, ciste, thymiateria e alti vasi all’ingresso delle porte si conciliano con iniziazioni misteriche, evocando anche Samotracia. Un «forte collegamento» (p. 82) con il culto dei Grandi Dei si distinguerebbe nella presenza degli scudi con episema a stella sull’ala destra, che troverebbero equivalenti nelle dediche di scudi votivi in santuari cabirici come nel cd. Anaktoron di Samotracia. La stella richiama inoltre la simbologia dei Dioscuri-Cabiri come protettori dei naviganti, evocando in aggiunta il simbolo della dinastia macedone; e tre stelle sormontano il tripode dipinto che spicca nell’oecus 15. Per tornare all’atrium, i volti entro clipei al di sopra della porta centrale della parete ovest non ritrarrebbero antenati (sono ripresentati i passi dal libro XXXV di Plinio il Vecchio sulla dedica dei clipei in luoghi sacri o pubblici e sulle imagines maiorum), ma apparterebbero a quattro personaggi dai tratti femminili, di conseguenza identificati con divinità da Rolf A. Tybout: meno genericamente, secondo l’Autore, si tratta di Muse, dal numero non fortuito. Di qui si moltiplicano le ipotesi: secondo parte di una tradizione trasmessa da Cicerone proprio quattro erano le prime Muse, figlie del secondo Giove; e giova ricordare il caso di L. Calpurnius Piso Caesoninus, celebre anche per il rapporto con Filodemo di Gadara, il quale in un epigramma dell’Antologia Palatina si connota quale mousophiles e invita l’amico a unirsi a un frugale banchetto per commemorare il genetliaco di Epicuro. Ma la raffigurazione resta ambigua: se R. Ciardiello, Alcune osservazioni sulle decorazioni della villa di Oplontis, «Amoenitas», 1, 2010, p. 280, vi ha senza dubbio riconosciuto teste di satiri, Eric E. Moormann nel suddetto volume curato da Clark e Muntasser (The Second-Style Paintings at Oplontis) è tornato a vedervi antenati, per quanto non personalizzati ma stilizzati con un effetto allusivo. Cruccas nella prosecuzione del capitolo ribadisce sempre più il proprio pensiero nel qualificare l’ambientazione «idealizzata, ma caratterizzata da elementi che sembrano richiamare alla mente il contesto samotracio e il tema delle conquiste romane in Oriente» (pp. 89-90). Di conseguenza, al santuario samotrace si riportano addirittura altri dettagli della decorazione, che però non sembrano così specifici, quali le maschere sospese e i bucrani riprodotti sulle metope dell’architrave sulla parete ovest. In aggiunta, appare audace instaurare un qualsiasi nesso tra l’articolazione del dipinto, «benché riflesso di un contesto idealizzato» (p. 90), e la cd. Hall of Choral Dancers, di funzione insicura. Nondimeno, anche una piccola parte degli ornamenti marmorei non sfugge a un’interpretazione condizionata dai Grandi Dei. Il cratere in marmo pentelico con danzatori armati della piena età augustea metterebbe in scena danzatori armati simili più ai Cureti e ai Coribanti, «assimilabili ai Cabiri e agli dei di Samotracia» (p. 94), che a pyrrhichistai. Qui i Cabiri non svolgono però alcun ruolo, e semmai risulta già approfondita l’identificazione delle figure con i pyrrhichistai in funzione dell’associazione a Dioniso (per l’iconografia interscambiabile con i Cureti/Coribanti e per il cratere di Oplontis vd. L. Di Franco, I rilievi “neoattici” della Campania: produzione e circolazione degli ornamenta marmorei a soggetto mitologico, Roma 2017, pp. 173-181, 223-224). Infine, secondo un’idea ancora meno persuasiva, le due coppie di statuette di centauri in marmo pario lychnites, trovate fuori posto nel portico 33, forse parte di una fontana e risalenti alla prima metà del I sec. d.C., sarebbero accostabili alle raffigurazioni di centauri sui cassettoni del prostoon nel cd. Hieron a Samotracia; si ricordi per inciso che nella villa i centauri compaiono anche nelle pitture di giardino in IV stile, in associazione alle sfingi, come supporti di bacini. Insomma, malgrado la cautela talora manifestata dall’Autore, la sua decifrazione dell’«insieme dei simboli» (p. 97), che rinuncia a verificarne la diffusione in altri contesti, a parte la menzione delle pitture della villa di Boscoreale, parte da basi già fragili e non si sviluppa come un’ipotesi attendibile.
Le conclusioni del quinto capitolo, seguito da una tabella cronologica, non consistono in un semplice riassunto delle pagine precedenti. Non è dimenticata una tavola di Parrasio con Enea assieme a Castore e Polluce degna di lode secondo Plinio il Vecchio, a presunta riprova di come la mitologia legata alle origini di Roma avesse elementi di contatto con divinità greche e orientali verso la fine del V sec. a.C.; ma La Rocca, op. cit., p. 55, ha ben notato come il soggetto nel dipinto resti oscuro e non basti per dedurre un’associazione dell’eroe troiano con i Dioscuri e, per loro tramite, con i Grandi Dei. Infine, Cruccas torna sulle figure dei Dattili per ricordare poi alcuni aspetti di Eracle, in una digressione erudita che stona con il principale obiettivo del saggio ma chiude la panoramica sui vincoli religiosi tra Samotracia e Roma.
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Éditeurs : Lorenz E. Baumer, Université de Genève ; Jan Blanc, Université de Genève ; Christian Heck, Université Lille III ; François Queyrel, École pratique des Hautes Études, Paris |