Tang, Birgit : Decorating Floors. The Tesserae-in-Mortar Technique in the Ancient World, (Analecta Romana Instituti Danici. Supplementa. 51), 480 p., 21x29,7 cm, 214 ill. in bn e a col., ISBN: 978-88-7140-932-0, 32 €
(Edizioni Quasar, Roma 2019)
 
Compte rendu par Paolo Liverani, Università di Firenze
 
Nombre de mots : 2114 mots
Publié en ligne le 2020-10-19
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il volume presenta uno studio amplissimo sui mortars floors with inlaid tesserae decoration, che in italiano corrisponde a “pavimenti cementizi con inserti di tessere musive”, per usare la terminologia di M. Grandi e F. Guidobaldi (Proposta di classificazione dei cementizi e mosaici omogenei ed eterogenei, in C. Angelelli [a cura di}, Atti dell’XI Colloquio AISCOM Ancona 16-19 febbraio 2005, Tivoli 2006, pp. 31-38), terminologia tenuta presente anche dall’Autrice. Va detto subito che il contributo è di estrema importanza e costituirà il testo di riferimento sul tema per i prossimi decenni.

 

         L’indagine parte da una schedatura capillare di tutte le attestazioni note (1873), comprendendo un’area che si estende dall’Africa settentrionale (attuali Libia e Tunisia) a sud, per includere a nord tutta l’Italia fino alla Svizzera e alla Francia, spingendosi a ovest in Spagna con importanti attestazioni, mentre a est arriva alla Grecia e alla Turchia, anche se con un numero minore di rinvenimenti. Anche la cronologia è assai ampia, certamente più di quella che i primi studi degli anni ’70 del secolo passato consideravano: le prime attestazioni infatti risalgono alla fine del IV – inizi del III sec. a.C. in area punica e greca (Sicilia), le ultime (rare) arrivano alla fine del IV – inizi del V sec. d.C. La vastità di tale indagine decennale è testimoniata dalle 55 pagine di bibliografia (1/9 dell’intero volume) e dal “database” che elenca in maniera essenziale ma completa tutti i casi noti. In realtà più che di un database si tratta di un tabulato di 204 pagine, che non si trova esattamente all’URL indicato nel volume ma al seguente indirizzo sul sito web dell’editore https://www.edizioniquasar.cloud/TangDecoratingFloorsDatabase.pdf. A margine si può osservare che nel tabulato l’ordine dei siti all’interno di ciascuna regione è alfabetico, ma con qualche errore; almeno per l’Italia, inoltre, sarebbe stato meglio ordinarlo per province all’interno di ogni regione: alcuni toponimi sono infatti di difficile collocazione geografica perfino per un italiano. Infine le regioni moderne non coincidono con quelle augustee e questo a volte complica la ricerca. L’esigenza di alleggerire almeno della schedatura un volume, già imponente per mole, è facilmente comprensibile; è un peccato però che non sia stato realizzato un vero database su cui fosse possibile fare ricerche incrociate, magari caricandolo su un sito istituzionale pubblico (per esempio quello dell’Accademia di Danimarca, o della Fondazione Carlsberg che ha sostenuto il progetto), che desse maggiori garanzie di durata e interoperabilità, ed eventualmente prevedendo la possibilità di aggiornamenti. C’è da augurarsi che una tale idea possa essere riconsiderata in un prossimo futuro.

 

         L’opera è strutturata in cinque capitoli: il primo, a carattere introduttivo, tratta gli aspetti concernenti la storia degli studi, il materiale, la diffusione e la cronologia, gli aspetti terminologici, nonché la strutturazione della schedatura di base rispecchiata nel “database”, compresa la terminologia architettonica adottata. Il secondo capitolo è dedicato al repertorio dei motivi geometrici o figurati e tratta i criteri di classificazione formale, la terminologia e l’organizzazione della tipologia, con sintetica descrizione e codifica dei tipi. Il terzo capitolo esamina la distribuzione geografica, più analiticamente a causa della ricchezza documentaria nel caso dell’Italia, che è esaminata regione per regione, mentre a seguire sezioni specifiche sono dedicate a Grecia, Turchia, Libia, Tunisia, Malta, Spagna, Francia e Svizzera. In ogni sezione geografica vengono esaminati i tipi attestati, il contesto architettonico, la cronologia, seguita da una selezione dei siti e contesti più significativi e, a conclusione, da una “sintesi regionale”. Il quarto capitolo affronta la distribuzione dei tipi (Patterns of Patterns) suddividendo la discussione per aree culturali, che non ripetono la suddivisione regionale e nazionale adottata nei precedenti capitoli che segue invece le suddivisioni amministrative moderne per ragioni di comodità e sistematicità. Il quinto e ultimo capitolo è dedicato alla discussione dell’origine e del primo sviluppo della tecnica. Le conclusioni sono un’agile sintesi in cui tutti i principali risultati archeologici e storici sono utilmente condensati in poche pagine con grande chiarezza. Concludono il volume 67 pagine di tabelle con la distribuzione geografica dei tipi che – se fosse stato disponibile il database on-line – forse non sarebbero state necessarie, in quanto sarebbero state facilmente estraibili con ricerche mirate su richiesta del ricercatore interessato, alleggerendo il volume.

 

         Venendo ai problemi terminologici, va precisato che non tutti i cementizi con tessere musive vengono qui considerati, ma solo quelli che presentano una decorazione geometrica o figurata (o anche iscritta), dunque non sono esaminati i casi in cui siano inserite tessere sparse in modo casuale o semplici schegge di materiale litico. Questo perché l’attenzione principale non è tanto per la caratterizzazione dell’impasto di base dei cementizi (litico, marmoreo, fittile o misto), che spesso non è indicato in maniera chiara nelle pubblicazioni, ma piuttosto per la decorazione che viene accuratamente esaminata e suddivisa in una griglia tipologica assai dettagliata (286 motivi geometrici e 29 figurati). Come si è detto l’Autrice ha scelto la definizione mortar floor, che non era scontata: nella letteratura di lingua inglese, infatti, in passato si sono usati anche i termini cement o concrete. Sembra questa una scelta saggia, inoltre dal punto di vista della lingua italiana essa evita confusioni indebite con termini che hanno esclusivo significato moderno, come “cemento”, o che si riferiscono a procedure tecniche non sufficientemente caratterizzanti (“battuto”). D’altronde è anche vero che nemmeno mortar si sovrappone esattamente alla terminologia italiana, in quanto copre sia il significato di “malta”, che quello di “cementizio”. Un rimpianto è che l’Autrice non abbia preso più decisamente posizione, rimanendo invece sostanzialmente neutrale, sulla vecchia ed erronea equivalenza tra il termine moderno “cocciopesto” (termine ancora valido, equivalente nella nuova classificazione a “cementizio a base fittile”) e la definizione vitruviana opus signinum. Ormai già da trent’anni, infatti, è stato dimostrato che quest’ultimo non ha nulla a che fare con un rivestimento di intonaco idraulico, ma costituisce piuttosto un tipo di opera cementizia utilizzata (anche) per cisterne con funzione struttiva. Sarebbe ora di eliminare dalla letteratura un termine sbagliato, che rimane in uso solo per la vischiosità delle abitudini. Ormai sulla base di ottimi argomenti filologici tutta la letteratura (con l’eccezione del solo Gros) è concorde; alla bibliografia relativa a tale questione citata dall’Autrice (pp. 16-17) andrebbe aggiunto qualche ulteriore titolo (C. F. Giuliani, L’edilizia nell’antichità, Roma 1990, pp. 171-174 [II ed., Roma 2006, pp.  222-223]; C. D'Agostini, A. Salvatori, Il "cocciopesto" nelle fonti letterarie antiche: evidenze archeologiche e confronti, in G. Biscontin, D. Mietto [a cura di], Calcestruzzi antichi e moderni: Storia, Cultura e Tecnologia, Atti del convegno di Studi, Bressanone 6-9 Luglio 1993, Scienza e Beni Culturali 9, 1993, pp. 87-95; M. Grandi Carletti, Opus signinum e cocciopesto: alcune osservazioni terminologiche, in A. Paribeni [a cura di], Atti del VII Colloquio AISCOM Pompei 22-25 marzo 2000, Ravenna 2001, pp. 183-197; E. De Magistris, Structurae. Ricerche su tecniche costruttive e monumenti antichi I, Napoli 2010, pp. 111-122).

 

         Il problema dell’origine e della diffusione dei cementizi con tessere musive, molto dibattuto in passato, è messo a fuoco con lucidità e con argomenti difficilmente contestabili, allo stato dell’arte, grazie all’ampiezza della prospettiva con cui è affrontato. Non si può parlare della sua invenzione in una singola area geografica, anche perché la cronologia delle prime attestazioni non permette un’analisi troppo fine: piuttosto questa tecnica edilizia sembra apparire contemporaneamente in una koinè culturale mediterranea che comprende – tra la fine del IV e l’inizio del III sec. – la Sicilia nord-orientale e sud-occidentale, la baia di Napoli e l’area punica nordafricana, estendendosi presto al resto della Sicilia e al Lazio. Una differenza tra i siti punici e quelli greci che si contendono il primato è data solo dal repertorio decorativo, con lo schema del seminato e il segno di Tanit in area punica, il seminato e motivi geometrici derivati dalla tradizione dei mosaici di ciottoli (losanghe, meandri, motivi floreali etc.) in area greca. Nel II secolo a.C. la diffusione si estende a tutta l’Italia centro-meridionale arrivando fino in Liguria e in Friuli-Venezia Giulia, appare in Grecia ma limitatamente alle aree più fortemente connotate da presenze romane o italiche – e penetra in Spagna dove conoscerà una grande fortuna. Le regioni Italiane in cui pavimenti di questo tipo compaiono nel I sec. a.C. sono l’Umbria, l’Emilia Romagna, la Lombardia e il Veneto, per completare l’arco alpino penetrando in età augustea anche in Piemonte e Val d’Aosta. A partire da quest’epoca incontriamo la tecnica anche in Francia e Svizzera, mentre nelle regioni italiche dove era apparsa più precocemente essa sembra decadere, sostituita verosimilmente da pavimenti di carattere più nobile come il mosaico. In sintesi, solo raramente questo tipo di pavimenti può essere collegato a caratteristiche culturali specifiche: probabilmente in Grecia, come s’è visto, le prime attestazioni sembrano un portato di personaggi di provenienza romana o italica, in Spagna il sostrato preromano è invece molto ricettivo e aperto alle novità e non si può distinguere tra la committenza romana e quella locale con tendenza alla auto-romanizzazione. Nella fase più antica, come si è detto, si può riconoscere una peculiarità punica o greca solo sulla base dei motivi decorativi, ma nemmeno in tutti i casi. È per questo che l’Autrice evita di utilizzare il termine “romanizzazione” o le sue varianti e preferisce parlare piuttosto di “mediterraneizzazione”, facendo sua una proposta terminologica di Alex Müllen.

 

         In questa discussione si deve tenere presente infine un elemento e cioè che l’analisi proposta nel volume è strettamente focalizzata sui pavimenti a inserti di tessere con motivi geometrici o figurati. La scelta è ben comprensibile, perché la quantità di attestazioni da maneggiare sarebbe semplicemente esplosa se si fossero considerate anche le decorazioni a scaglie e con tessere distribuite casualmente e soprattutto se si fossero esaminati i cementizi tout court. È chiaro che l’Autrice si è posta il problema e opportunamente ricorda (p. 185) come la precoce apparizione in ambito punico e greco di questa decorazione pavimentale si accorda con le prime attestazioni in assoluto di inserti litici in cementizi che provengono da Atene (Bau Z, circa 430 a.C.) e dal Santuario di Tanit a Cartagine (tardo V sec. a.C.). Sarebbe ora auspicabile, però, estendere l’indagine, almeno per il periodo più antico, ai cementizi di ogni tipo in modo da perfezionare o correggere qualche pennellata del quadro. Questo sarebbe probabilmente possibile non tanto sulla questione dell’origine, ma piuttosto su quella della diffusione e dei suoi canali. Resta infatti da comprendere come e quando i cementizi e gli intonaci idraulici si siano diffusi. Per fare solo un paio di esempi si pensi al quadro delineato per l’Etruria Meridionale: tra il Tevere e Populonia sono noti poco più di una trentina di rinvenimenti a partire dalla fine del II sec. a.C., tuttavia le prima attestazioni dell’uso di cocciopesto come intonaco impermeabile risalgono a epoche assai anteriori. Negli anni centrali della seconda metà del IV sec. a.C. lo troviamo impiegato come preparazione degli affreschi della Tomba François di Vulci (F. Buranelli, S. Le Pera Buranelli, La Tomba François e le sue fasi, in F. Buranelli [a cura di], La Tomba François di Vulci, Catalogo della mostra - Città del Vaticano 20 marzo – 17 maggio 1987, Roma 1987, pp. 57-70), mentre a Orvieto (Volsinii) sembra comparire ancora prima: nell’ambiente scavato nel tufo alle spalle del Tempio del Belvedere (S. Stopponi, Il Santuario del Belvedere a Orvieto, in G. Colonna [a cura di], Santuari d’Etruria, Catalogo della mostra - Arezzo 19 maggio – 20 ottobre 1985, Milano 1985, pp. 80-83) e in una vaschetta della prima fase del Santuario della Cannicella (F. Roncalli, Le strutture del santuario e le tecniche edilizie, in Santuario e culto nella necropoli di Cannicella, Annali della Fondazione per il museo “Claudio Faina” 3, 1987, pp. 47-60, specie 57-59): in entrambi i casi la datazione sarebbe compresa entro il V sec. a.C. Viene ovviamente da chiedersi che cosa sia successo di questa tecnica nei due o tre secoli che separano le attestazioni più antiche dalle prime apparizioni dei pavimenti cementizi a tessere musive. In altre parole, l’indagine prevalentemente tipologica non dà sempre risposte complete e deve essere integrata da una indagine “tecnologica”, più ampia e certamente assai impegnativa, che tuttavia ora potrà essere affrontata un po’ alla volta nei singoli ambiti regionali, giovandosi dell’inquadramento generale chiaramente delineato.

 

         In conclusione il volume segna una pietra miliare nello studio delle pavimentazioni antiche e sarà di straordinaria utilità nella classificazione e catalogazione delle evidenze che verranno alla luce nei prossimi anni, azzerando o riducendo al minimo quelle difficoltà che invece ha incontrato l’Autrice nell’esame della documentazione precedente, ondivaga nella terminologia e non sempre accurata o completa. L’opera figurerà in bella evidenza nello scaffale di riferimento di chiunque affronti studi di architettura o topografia in area mediterranea.