Cavalieri, Marco - Latteur, Olivier (dir.) : Antiquitates et Lumières. Étude et réception de l’Antiquité romaine au siècle des Lumières, (Fervet Opus), 342 pages, ISBN : 978-2-87558-824-1, 29,50 €
(Presses universitaires de Louvain, Louvain-la-Neuve 2019)
 
Compte rendu par Alessandro Sebastiani, University at Buffalo (SUNY)
 
Nombre de mots : 3253 mots
Publié en ligne le 2022-04-30
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Il volume raccoglie una serie molto interessante di saggi incentrati sulla percezione e la ricezione delle antichità classiche romane nel periodo dell’Illuminismo. Solitamente, il tema è trattato estensivamente nella produzione scientifica in relazione ai grandi cambiamenti urbanistici ed artistici che interessarono l’Europa soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX secolo, quando si andarono a costituire gli Stati europei e, con taluni di essi, le identità nazionali. Il ritorno all’antichità classica, celebrato in maniera olistica dalle numerose opere artistiche del Rinascimento italiano, trovava poi uno iato nelle ricerche sino a quando il mondo romano e greco, con le sue aggraziate architetture e insieme di valori sociali, fu utilizzato per fondare la coscienza nazionale di paesi come l’Italia e la Grecia. Il ritorno alla romanitas come elemento unificante di un’altresì percepita rarefazione identitaria regionale in Italia fu uno dei leitmotiv per cementare socialmente il lungo processo di unificazione territoriale protrattosi dal Risorgimento sino alla presa di Roma nel 1870. Il necessario ammodernamento della capitale vide riflettersi un ritorno all’antico, attuato attraverso demolizioni sistematiche e riscoperte archeologiche mirate ad enfatizzare principalmente il periodo imperiale della città eterna. L’attenzione alla riscoperta delle antichità classiche è stata da sempre, quindi, incentrata sull’opera di percezione deviata che si attuò in Europa, e soprattutto nei suoi stati meridionali, a sostegno di regimi o di politiche nazional-populiste.

  

          Questo libro, invece, apre a nuove direzioni e temi di approfondimenti quando ci si approccia a quel sostanziale revival delle arti, dei valori e delle società che definirono il periodo classico del Mediterraneo, fornendoci uno sguardo d’insieme a varie realtà geografiche. Tale approccio è chiaro sfogliando in primis l’indice: la necessaria presenza dell’Italia è accompagnata da casi di studio francesi, inglesi, belgi, sino a spingersi in Africa, fornendo un quadro internazionale di riflessione. Inoltre, ed è bene notarlo fin da subito, l’impostazione del volume permette di seguire differenti interessi e tematiche sulla percezione del mondo classico durante l’Illuminismo: dalla rilettura degli autori latini, alle scoperte archeologiche che andarono a definire la disciplina grazie alla riscoperta di luoghi eterni come Pompei e Ercolano, dalla costante presenza degli antiquari oscillanti tra regionalismo e obbedienza ai regimi monarchici dell’epoca, alla ricezione dei culti di Iside e Osiride, sino a farci intravedere la nascita (o talvolta il declino) delle grandi collezioni antiquarie, preambolo all’istituzione dei moderni musei. D’altronde, il periodo illuminista conobbe quello straordinario fenomeno del Grand Tour, quando una moltitudine di turisti elitari scelsero il Mediterraneo classico come luogo di acculturazione e di erudizione diretta, scrutando nelle vestigia del mondo greco e romano la società che li creò.

  

          Come ben sottolineato nell’introduzione di Marco Cavalieri e Olivier Latteur, fu questo il momento in cui si definì l’embrione della disciplina archeologica, ancorata agli studi antiquari. Inoltre, si avverte da subito una rivalutazione di tale processo conoscitivo, legato agli oggetti e ai mirabilia nonché ai grandi monumenti e alle reliquie del passato; gli antiquari furono i primi ad interessarsi allo studio e alla catalogazione ragionata del dato archeologico, seppure questo fosse ancora per lo più scollegato dal suo contesto originario e analizzato invece più per il suo valore artistico rischiando di limitare una ricostruzione tout court delle società antiche. Una tale metodica caparbietà, culminata nel famoso volume di Johan Joachim Winckelmann sull’arte classica, non avrebbe potuto trovare terreno più fertile che in quella temperie culturale che l’età dei lumi rappresenta; è in questo sfondo prolifico di ricerche e di interesse verso le antichità romane che si assiste alla nascita del Museo Pio-Clementino, cuore pulsante del sistema dei Musei Vaticani e alla stesura dell’opera fondamentale per chiunque si appresti a comprendere la parabola dell’Impero romano, ovvero l’History of the Decline and Fall of the Roman Empire di Edward Gibbon. Questi esempi, assieme a molti altri citati nell’introduzione, determinano il punto d’arrivo di un’epoca che pose la scienza e la conoscenza materiale come fondamento per la comprensione del passato. Le differenti sezioni del volume qui recensito poi non fanno altro che alimentare il senso di acume scientifico e di passione conoscitiva che si delineò durante l’Illuminismo, attraverso l’analisi dei differenti fenomeni di percezione del periodo classico romano.

  

          La sezione sullo studio degli autori antichi si apre con l’ottimo saggio di Ida Gilda Mastrorosa, la quale ci guida alla rilettura dell’opera di Louis de Beaufort Dissertation sur l’incertitude des cinq premiers siècles de l’histoire romaine edita nel 1738. L’autrice mostra il necessario background dell’opera delineata già da precedenti studi sulla costruzione della memoria familiare nella Roma antica, intesa qui come strumento di manipolazione di determinati eventi o di personaggi dell’élite per determinare una visione alterata dell’identità politica romana. Il saggio permette di comprendere come lo studio di Beaufort si ponga metodologicamente in prima linea per raggiungere la coscienza critica e l’approccio di comparazione alle fonti scritte antiche, cercando di eliminare gli inevitabili pregiudizi e costruzioni retoriche formulate per accomodare una visione particolarista della storia piuttosto che la narrazione genuina degli eventi.

  

          Il testo tardoantico di Publio Vegezio Renato, il De Re Militari, è l’oggetto del secondo intervento della prima sezione. Étienne Famerie, dopo le necessarie note biografiche sull’autore del V secolo, ricostruisce la fortuna dell’opera nel corso del Medioevo; tale successo è legato al costante periodo di guerra che interessò l’Europa medievale e alla necessaria richiesta e studio di saggi di tecniche militari. Il progressivo declino dell’interesse verso l’opera di Publio Vegezio Renato si registra a partire dal Rinascimento, a causa della sempre maggior disponibilità di altri testi specifici sull’argomento e la conseguente riscoperta di numerosi autori antichi. Nonostante questo, nel corso del XVIII secolo, si assiste ad un certo revival del De Re Militari da parte di componenti del mondo militare francese, i quali si cimentano in commentari e traduzioni dell’opera. Si tratta quindi di un particolare tipo di ricezione dell’antico, destinato al mondo della guerra e dei suoi personaggi militari, i quali riuscirono a estrapolare una loro peculiare (e sicuramente non priva di errori) comprensione della società romana.

  

          La seconda sezione del volume è dedicata agli sviluppi della disciplina archeologica nell’epoca dei Lumi. Tale sezione non poteva non aprirsi con un saggio dedicato alla riscoperta delle città vesuviane di Pompei ed Ercolano. Tale compito è stato magistralmente assolto da Chantal Grell, la quale trasporta il lettore nel mondo degli scavi archeologici realizzati da parte di Carlo III di Spagna per istituire Napoli e il suo territorio come nuovo centro culturale di riferimento per la romanitas in competizione a quanto si andava definendo già dal Rinascimento nella Roma dei Papi. La sua narrazione degli scavi, suddivisa in tre momenti fondamentali compresi tra il 1738 e il 1780, rende giustizia di un processo di percezione dell’antico dettato sia dalla necessità della monarchia spagnola di confrontarsi con le altre potenze politiche in Europa (in primis il Papa) attraverso la riscoperta di straordinari luoghi archeologici, sia degli ulteriori passaggi verso un’archeologia “aperta” verso l’esterno, per giungere alle riflessioni sulla conservazione e protezione di quello che oggi definiremmo cultural heritage in un momento in cui le antichità classiche erano bottino prezioso per antiquari e collezionisti senza scrupoli.

  

          La sezione continua con la scoperta di Veleia, dove Marco Cavalieri mostra chiaramente l’influenza che gli scavi dell’antico municipium posto sugli Appennini piacentini ebbero nel plasmare l’identità culturale della corte di Carlo III di Borbone del ducato di Parma e Piacenza del XVIII secolo. Le ricerche archeologiche furono da subito in competizione con quelle effettuate contemporaneamente a Ercolano e, non potendo chiaramente raggiungere gli stessi risultati architettonici e monumentali delle città vesuviane, si contraddistinsero come un perfetto laboratorio sperimentale di nuove tecniche e metodologie. Gli scavi produssero anche una temperie culturale e politica di chiara risonanza neoclassica, facilitando la personificazione del Duca nel rigenerator di Veleia e di conseguenza del ducato a lui toccato in eredità. Un sentimento comune poi per tutti coloro che si cimentarono nella riscoperta ideologica dei resti dell’antichità romane, non da ultimo Benito Mussolini con la sua rifondazione di Roma come Quarta Capitale. Chiaramente, la percezione dell’antico classico determinato dalla riscoperta di Veleia non fu più la stessa, incanalandosi nella costruzione e istituzioni di enti e accademie, influenzando la maniera artistica del ducato; nonostante gli sforzi economici ed ideologici di tale progetto, la possibilità di far rinascere Parma e Piacenza come città intellettuali in competizione con Roma e Napoli restò, come menzionato dall’autore del testo «a spring of Enlightment which in Parma – and perhaps in the whole of Italy – never moved into a summer» (pp. 116-117).

 

          Il capitolo finale della seconda sezione porta il lettore nei Paesi Bassi, più precisamente nell’Olanda austriaca tra il moderno Belgio e Lussemburgo. Qui Olivier Latteur affronta la catalogazione delle evidenze archeologiche romane presenti in questo territorio, fornita nel 1783 da Pierre-Joseph Heylen nella sua Dissertatio de antiquis romanorum monumentis. Un’opera figlia dei suoi tempi, impregnata di catalogazione e inventariazione di monumenti, monete e strade, spuria di particolari estetismi ridondanti e tesa a elencare abbastanza brevemente tali attestazioni. Uno studio antiquario particolare, sebbene talvolta arido, con alcune innovazioni specie sul quadro topografico di analisi, che permettono di scorgere all’occhio attento le direzioni di ricerca dell’Accademia di Bruxelles negli anni dell’Illuminismo.

  

          La terza sezione è dedicata, con i suoi tre saggi, allo studio antiquario regionale, e si concentra sulla Francia e sull’Africa. Dapprima, l’interesse verso l’antichità romana è investigato partendo dall’analisi della corrispondenza epistolare, per lo più inedita, tra Jean-François Séguier e Anne-Marie d’Aignan negli anni a cavallo tra il 1758 e il 1781. Le conversazioni erudite permettono di ricostruire non solo la comune passione per il mondo classico e le sue vestigia, ma anche metodi di investigazione e comprensione di tali evidenze, mostrando l’attenzione verso la ricerca antiquaria edita a loro disponibile.

  

          Il capitolo di Hernán González Bordas focalizza la sua attenzione sullo studio epigrafico promosso da Francisco Ximenes in Africa. I testi prodotti nel corso del primo terzo del XVIII secolo permettono di scorgere una catalogazione efficiente, seppure talvolta frammentaria, delle iscrizioni latine; tale lavoro risentì anche dell’impossibilità di registrare ogni singola iscrizione per differenti motivi che l’autore del capitolo sintetizza in tre gruppi principali, ovvero i) l’accesso interdetto al luogo originario di rinvenimento, ii) il pessimo stato di conservazione e, iii) vari fattori esterni. L’analisi di Bordas cerca anche di contestualizzare l’opera di Ximenes nel quadro degli studi epigrafici del suo tempo, ricavandone talune difficoltà nel poterlo racchiudere nella semplice definizione di epigrafista. Ne risulta comunque una figura complessa ed affascinante, dove l’antiquario si mescola all’esploratore e allo studioso accorto, divenendo quasi una perfetta sintesi dell’approccio illuminista alle antichità classiche, dove l’anima del Grand Tourist era attratta dalle rovine e dai suoi significati intrinsechi i quali potevano essere sciolti solo con l’apporto di una narrazione scientifica e lo studio dei classici.

  

          Il terzo capitolo di questa sezione ci riporta in Francia, precisamente a Bavay, luogo di frenetica attività antiquaria nel corso del XVIII secolo. Véronique Beirnaert-Mary ci permette di esplorare la figura di Jean-Baptiste Lambiez, antiquario dedito agli scavi dell’antica città di Bagacum e alla pubblicazione dei risultati. Educato alla romanitas e allo studio erudito dei classici, Lambiez intraprese numerose iniziative archeologiche al fine di riscoprire nelle vestigia passate l’orgoglio collettivo della comunità locale; è impegnato, quindi, nella fondazione di una società archeologica mirata a rendere fruibili, e forse intellegibili a tutti, i monumenti e i resti storici della città. Un placemaker ante litteram, che comprese l’importanza della divulgazione e trasmissione delle ricerche storiche e archeologiche alla ricerca di memorie e identità locali fondate sull’analisi dell’antico.

  

          La penultima parte del volume si occupa della recezione dei culti egiziani nel mondo romano e dello studio approfondito promosso da parte degli antiquari del XVIII secolo. Alcuni dei monumenti riguardanti soprattutto le divinità isiache sono al centro del contributo di Anna Guédon, e all’analisi a loro dedicata da parte del Conte di Caylus. Nella sua opera principale, lo studioso mescola le antichità egiziane con quelle romane, creando un approccio di fusione tra le due culture. Siamo di fronte, come ben sottolinea l’autrice, ad una metodologia trasversale, differente da quella etnografico-verticale proposta negli stessi anni da Wincklemann per le antichità classiche. Tale metodo permette, ad avviso di chi scrive, di indagare meglio quel patchwork culturale che si andò definendo nell’egittomania sviluppatasi a seguito della conquista romana di questa porzione del continente africano e che investì pienamente Roma, risultando poi riflessa in talune eccentriche soluzioni architettoniche sia nella capitale che nel più vasto territorio imperiale. Questo «mélange du goût des Nations» (p. 241), citando direttamente il Conte di Caylus, sembra anticipare il moderno approccio post-colonialista allo studio dei processi di fusione e interazione tra culture antiche oramai consolidatosi a partire dai recenti dibattiti sulla Romanizzazione.

  

          Il capitolo di Céline Trouchaud si incentra sull’origine del termine «ciuffo di Horus» (in inglese Horus lock) nell’ambiente intellettuale anglosassone dell’Illuminismo e le sue utilizzazioni corrotte nei successivi anni; lo studio degli archivi di Charles Townley e dei cataloghi del British Museum permette all’autrice di analizzare la genesi di questa espressione e di contestualizzarla all’interno del suo più vasto simbolismo. Una volta elencate le differenti menzioni nelle fonti egiziane, greche e latine, l’analisi si sposta sul controverso uso del termine per la descrizione di determinate opere di epoca romana e sulla confusione creatasi nel corso degli anni attorno a tale espediente rappresentativo nell’arte greco-romana. Lo studio ben evidenzia, quindi, la deformazione lessicale andatasi a istituire, partendo dalla popolarizzazione del termine da parte di Victorine von Gonzenbach, la necessità di restituire il giusto simbolismo al «ciuffo di Horus», e di affrontare tale interpretazione nella maniera più oggettiva possibile.

  

          Si giunge, quindi, alla sezione conclusiva del volume, dove i tre autori di altrettanti capitoli forniscono un quadro d’insieme sulle collezioni d’antichità classiche; François de Callataÿ analizza un ingente numero di lettere scambiate tra gli antiquari degli anni Trenta del XVIII secolo per sottolineare il progressivo allontanamento dall’interesse numismatico verso differenti oggetti appartenenti alle scienze naturali. Sarah Andrès, invece, ci introduce allo studio delle gallerie di ritratti dei viri illustres, mostrando come la tendenza a creare queste esposizioni sia un tratto tipico già dei tempi antichi, protrattosi poi nel mondo moderno; diventano, quindi, simbolo di imitazione o riferimento culturale per chi le possiede, andando ad enfatizzare il mondo classico antico, garantendo il prestigio delle persone ritratte, così come di chi ne fa vanto all’interno delle proprie dimore. Un altro modo di leggere e percepire la classicità fondendosi con l’identità del moderno, ma con radici percorribili sin dal periodo ellenistico.

  

          L’analisi del Giardino di Torre de’ Picenardi offre la possibilità di percorrere un allestimento museale del tutto particolare, all’interno dei viali che compongono questo giardino all’inglese in Italia. La collezione di antichità qui raccolta ci narra della sensibilità dimostrata dai proprietari e realizzatori di questo “museo a cielo aperto” verso il mondo classico che si dispiegava dalle letture antiche, così come dalle avvincenti scoperte archeologiche del periodo; un giardino dove si mescolano con grazia e maestria riferimenti all’Appia antica, una consistente collezione di epigrafi, ricostruzioni di monumenti, e rimandi ai grandi scavi di Ercolano e Pompei. L’attenzione antiquaria del giardino si incentrava sulla ricezione delle antichità regionali, ponendole a confronto e in risalto rispetto ai più eclatanti cantieri di indagini sotto il Vesuvio, quasi a sottolineare come per comprendere l’antichità non possa essere sufficiente la sola indagine dei suoi monumenti più famosi.

  

          Conclude il volume un saggio di sintesi da parte di Odile Parsis-Barubé, dove i vari contributi sono ora analizzati per delineare le straordinarie trasformazioni, che si possono osservare nel corso dell’Illuminismo europeo, a cui andò soggetto il mondo della conoscenza e della percezione dell’antichità classiche romane. Il capitolo permette di contestualizzare ad un livello interpretativo superiore la portata e l’importanza di questo libro, sottolineando come la sua multidisciplinarietà favorisca non solo un la costruzione di una metodologia innovativa, ma anche un apporto fondamentale verso una teoria della recezione delle antichità classiche fondata sulle logiche d’azione dietro ai cantieri di indagine archeologica del periodo, sulle modalità di trasmissione delle antichità all’interno dei pensieri filosofici del periodo, sino a giungere all’utilizzo del passato in quella stessa cultura dell’Illuminismo.

 

             In ultima analisi, il libro presenta la recezione dell’antichità romana nel periodo dell’Illuminismo utilizzando differenti tipi di fonti per ricostruire un quadro solitamente più attento alle grandi scoperte archeologiche che si svilupparono a Pompei ed Ercolano o al fenomeno internazionale del Grand Tour. I vari autori riescono, invece, ad affrontare tematiche differenti, dallo studio delle fonti scritte, alla riscoperta di siti minori, ponendo in luce l’attenzione scientifica tipica del periodo storico all’analisi comparativa con le nascenti tendenze ideologiche che caratterizzeranno poi la seconda metà del XIX secolo e la prima metà di quello successivo. Uno sforzo analitico importante, che rende giustizia di un quadro interpretativo del passato romano molto più complesso e trasversale, facilitando al tempo stesso la creazione di un continuum percettivo dell’arte e dei valori romani che dal Rinascimento in poi caratterizzò la ricerca storica. Infine, il volume permette di iniziare a colmare uno iato di ricerca, proponendo l’Illuminismo come fase di pensiero necessaria per comprendere quanto poi sviluppatosi nell’Europa moderna in riferimento alle antichità classiche e al loro utilizzo o manipolazione.  

 

 

Sommaire

 

Gilles Montègre, Préface. De l’harmonie des Anciens et des Modernes, p. 1
Marco Cavalieri, Olivier Latteur, Étude et réception de l’Antiquité romaine au siècle des Lumières : Introduction, p. 5
 

I. La relecture des auteurs latins
Ida Gilda Mastrorosa, Nouveaux regards sur le passé romain au XVIIIe siècle. Louis de Beaufort et la construction de la mémoire familiale dans la Rome antique, p. 17
Étienne Famerie, La réception de l’Abrégéd’art militaire de Végèce en France au XVIIIe siècle, p. 39
 

II. L’archéologie et les monarques éclairés
Chantal Grell, État moderne, académies et antiquaires au Siècle des Lumières. Antiquaires et amateurs face à la découverte des cités vésuviennes, p. 59
Marco Cavalieri, Between aesthetics and research. The reception of Antiquity in the duchy of Parma and Piacenza during the Bourbon age, p. 87
Olivier Latteur, La Dissertatio de antiquis romanorum monumentis de Pierre-Joseph Heylen, premier inventaire des vestiges romains situés dans l’espace belge (1783), p. 121
 

III. L’antiquarisme regional. Collecte et étude des antiquités romaines sur le terrain au XVIIIe siècle
Véronique Krings, Benoît Pilot, Par « amour pour l’antique ». Jean-François Séguier et Anne-Marie d’Aignan d’Orbessan, une correspondance antiquaire dans la seconde moitié du XVIIIe siècle, p. 151
Hernán González Bordas, Francisco Ximenez et l’étude des inscriptions latines d’Afrique au XVIIIe siècle, p. 183
Véronique Beirnaert-Mary, Jean-Baptiste Lambiez (1741-1810 ?), un Bavaisien en quête des « fastes » antiques de sa ville, p. 209


IV. Isis et Osiris dans le monde romain. Analyses et interprétations des antiquaires et des collectionneurs au siècle des Lumières

Anna Guédon, La documentation isiaque de l’Empire romain dans le Recueil d’Antiquités du comte de Caylus, p. 223
Céline Trouchaud, La « mèche d’Horus », une création du siècle des Lumières anglais ?, p. 245


V. Les collections d’antiquités. Pratiques sociales et mises en scène autour des antiquités romaines au xviiie siècle

François de Callataÿ, Les collections de monnaies à travers le xviiie siècle ou la déroute des antiquailles (en élargissant le spectre des correspondances), p. 267
Sarah Andrès, Imagines illustrium : les galeries de portraits antiques à l’époque moderne, p. 291
Katia Michini, Reminiscences of Classical Antiquity in the Garden of Torre de’ Picenardi, p. 301
Odile Parsis-Barubé, Étude et réception de l’Antiquité romaine au siècle des Lumières : conclusions du volume, p. 319
 

Remerciements, p. 331
Table des auteurs, p. 333