AA.VV.: Degl’Innocenti, Eva - Consonni, Anna - Di Franco, Luca - Mancini, Lorenzo (a cura di) : MitoMania. Storie ritrovate di uomini ed eroi, Atti della Giornata di Studi. Taranto, Museo Archeologico Nazionale, 208 p., 17 x 24 cm, ISBN13: 9788849238631, 24 €
(Gangemi Editore, Roma 2019)
 
Compte rendu par Francesco D’Andria, Université de Salento-Lecce
 
Nombre de mots : 2440 mots
Publié en ligne le 2020-11-26
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Grazie all’impegno della Direttrice Eva Degl’Innocenti e della sua equipe di giovani archeologi, il MArTA, Museo Archeologico Nazionale di Taranto, ha potuto realizzare, in questi ultimi anni, un’incisiva azione di sviluppo delle attività scientifiche, consolidando il ruolo centrale di questa Istituzione nella vita culturale della città. Tra le numerose iniziative si segnala la Mostra sui vasi italioti a figure rosse, frutto di scavi clandestini, finiti in varie collezioni estere, restituiti allo Stato italiano, grazie all’azione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, ed assegnati opportunamente al MaRTA. In coincidenza con l’apertura della Mostra, l’11 aprile 2019, fu pubblicato il Catalogo e organizzata una Giornata di Studi Mitomania. Storie ritrovate di uomini ed eroi, che è anche il titolo del volume di Atti, stampato dall’editore Gangemi, a distanza di pochi mesi, notevole anche per l’alta qualità della stampa e delle illustrazioni.

 

         La Mostra ha rappresentato inoltre l’occasione per celebrare i cinquant’anni dall’Istituzione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, creato nel 1969, un esempio dell’eccellenza italiana, riconosciuto a livello internazionale, a cui si deve il recupero di innumerevoli opere d’arte trafugate. Per queste ragioni il primo contributo ha come autori due funzionari del Ministero Beni Culturali, M. Pellegrini e D. Rizzo, protagonisti dell’avventuroso recupero dei celebri marmi di Ascoli Satriano, acquistati dal Getty Museum, e restituiti all’Italia grazie ad un’impegnativa attività investigativa, seguita da un complesso iter processuale; da questo intervento emerge chiaramente come la restituzione delle opere d’arte trafugate contribuisca in modo significativo a scoraggiare la domanda del mercato clandestino internazionale.

 

         Il volume si articola in tre sezioni, la prima sui contesti e sulla storia del collezionismo, la seconda sul mito e la sua interpretazione, e si conclude con la parte dedicata a Taranto.

 

         I contributi sono organicamente collegati tra loro, come appare evidente nell’intervento di L. Di Franco, il quale, sulla base di documenti d’archivio, ricostruisce l’attività di collezionista dell’arcivescovo di Taranto Giuseppe Capece Latro, un ecclesiastico antiborbonico, aperto al vento dell’Illuminismo, il quale, alla fine del Settecento, mette la città bimare in contatto non solo con la capitale del Regno, ma con la realtà europea rappresentata da sovrani come Cristiano di Danimarca e Ludwig di Baviera. Al tema, oggi attuale, della possibilità di riportare alla luce l’anfiteatro di Taranto, si collega il ritrovamento, nell’area dove sorgeva questo edificio, dei ritratti marmorei di Druso e Germanico, venduti al re danese ed ora al Museo Nazionale di Copenhagen. La dispersione delle antichità tarentine viene ricostruita anche attraverso personaggi come l’ambasciatore W. Hamilton, famoso per le avventure della moglie Emma, animatrice della vita culturale, e non solo, napoletana. Attraverso questo canale giunse a Londra il rilievo greco, sul quale fu incisa l’iscrizione latina con dedica ad Esculapio Tarentino, un falso epigrafico, significativo tuttavia del clima antiquario dell’epoca. 

 

         Alla storia del collezionismo si legano anche i due interventi relativi al Progetto MemO “La memoria degli oggetti”, condotto dall’Università di Padova; il saggio di M. Salvadori riguarda la storia del collezionismo di ceramiche figurate apule nel Veneto, giunte in Laguna attraverso i porti della Puglia. L’autrice ricostruisce le modalità di acquisizione di queste ceramiche, a partire dal Cinquecento, con figure come Marco Mantova Benavides, le cui collezioni di vasi italioti (notevole il cratere a figure rosse del pittore dell’Anabates) sono conservate presso il Museo dell’Ateneo patavino. La rassegna giunge sino ai nostri tempi, con un’analisi sociologica che tende ad evidenziare la funzione positiva svolta da una classe media di collezionisti come V. Chini, primario del Policlinico di Bari, che donò poi la sua collezione al Museo di Bassano del Grappa. Va tuttavia osservato che, nei decenni finali del Novecento, questo collezionismo, in particolare nel capoluogo pugliese, era punto di confluenza delle attività illegali di scavo in tutta la regione, che provocarono danni irreparabili ai contesti archeologici.

 

         M. Baggio, attraverso i vasi figurati apuli e lucani delle collezioni venete, sviluppa il tema dell’identità femminile; ad una densa introduzione, con riferimenti alla Teogonia di Esiodo ed al mito di Pandora, ornata degli oggetti della kosmesis da varie divinità, segue un excursus sulla semiologia dei segni, con riferimenti agli studi di J. M. Moret, e sui codici che traducono in immagini il ruolo femminile nelle società antiche. Riguardo ai temi di antropologia culturale, a cui fa riferimento, anche nel titolo, il Progetto MemO, interessanti prospettive si possono ricavare dalle ricerche dell’antropologo americano A. Appadurai, sulla “biografia degli oggetti”, i quali, con il loro apparato figurativo, diventano protagonisti della “agency”, agenti sociali che contribuiscono a mutare i paesaggi in cui sono utilizzati, incidendo anche sulla trasmissione degli stili e dei temi iconografici. 

 

         A questo aspetto, centrale nelle tematiche della Giornata di Studi, M. Baggio si riferisce nel commento al cratere con la liberazione di Andromeda, uno dei vasi della Mostra, mettendo in rilievo la presenza, di fronte all’eroina prigioniera, di specchio, kibotos e kalathos, oggetti femminili legati ai riti di passaggio, in cui la dimensione nuziale si sposa, è il caso di dirlo, con quella funeraria a cui il vaso era destinato. Mi sono chiesto perché ella definisca “splendido cratere a volute metapontino” l’opera (p. 96), che, nel catalogo della Mostra, viene invece attribuita alla prima generazione dei pittori apuli (Pittore di Sisifo/Pittore delle Carnee), ed ho trovato la risposta nel contributo di M. Denoyelle. Richiamando l’attenzione sull’ovvia importanza del contesto nello studio dei vasi italioti, la studiosa sottolinea la difficoltà di distinguere le ceramiche figurate di Taranto e di Metaponto, a causa di una “ambivalenza stilistica” di queste produzioni. Pur richiamando le scoperte del Ceramico di Metaponto, con l’identificazione delle officine dei Pittori di Creusa, di Dolone e dell’Anabates, le attribuzioni da lei proposte risultano ancora legate ad un’analisi stilistica tradizionale, basata sul metodo comparativo. Nella tradizione di studi sulla ceramografia italiota, infatti, i dati di questo straordinario contesto di produzione non hanno minimamente intaccato l’approccio morelliano, puramente attribuzionistico, che pure aveva prodotto risultati fondamentali negli studi di A. D. Trendall. Dopo la scoperta del Ceramico metapontino, negli anni settanta del secolo scorso, egli aveva colto, come ora la Denoyelle, le connessioni tra i prodotti metapontini e tarentini e aveva identificato un nuovo pittore attribuendogli, forse con sottile ironia britannica, il nome di TarDol Painter, dalla fusione del Pittore apulo di Tarporley e di quello lucano di Dolone. Purtroppo, successivamente non si sono sviluppate le grandi potenzialità insite in queste scoperte, limitandosi ad utilizzare i frammenti delle ceramiche figurate, scarti di fornace, nel tradizionale approccio attribuzionistico, senza considerare la sostanziale differenza tra i contesti di produzione e quelli di uso nel rituale funerario, al quale fa riferimento la maggior parte delle ceramiche figurate. Alla ricostruzione delle tecniche, dei modi e degli spazi della produzione ceramica, si rivelano indispensabili i metodi dell’archeologia contestuale e dell’archeometria, in cui anche le indagini sulle impronte digitali lasciate sui vasi dagli addetti alle singole officine, permettono di rivelare il livello di specializzazione dei vari artigiani e l’organizzazione del lavoro[1]; aspetti lasciati in secondo piano, rispetto ai temi del consumo e della circolazione delle ceramiche figurate, anche nel recente Convegno di Taranto, dedicato a “Produzioni e committenze in Magna Grecia” (2015). 

 

         All’analisi iconografica sono dedicati i due contributi di F. Giacobello e di K. Mannino, la quale prende in esame il cratere del Pittore di Hoppin, in cui la scena sul lato A è tradizionalmente interpretata come agguato di Achille a Troilo. Mannino propone una nuova e convincente lettura e osserva che nella scena risulta del tutto assente l’atmosfera di tensione e di violenza che caratterizza le rappresentazioni di questo episodio in altre rappresentazioni vascolari; le figure sembrano piuttosto partecipare ad una esercitazione militare oppure a forme ritualizzate di combattimento, dove domina il gioco delle opposizioni, tra il cavaliere e il fante, tra la figura virile barbata e quella giovanile imberbe, in cui non è assente la dimensione erotica; come nell’“opera aperta” di U. Eco, la polivalenza dei codici figurativi permette a chi guarda di giungere a interpretazioni diverse tra loro.

 

         Al tema dell’ambiguità dell’immagine si collega pure l’interessante contributo di L. Rebaudo, in cui si misura tutta la distanza che ci separa dall’archeologia filologica degli inizi del secolo scorso e dal libro di L. Sechan “Etudes sur la tragédie grecque dans ses rapport avec la céramique” (1926), in cui era il testo letterario la chiave per decifrare la complessità delle raffigurazioni. Attraverso le prospettive della semiologia, C. Bérard e J. M. Moret hanno potuto dimostrare l’autonomia della creazione di immagini nei “vases à voir”, rispetto ad una lettura basata sulla trasmissione meccanica degli schemi iconografici. Esaminando le raffigurazioni di Medea, Rebaudo si interroga sui fenomeni che efficacemente definisce di “carsismo figurativo”, in cui alcuni schemi riemergono nella produzione artistica greco-romana anche a distanza di secoli. Egli critica l’uso del termine prototipo per indicare la fonte iconografica dalla quale dipendono le varie immagini, derivante dall’evoluzionismo darwiniano, in cui le trasformazioni avvengono per contatti o mancati contatti tra individui. Di fronte a questa semplificazione, egli propone il “paradigma genetico”, prendendo spunto dalla genetica sperimentale, in cui la trasmissione di determinati caratteri si realizza in forma coperta: i tratti visibili di un individuo (fenotipi) sono influenzati da fattori ambientali, mentre, negli organismi complessi, la trasmissione avviene attraverso i geni. La singola unità dell’immagine (iconogramma) è dunque un genotipo che le permette di sopravvivere nel patrimonio di una comunità, attraverso veicoli, i più diversi, come la tradizione orale, la poesia, lo spettacolo, il canto popolare, le produzioni artigianali effimere e molto altro ancora. 

 

         I vari fili in cui si dipanano i diversi contributi vanno infine a confluire a Taranto, dove fiorirono le officine che hanno prodotto tanti capolavori della ceramografia: in un’efficace relazione storica introduttiva, F. Frisone mette in evidenza il rapporto tra la filosofia politica di Archita e dei circoli pitagorici e lo sviluppo economico della città, una delle capitali del Mediterraneo, tra IV e III sec. a.C. A. Pontrandolfo riprende il tema della pittura a Taranto, ribadendo giustamente la datazione al IV sec. del suo maggiore sviluppo, rispetto a tendenze “ribassiste” dell’arte tarentina, in contrasto con la fioritura, tra fine del V e il III sec. a.C., della grande ceramografia apula; ella mette in evidenza le strette connessioni con il mondo macedone, attraverso i riferimenti ai grandi allestimenti pittorici dei palazzi di Pella e di Vergina, riflessi nella pittura funeraria tarentina ed apula. Ora l’identificazione del basileion ad Oria, in cui il grande andron è decorato da un mosaico a ciottoli raffigurante leoni che azzannano un cerbiatt[2], aggiunge un fondamentale tassello alla ricostruzione di questa rete di relazioni. 

 

         Alla ceramica come riflesso di un più ampio patrimonio figurativo presente a Taranto, dedica il suo saggio L. Todisco, che si interroga sulle modalità con cui gli artigiani acquisivano un tale complesso patrimonio iconografico, concludendo che essi “acquistano conoscenza ascoltando, guardando, probabilmente leggendo”, espressione in cui emergono i temi da lui ripresi in vari contributi, relativi al rapporto tra i testi del dramma antico e le creazioni dei ceramografi italioti. Taranto, nel IV sec., doveva essere uno dei luoghi di maggiore fioritura della pittura, di cui le immagini sui vasi rappresentano soltanto una delle manifestazioni. Come ad Atene, nulla si è conservato delle megalografie dipinte sui maggiori edifici della polis laconica, ma soltanto questa realtà scomparsa può spiegare la complessità e la qualità stilistica del patrimonio pittorico presente nelle ceramiche. 

 

         Da Taranto le arti figurative si diffusero nei territori circostanti e nel mondo indigeno, come mette bene in evidenza Lorenzo Mancini nel pubblicare la base in calcare di un monumento funerario proveniente da Ugento, conservata nel MArTA. Il confronto con il cratere del Pittore di Sarpedonte permette di riconoscerne le strette connessioni con la città del Golfo e anche di aggiungere un nuovo argomento all’idea che le rappresentazioni di edifici sulle ceramiche apule facessero riferimento ad edifici reali e non a fantasiose creazioni dei pittori di vasi. Mancini interpreta le figure di combattenti sui quattro lati del basamento (in uno sono presenti gli apobatai) in riferimento ai giochi funerari in onore del defunto, appartenente al ceto dominante indigeno, il cui sepolcro era posto nella parte alta, al centro dell’abitato, come la tomba delle Cariatidi a Vaste e l’ipogeo Palmieri a Lecce. La circolazione di scultori tarentini nel mondo messapico trova ora un solido appiglio nei ritrovamenti dell’Athenaion di Castro, dove essi realizzano l’arredo scultoreo del tempio: la statua colossale di Atena Iliaca ed i barocchi “peopled scrolls”, che permettono ora di riconsiderare su nuove basi la fioritura dell’arte di Taranto nella seconda metà del IV sec. a.C.

 

         Il volume degli Atti, insieme al Catalogo della Mostra, costituiscono ora, per la ricchezza di spunti critici e di dati inediti, uno strumento indispensabile di discussione sui temi relativi all’arte della Magna Grecia, con particolare riguardo alla ceramografia; grazie all’equipe di giovani e validi studiosi che si è costituita all’interno del MArTA, è possibile prevedere per il futuro una reale e rilevante ripresa degli studi, con i metodi più aggiornati della ricerca, sull’eccezionale patrimonio culturale, in gran parte ancora inedito, che si conserva nel Museo.

 

 

[1] V. Cracolici,  I sostegni di fornace dal Kerameikos di Metaponto, BACT, Quaderno 3, Bari 2003

[2] F. D’Andria, Ipotesi sul basileion di Oria, in L. Cicala, B. Ferrara (edd.), “Kithon Lydios”. Studi di storia e archeologia con Giovanna GrecouadQuad Quad. Centro Studi Magna Grecia,22, Napoli 2017, pp. 743-755.


 

INDICE

 

Eva Degl’Innocenti, Introduzione, p. 9

 

La storia ritrovata. Contesto, recupero e dispersione

Maurizio Pellegrini, Daniela Rizzo, La tomba apula di Ascoli Satriano. Ipotesi ricostruttive di contesti provenienti da scavo clandestino, p. 17

Martine Denoyelle, Restituzione/Ricontestualizzazione: l’esempio del cratere a volute proto-italiota con Andromeda e Perseo, p. 26

Luca Di Franco, L’Arcivescovo Capece Latro e l’antico: collezionismo e ricerca antiquaria nella Taranto di fine Settecento, p. 35

Monica Salvadori, Progetto MemO. Studio e valorizzazione della ceramica greca e magno-greca in Veneto: sul tema della dispersione della ceramica apula, p. 54

 

Il mito crea cultura e identità

Katia Mannino, Fra agguati, inseguimenti e duelli: Achille, Troilo e altri eroi, p. 67

Federica Giacobello, Dioniso, Lyssa e i Centuari: culto e mito nel cratere del Pittore della Nascita di Dioniso inv. 82922 al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, p. 78

Monica Baggio, Oggetti ed identità femminili dalla Magna Grecia al Veneto, p. 87

Ludovico Rebaudo, Medea sul carro: prototipo vs genotipo. Il problema della trasmissione a distanza delle iconografie, p.100

 

Taranto, una capitale culturale nel Mediterraneo antico (IV-III sec. a.C.)

Flavia Frisone, «ἴσχυσαν δέ ποτε οἱ Ταραντῖνοι καθ̕̕ ὑπερβολὴν…». La stagione di Taranto “felicissima”, p. 121

Luigi Todisco, Sulle conoscenze mitologiche ed epiche dei ceramografi italioti, p. 135

Angela Pontrandolfo, Il riflesso della grande pittura a Taranto, p. 147

Lorenzo Mancini, Da Taranto alla Messapia. La base di monumento funerario da Ugento fra immaginario eroico e realia, p. 155 

Cinque Poster relativi ai temi della Giornata di Studi