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Compte rendu par Margherita Bolla, Musei Civici di Verona Nombre de mots : 3328 mots Publié en ligne le 2021-06-24 Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700). Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=4022 Lien pour commander ce livre Su undici contributi proposti nel volume (oltre al saggio introduttivo), sette sono relativi al mondo classico, uno al mondo medievale, tre ai secoli XV-XVI. Nel convegno dal titolo quasi identico, tenutosi presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dal 17 al 19 novembre 2016 con la partecipazione di diciotto studiosi, il rapporto fra mondo classico e moderno era stato pressoché paritario.
Gli autori afferiscono a importanti istituzioni di diversi Paesi, fornendo un esempio di convergenza internazionale su un ambito di ricerca: Scuola Normale Superiore di Pisa; Università di Venezia, København, Köln, Scuola IMT Alti Studi di Lucca e The Collecting and Display Seminar Group at the Institute of Historical Research, London; Musei: Gallerie degli Uffizi di Firenze, Kunsthistorisches Museum di Vienna, Ashmolean Museum di Oxford.
Seguendo la politica editoriale di De Gruyter, quasi tutti i saggi sono in lingua inglese (vengono tradotte in inglese anche citazioni da altre lingue europee e da quelle classiche), benché per la maggioranza degli autori l’inglese non sia la madrelingua; al proposito si è svolto sul sito www.academia.edu un dibattito, avviato da Alexander Rubel il 9 aprile 2021: Open letter to De Gruyter concerning “English only” language policy for “Trends in Classics Book Prize” for early career researchers, al quale hanno partecipato numerosi studiosi di varia nazionalità, a dimostrazione di quanto il tema sia considerato attuale e coinvolgente.
Nel saggio introduttivo (Beyond “Art Collections”. Rethinking a Canon of Historiography), Gabriella Cirucci e Walter Cupperi forniscono una opportuna e solida cornice per i contributi successivi, dichiarando il principale intento del volume, cioè la proposta di un mutamento di punto di vista rispetto agli studi considerati fondamentali per la storia del collezionismo (non solo di antichità). Gli autori discutono quindi i presupposti teorici esposti negli studi di von Schlosser, Pomian e altri, suggerendo un approccio più inclusivo, rivolto all’indagine sugli “accumuli di oggetti”, senza distinzione gerarchica o di contesto e senza farsi condizionare dalla trasposizione nel mondo antico del concetto moderno di museo (ricorrente negli studi).
Nel saggio Displacing Artifacts. Towards a Framework for Studying Collecting in the Ancient Roman World, Jane Fejfer discute dapprima gli studi precedenti relativi al collezionismo antico, riconoscendone il valore, ma anche rilevando la necessità di superare la prevalente attenzione per le fonti letterarie, a favore dell’analisi degli oggetti come «part of social interaction».
La studiosa sottolinea la complessità della genesi di una collezione – strettamente correlata alla complessità dell’essere umano – con un accenno alla nascita e al destino della raccolta di Henry Blundell e sviluppa poi estesamente il tema nel case study delle sculture della Villa dei Papiri di Ercolano (con attenzione particolare ai ritratti), scelta motivata dalla considerevole ampiezza della raccolta e dall’elevata quantità di informazioni disponibili su di essa.
Nonostante tale favorevole base di partenza, l’analisi porta a evidenziare le lacune nella conoscenza e soprattutto a prender atto che la collezione ercolanese non fu un insieme immutato, del quale sia oggi possibile delineare un programma unitario e ben definito, ma piuttosto (come molte raccolte) un organismo che si trasformò nel tempo, caratterizzato da «flux and infinity».
In Too Ugly to be Collected? Unexpected Greek “Originals” in Roman Contexts, Gabriella Cirucci prosegue la sua pluriennale ricerca sulle presenze di originali greci nel mondo romano, con attenzione anche a opere anonime o addirittura “brutte”, ma utili per comprendere cosa realmente potesse essere oggetto da collezione (collectible) in età romana, rivedendo i paradigmi moderni in proposito.
L’autrice propone due casi in particolare, il relitto di Mahdia e la Casa degli Amorini dorati di Pompei. Nel primo contesto sono stati rinvenuti tre rilievi figurati greci in marmo, dapprima considerati come zavorra della nave e poi rivalutati come possibili oggetti da collezione, e una serie di monumenti aniconici iscritti, qui riesaminati ricordando le opinioni in merito di altri studiosi e proponendo infine di tener conto dell’eventualità che non fossero privi di interesse antiquario.
Per la Casa degli Amorini dorati, è esaminato il ruolo di un rilievo del primo Ellenismo con Afrodite e Eros, esposto nel peristilio nell’ultima fase di rinnovamento della domus, accanto ad altri rilievi di epoca varia, come parte del percorso culturale e artistico offerto al visitatore dal proprietario. Di nuovo, pur riconoscendo di non poter cogliere le “ragioni” profonde del collezionista, la studiosa propone una rivalutazione del rilievo e delle opere analoghe, anche come indicatori delle trasformazioni relativamente rapide che poteva subire una raccolta antica. Rileva infine la necessità di procedere caso per caso, evitando interpretazioni univoche.
Eva Falaschi, in Collecting and Owning Sikyonian Paintings. Aratus of Sikyon and his Interest for Art in Plutarch’s Perspective, esamina un brano della Vita plutarchea di Arato di Sicione, statista e storico vissuto nel III sec. a.C. Il testo tratta della passione di Arato per la pittura, che lo condusse a sviluppare una raffinata capacità di giudizio su disegni e dipinti, a collezionarli e a utilizzarli in ambito diplomatico nel rapporto con Tolomeo II d’Egitto.
Poiché la distanza cronologica fra gli accadimenti narrati e il testo di Plutarco è di alcuni secoli, la studiosa ritiene necessario verificare l’attendibilità del racconto plutarcheo e il ruolo che vi giocarono le concezioni dell’epoca imperiale romana, investigando dapprima quale fosse il peso effettivo delle arti grafiche e pittoriche nell’ambito dell’educazione scolastica greca tardoclassica ed ellenistica.
L’analisi di fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche, consente di stabilire l’importanza dello studio del disegno per i giovani aristocratici del III sec. a.C., confermando il racconto di Plutarco, che si rivela fondamentale anche per delineare i rapporti intercorsi fra Arato e gli artisti di Sicione. D’altra parte influenzarono la narrazione del biografo le teorie artistiche del suo tempo, in cui la pittura sicionia godeva di grande fama. Si nota in conclusione che il racconto non solo è storicamente attendibile ma riflette il profondo interesse dello stesso Plutarco per la pittura, in un sistema di relazioni culturali in cui è difficile tracciare confini precisi. Nell’Appendice, è fornito il testo in greco e la traduzione in inglese del brano preso in esame.
Con il saggio Ut etiam fictilia pluris constent quam murrina. Art market, Canons, and Archaeological Evidence Gianfranco Adornato si riallaccia a un più vasto progetto, attorno al quale il volume stesso si è coagulato (PRIN 2012 Oltre Plinio, sostenuto dal Ministero per l’Università e la Ricerca), proponendo una versione aggiornata di un contributo presentato nel 2016 a San Francisco, al congresso Pliny’s History of Ancient Art. Towards a contextual Perspective. L’obiettivo è quello di riesaminare – in una visione non frammentata – tutte le informazioni fornite nella Naturalis Historia sul mercato dell’arte a Roma, non limitandosi alle notizie sulle opera nobilia. Ci si propone anzi di superare la distinzione fra opere d’arte, arredi di lusso e oggetti funzionali, considerandola fuorviante, e di verificare i dati emersi con l’evidenza archeologica, rappresentata in particolare dai carichi delle navi affondate nel Mediterraneo mentre trasportavano merci dalla Grecia a Roma.
Un capitolo è quindi dedicato al valore economico attribuito da Plinio a materiali e oggetti diversi e alle ragioni che determinarono tali valutazioni, mettendo in luce come la prospettiva dell’autore antico non sia gerarchica: il costo di piatti in ceramica poteva eguagliare quello di famosi dipinti, quindi il prezzo non dipendeva dal medium, ma da criteri di volta in volta differenti (ars, materia, fragilitas, ecc.). Si confrontano le valutazioni estetiche espresse da Plinio, Cicerone e Quintiliano (tabella a p. 106) in particolare su pittura e scultura greche, rivelatrici dei loro differenti approcci.
Viene infine riesaminato il carico del relitto di Antikythera «as a whole», quindi non solo riguardo alle sculture in bronzo e marmo (ritenute raccolte a seguito di commissione a una bottega di scultura o a un mercante d’arte), ma anche ai reperti “minori”: arredi bronzei, vasi di vetro e di ceramica, gran parte dei quali potevano essere per i Romani oggetti esotici e meritevoli di essere collezionati, evidenziando in conclusione come non opportuna (e scarsamente produttiva per la ricerca) la distinzione moderna fra arte e artigianato.
Alessandro Poggio (Accumulating and Interacting. Artworks in Ancient Rome’s Public Spaces) intende approfondire i meccanismi di interazione fra popolo e opere d’arte esposte negli spazi pubblici romani (finora esaminate soprattutto come elementi costitutivi di “collezioni pubbliche”) sulla base dei criteri che contraddistinguono nella teoria attuale le opere musealizzate: visibilità, intangibilità e immobilità.
Dapprima sono considerati i casi di due luoghi pubblici dell’Urbe, entrambi multifunzionali e in parte destinati a biblioteca, come nel mondo ellenistico in cui spesso opere letterarie e arti visive erano collegate; mentre il complesso templare di Apollo Palatino è un esempio di accumulazione di opere d’arte quasi unitaria e legata a un solo personaggio (Augusto), l’allestimento della Porticus Octaviae fu il risultato di più fasi espositive. Le diverse funzioni cui gli spazi erano destinati potevano condizionare, anche in senso negativo, il rapporto fra pubblico e opere d’arte.
La visibilità poteva infatti essere limitata dalla densità delle opere accumulate, dalla collocazione prescelta, dal loro nascondimento in occasione di particolari attività temporanee o per motivi politici, in contrasto anche con il principio di intangibilità, negato pure da interventi onorari o spregiativi e da riutilizzi e trasformazioni. L’autore mette dunque in guardia dall’equiparazione fra luoghi pubblici espositivi romani e moderni musei, che ha talvolta condotto gli studiosi a interpretazioni delle suddivisioni degli spazi antichi e dei loro apprestamenti architettonici lontane dalla realtà. Anche il principio dell’”immobilità” risulta ampiamente contraddetto dagli spostamenti subiti dalle opere d’arte, per motivi diversi, dalla periferia alla capitale e all’interno dell’Urbe.
Il saggio si conclude con interessanti considerazioni sul concetto contemporaneo di museo, nel quale visibilità, intangibilità e immobilità sono ugualmente messe in discussione, introducendo a una più ampia comprensione delle dinamiche presenti nel mondo romano.
Il contributo di Susan Walker Memories of Mauretania è dedicato a A Late Antique Installation in the House of Venus, Volubilis. Dopo una sintetica storia delle ricerche sulla domus e sulle opere in essa rinvenute, l’autrice ricorda il progetto su Volubilis avviato dall’Institute of Archaeology, University College, di Londra nel 2002-2003 in collaborazione con l’INSAP del Marocco, in cui la Casa del Corteo di Venere ebbe il ruolo di caso-pilota per la metodica di conservazione e valorizzazione per i visitatori della città antica.
L’autrice offre una rapida sintesi della storia di Volubilis e inquadra la Casa nella sua urbanistica, ricordando che la cronologia di costruzione proposta da Robert Etienne è da rivedere a favore di una datazione più risalente. Viene poi proposta una visita dei principali ambienti della domus, in riferimento a una planimetria (fig. 1 a p. 137, con numeri poco leggibili), menzionando - in rapporto alla loro collocazione - le sculture in bronzo ivi ritrovate (edite nei volumi dedicati ai bronzi del Marocco da Christiane Boube-Piccot). Sono esaminate in particolare le stanze 16 e 17, in cui la collocazione dei busti bronzei di Catone e Giuba viene strettamente correlata alla stesura dei mosaici, databili secondo nuove considerazioni nel IV secolo, quando la domus (molto dopo l’abbandono della città da parte degli amministratori romani) è di nuovo occupata e ristrutturata, creando una grande residenza, con l’utilizzo di tessere di riciclo per i mosaici e con il recupero di sculture più antiche, che assumono ulteriori significati nella nuova sistemazione. La studiosa conclude con il suggerimento di indagare sotto questa luce anche altre residenze di Volubilis.
Georg Plattner dedica il suo saggio a due casi specifici, relativi a opere conservate nel Kunsthistorisches Museum (ed Ephesos Museum) di Vienna: The “Marmorsaal” of the Harbour Baths in Ephesus and the Avarian Treasure of Nagyszentmiklós. Dapprima viene riesaminata la Marmorsaal delle Terme del porto di Efeso, a partire dalle informazioni fornite dagli scavi austriaci di fine Ottocento, dalle quali si può dedurre – seppure con cautela per l’incompletezza dei dati – l’abbandono dell’ambiente dopo un grave terremoto verificatosi nel III secolo d.C. La sala era uno spazio di rappresentanza, mentre non è certo – come Plattner sottolinea – che fosse votata al culto imperiale, poiché non vi è convergenza degli studiosi sull’interpretazione di alcuni frammenti di sculture in marmo e bronzo (sacerdoti/sacerdotesse di tale culto oppure evergeti di spettacoli atletici). La sala fu costruita nel 92-93 e “arredata” nel II secolo con numerose sculture di varie dimensioni, che vengono qui riconsiderate nell’insieme, in rapporto al contesto di ritrovamento (fig. 4), evidenziando riferimenti a importanti luoghi di culto del mondo antico, ma anche a capolavori di grandi artisti del passato, con un possibile duplice ruolo di sacralità e di esposizione artistica, secondo modalità che si ritrovano in altre grandi terme dell’Impero.
Riguardo al tesoro di Nagyszentmiklós (23 recipienti per circa 10 kg di oro, rinvenuti nel 1799 in una località oggi in Romania), l’analisi dei vasi consente di individuare gruppi di cronologia differente (fra fine VII e VIII sec. d.C.), che testimoniano una raccolta scaglionata nel tempo, con riferimenti a tradizioni artistiche di differenti civiltà del passato e la scelta di iconografie in alcuni casi insolite o uniche. Colui o coloro che raccolsero il tesoro, riferito agli Avari, dovevano possedere una vasta cultura e poterono avvalersi dei migliori artigiani, in una trama di scambi culturali meritevole di ulteriori approfondite indagini.
Susan Wittekind, con Treasures on Display. On the Forms of Exhibition of Medieval Church Treasures, si propone di chiarire se i tesori ecclesiastici medievali possano essere considerati collezioni, secondo le indicazioni di Pomian e von Schlosser, e se fossero percepiti come tali dai contemporanei, facendo uso di numerose fonti scritte, quali inventari e cronache, scaglionate su più secoli e molto diverse fra loro negli scopi, nell’esposizione e nelle informazioni fornite.
A seguito di una ben documentata rassegna, l’autrice mette in luce la sostanziale differenza fra i tesori ecclesiastici medievali e le collezioni moderne: i primi sono governati dalla casualità, subiscono perdite, benché vengano conservati in luoghi sorvegliati e non siano destinati in prima istanza alla pubblica osservazione, a parte quegli oggetti che in alcune occasioni (festività religiose, anche con significato politico) venivano esposti sull’altar maggiore o portati in processione, soprattutto nel basso Medioevo. Ribadisce quindi la necessità di considerare questi tesori diversamente rispetto a collezioni e musei, per una loro migliore comprensione.
In Charles V’s Valuables in Simancas. Titian’s Charles V with a Drawn Sword and Other Items with a Controversial Status, Walter Cupperi prende in considerazione la presenza di un notevole numero di oggetti di proprietà di Carlo V d’Asburgo a Simancas (1543-1561), a partire dagli studi recenti, e in rapporto ad altri luoghi in cui l’imperatore fece collocare complessi di oggetti. Simancas viene scelta in quanto caso particolare, poiché non era una residenza imperiale ed è nota soprattutto come sede dell’archivio di stato, quindi meno studiata rispetto ad altri “repositories” del sovrano. Il riferimento è ancora a von Schlosser e Pomian, per comprendere se le loro linee-guida possano applicarsi a questo caso.
Vengono esaminate le indagini di altri studiosi dalla metà dell’Ottocento, individuando stereotipi e tesi contrapposte attorno all’attitudine “collezionistica” del monarca spagnolo, a partire anche dall’analisi degli inventari delle sue proprietà. Ciò conduce a precisazioni e scoperte sulle opere d’arte conservate a Simancas, in particolare all’identificazione del ritratto (perduto) dell’imperatore in abito militare di Tiziano con un ritratto menzionato come dipinto a Bologna e portato in Spagna nel 1533-1534. Lo studioso conclude il saggio evidenziando le peculiarità dell’accumulo di oggetti in Simancas e quanto esso sia lontano dai concetti moderni di museo e collezione.
Valentina Conticelli – nel saggio Studiolo, Grotta, Cupola e Museum. La Tribuna di Francesco I de’ Medici e le Stanze di Bianca Cappello e Don Antonio agli Uffizi – prosegue ricerche iniziate alcuni anni orsono sulla preziosa Tribuna fiorentina, in cui la tradizione umanistico-rinascimentale degli studioli raggiunge uno dei suoi punti più alti. L’autrice ricerca in particolare, con l’ausilio di ampia bibliografia, i punti di contatto con l’ambiente della grotta, elemento naturale imitato artificialmente per il suo complesso significato simbolico. Oltre alla Tribuna vengono esaminati i “camerini” destinati a Bianca Cappello in Palazzo Vecchio e agli Uffizi, con l’ausilio di documenti inediti, presentati in calce al contributo.
Vengono dapprima citate le denominazioni date dai contemporanei alla Tribuna, dirigendo l’attenzione sul termine di “spelonca” usato dal Granduca Francesco, in riferimento alle speluncae menzionate dagli autori antichi, e sulle assonanze fra la Tribuna e le grotte marine artificiali; poi l’applicazione del termine nel Rinascimento e i collegamenti fra la Tribuna e ambienti famosi come i camerini di Isabella d’Este e l’Antiquario Grimani.
Nel contributo A Material Dynasty. Royal Collections and Collecting in Tudor England, 1485-1603, Andrea Gáldy esamina la cultura di corte dei primi Tudor (Enrico VII e VIII) nel contesto del collezionismo europeo, nell’intento di rivalutare i “rinascimenti” regionali o periferici rispetto a quello italiano e invitando a tener conto dell’aspetto religioso della Riforma.
Vengono sottolineati i legami dinastici, matrimoniali, territoriali fra i sovrani inglesi e i regni continentali e quanto contassero in generale per le aristocrazie europee il collezionismo e l’ostentazione delle opere possedute per dar corpo alle proprie ambizioni; si nota anche quanto abbia inciso negli studi l’interesse per la storia matrimoniale, dinastica e religiosa in particolare di Enrico VIII, a scapito delle indagini sugli aspetti culturali del regno dei primi Tudor.
I Tudor costruirono o ampliarono numerose residenze, in parte ispirate all’architettura italiana e francese; Enrico VII istituì la Royal Library e altre biblioteche, in cui confluivano doni diplomatici, e il suo operato venne proseguito dall’erede. Egli intuì anche la valenza politica della ritrattistica, accogliendo artisti stranieri, con una preferenza per tedeschi e fiamminghi, mantenuta dal figlio Enrico VIII. Altri settori particolarmente curati furono quello degli arazzi e delle armi (considerati insoliti in ambito collezionistico), privilegiati come espressione della magnificenza della corte, nel desiderio di emulare altre dinastie e il ducato di Borgogna in particolare.
Gli apparati comprendono l’elenco degli autori con gli indirizzi di posta elettronica, l’indice analitico dei nomi (di persone e di luoghi) e undici tavole a colori di qualità non elevata (che ripropongono talvolta figure presenti in bianco e nero altrove nel volume). In particolare la Tav. I, alla quale fa riferimento Jane Fejfer nel suo saggio (p. 43), non consente per le dimensioni ridotte un immediato riscontro delle osservazioni dell’autrice.
Il volume è particolarmente denso di spunti di riflessione, pervaso dalla volontà di introdurre punti di vista innovativi e certo foriero di sviluppi delle ricerche sul collezionismo.
Indice
Introductory Essay Beyond “Art Collections”. Rethinking a Canon of Historiography Gabriella Cirucci, Walter Cupperi - 9
Essays Displacing Artifacts. Towards a Framework for Studying Collecting in the Ancient Roman World Jane Fejfer - 29
Too Ugly to be Collected? Unexpected Greek “Originals” in Roman Contexts Gabriella Cirucci - 55
Collecting and Owning Sikyonian Paintings. Aratus of Sikyon and his Interest for Art in Plutarch’s Perspective Eva Falaschi - 77
Ut etiam fictilia pluris constent quam murrina. Art market, Canons, and Archaeological Evidence Gianfranco Adornato - 95
Accumulating and Interacting. Artworks in Ancient Rome’s Public Spaces Alessandro Poggio - 113
Memories of Mauretania. Late Antique Installation in the House of Venus, Volubilis Susan Walker - 133
The « Marmorsaal » of the Harbour Baths in Ephesus and the Avarian Treaure of Nagyszentmiklós. Two Case Studies Georg A. Plattner - 149
Treasures on Display. On the Forms of Exhibition of Medieval Church Treasures Susanne Wittekind - 163
Charles V’s Valuables in Simancas. Titian’s Charles V with a Drawn Sword and Other Items with a Controversial Status Walter Cupperi - 183
Studiolo, Grotta, Cupola e Museum. La Tribuna di Francesco I de’ Medici e le Stanze di Bianca Cappello e Don Antonio agli Uffizi Valentina Conticelli - 199
A Material Dynasty. Royal Collections and Collecting in Tudor England, 1485-1603 Andrea M. Gáldy - 227
Authors - 249 Index - 251 Credits - 257 Plates - 261
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Éditeurs : Lorenz E. Baumer, Université de Genève ; Jan Blanc, Université de Genève ; Christian Heck, Université Lille III ; François Queyrel, École pratique des Hautes Études, Paris |