Curti, Mario: Oculus fallit. Il tempio greco e il mito delle ‘correzioni ottiche’, Pagine 280, con oltre 80 illustrazioni in b/n, 15,5 x 21,5 cm, brossura, ISBN 978-88-85795-73-0, € 40,00
(Campisano editore, Roma 2021)
 
Compte rendu par Olimpia Ratto Vaquer, EPHE
 
Nombre de mots : 1597 mots
Publié en ligne le 2022-11-29
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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       In questo testo Mario Curti affronta, con rigore e completezza quasi enciclopedica, il secolare problema dell’identificazione e della comprensione delle correzioni ottiche nei templi greci. Come nota Louis Godart nella prefazione al volume, il professor Curti dimostra che «ben aldilà di una improbabile volontà estetica predeterminata, le varie ‘correzioni’ presenti nei templi greci altro non sono che risultato di una pratica costruttiva che, affinatasi nel tempo, ha finito per comporre la materia secondo assetti geometrico-costruttivi niente affatto ‘anomali’ ma del tutto inevitabili, quasi automatici, e, almeno in una prima fase, forse addirittura non previsti dagli stessi costruttori, che hanno agito senza alcuna intenzione di carattere ottico-estetico […] si tratta di un’Arte, una τέκνη di altissimo livello che, giunta al massimo grado del suo sviluppo, ha potuto persino anticipare, almeno in alcuni casi nelle sue espressioni più mature, le leggi fondamentali della stessa scienza delle costruzioni e, per taluni aspetti, un’esattezza analoga a quella della moderna tecnologia industriale della lavorazione del marmo» (pp. 14-15).

 

       L’autore ricerca le origini di quello che lui stesso definisce il mito delle ‘correzioni’ partendo dalle considerazioni di Vitruvio e analizzando il diametro delle colonne, le colonne angolari, la rastremazione delle colonne e le dimensioni degli architravi, l’entasi, la curvatura dello stilobate e gli scamilli impares.

 

       Per affrontare la propria ricerca ritiene necessario indagare il tempio greco non solo per il suo aspetto odierno, ma soprattutto per come presumibilmente doveva essere stato costruito, nel modo che doveva essere sembrato «il più funzionale, economico e sollecito ai suoi ideatori e ai suoi costruttori semplicemente guidati dall’esperienza e non ancora da una vera e propria scienza delle costruzioni e oltretutto privi di mezzi tecnici che non fossero quelli esclusivamente manuali o basati su rudimentali mezzi meccanici». Il rischio è altrimenti quello noto, e ripetuto nei secoli, di valutare un tempio costruito più di 2000 anni fa con criteri odierni, come se materiali e tecniche del tutto diverse potessero essere particolari trascurabili, o come lo giudicava Vitruvio 500 anni dopo, quando già i materiali da costruzione e le tecniche di lavorazione erano di molto mutati.

 

       Seguendo invece una via di analisi che tenta di immedesimarsi in condizioni materiali e culturali quanto più possibile aderenti al periodo storico in cui videro la luce i templi greci si può giungere, come analizzato nel volume, ad interpretazioni conclusive circa la natura delle correzioni, in gran parte diverse da quelle fornite finora da pressoché tutti gli studiosi. C’è quindi, come confessa l’autore, il pericolo, o l’opportunità, di risollevare polemiche che hanno a che vedere con il controverso rapporto tra arte e tecnica nel caso in questione; tuttavia, la vexata quaestio può essere superata con la semplice considerazione che per l’architettura greca classica il dissidio tra arte e tecnica semplicemente non esiste. Nonostante le prove contrarie ben esplicitate da Mario Curti, molti autori hanno continuato, e tuttora continuano, a considerare le correzioni come raffinate soluzioni frutto di una sensibilità visiva che noi, oggi, non saremmo nemmeno più in grado di comprendere.

 

       Nel primo capitolo l’autore pone in evidenza il tema delle correzioni ottiche e delle numerose incongruenze sul tema nel testo di Vitruvio. Nel confronto Curti pone in luce una netta diversità di interpretazione, non solo tra le cause che provocherebbero la necessità di correzioni, ma anche tra i rimedi proposti. Non si può quindi affermare che nel De architectura si sia in presenza di una vera formulazione pienamente scientifica della teoria generale delle correzioni, coerente in tutti i suoi aspetti al fine di superare alcune illusioni ottiche, considerate come sgradevoli e fuorvianti nell’apprezzamento delle reali fattezze del tempio e dei suoi singoli elementi costitutivi. Questa carenza teorica si manifesta a cominciare dall’analisi della natura delle illusioni ottiche, che di volta in volta, pur trattandosi nella maggior parte dei casi di fenomeni tutti sostanzialmente riconducibili alla sfera della percezione sensoriale, Vitruvio sembra riferire a cause di carattere sia oggettivo che soggettivo.

 

       Tra i vari fattori, il più problematico da identificare è il preciso punto di osservazione del tempio rispetto a cui ogni correzione dovrebbe essere calcolata. Si è visto infatti come ogni volta le correzioni entrino puntualmente in conflitto con ogni punto di osservazione diverso rispetto a quello, peraltro ipotetico, a cui sembrano riferirsi. Ne consegue che tutte le indicazioni di Vitruvio dovrebbero forse essere intese solo come suggerimenti utili alla progettazione o, tutt’al più come esempi di un metodo da seguire, mediato e interpretato dall’intelligenza dell’architetto. Questo problema mette quindi in discussione il ruolo dell’architetto nel valutare l’opportunità o meno delle correzioni proposte da Vitruvio e le eventuali modalità esecutive nella loro applicazione.

 

       Il testo prosegue con l’analisi della ricezione dell’opera vitruviana nei testi rinascimentali di Alberti, Cesariano, Serlio, Antonio da Sangallo il Giovane, Barbaro e Gallaccini. Segue La crisi dell’idea di proporzione per Galilei, Guarini, Perrault e Pozzo, affrontando poi la comprensione delle curvature secondo i diversi interpreti rinascimentali di Vitruvio e l’idea dei templi greci nell’immaginario degli architetti quattro-cinquecenteschi.

 

       Seguendo un andamento cronologico, il testo prosegue con la ricezione delle correzioni degli studiosi dell’Ottocento, in concomitanza con la nascita dell’archeologia e dei primi rilievi sistematici dell’antico, con la scoperta del colore forse inseribile tra le correzioni ottiche. Ovviamente la concentrazione generale si incentra sul Partenone, dove in effetti si ritrovano applicate la maggior parte delle correzioni. Gli interrogativi posti dagli studiosi del XIX secolo sono gli stessi di sempre, affrontati però con un atteggiamento aprioristico per il quale qualsiasi anomalia venne interpretata come una precisa volontà di correzione, come l’autore evince dai diversi rilievi sempre del tempio del Partenone. Curti si concentra in particolare sugli studi francesi, di Viollet le Duc e di Choisy, dove il primo sembra quasi non aver mai letto, almeno direttamente, Vitruvio mentre il secondo lo segue nell’affrontare le diverse correzioni. Non può chiaramente mancare poi un riferimento alle teorie estetiche-esoteriche-matematiche, particolarmente presenti in letteratura dalla metà dell’Ottocento.

 

       Sulla stessa linea, il testo prosegue con l’analisi delle correzioni negli autori novecenteschi, ponendo l’accento, più che sulle “soluzioni trovate”, sulla mancanza di risposte e la difficoltà nel proporre teorie fondate. Tra tutte, viene evidenziata l’incongruenza per la quale, abbinando diverse soluzioni ottiche, queste si escludono a vicenda essendo diverso il ruolo al quale assolvono. Come nel resto del volume, le teorie dei diversi autori sono sempre messe in correlazione con le scoperte archeologiche coeve, evidenziando i nuovi dati a disposizione.

 

       Curti conclude con la messa in guardia dall’elaborare nuove teorie senza tener conto degli errori in cui si è incorsi nel passato e da lui ben evidenziati in tutto il corso del volume. Ad esempio, se le correzioni fossero veramente volute ai fini estetici, esse testimonierebbero – se non di una vera e propria conoscenza di teorie ottiche e scientifiche, cosa, come dimostrato dall’autore, del tutto impossibile – di una notevole anche se istintiva sensibilità visiva dei costruttori, dei fruitori del tempio, nel suo insieme e nei suoi contesti urbanistici. «Ma allora, come spiegare il fatto che nei vari santuari e sulla stessa acropoli di Atene, malgrado alcuni tentativi del tutto discutibili che vogliono tutti i costi vedervi precisi criteri prospettici come squisiti, in realtà non è dato individuare alcun principio organizzativo tantomeno visivo nella distribuzione dei templi ma solamente alimentari principi di collocazione in zone casuali forse più favorevoli alla loro costruzione e utilizzazione? Inoltre, ammesso che fosse presente e operante una notevole sensibilità visiva, come giustificare il fatto che le metope del Partenone sicuramente scolpite per essere osservate a più di 10 m di altezza mostrano invece particolari apprezzabili solo a distanza certamente ravvicinata? E ancora più eclatante come giustificare la circostanza che i gruppi marmorei del timpano sempre del Partenone siano stati scolpiti da Fidia con estrema cura anche nelle loro parti posteriori sicuramente non visibili dal basso? Questo atteggiamento ostinato di molti autori riconduce a un dissidio di fondo, che ha caratterizzato da almeno due secoli la critica architettonica e che può essere riassunto in questi interrogativi. La bellezza di un edificio di qualunque epoca esso sia è solo frutto di un atto creativo determinato da impulsi riconducibili alla sfera irrazionale del sentimento o non è quantomeno condizionata dalle tecniche costruttive e da esigenze pratiche di una sua ottimale fruibilità e la tecnica non può in talune condizioni essere considerata essa stessa una forma di arte in fondo l'enigma del mito delle correzioni può essere in linea generale ricondotto a questi interrogativi e alle risposte che ne sono state date quasi sempre astraendo dai procedimenti costruttivi del tempio».

 

       Il volume è notevolmente impreziosito dal ricco apparato iconografico inserito nel testo, composto da numerosi disegni dell’autore e dalle riproduzioni di diverse tavole dei molteplici trattati a cui si fa continuamente riferimento e che agevolano la comprensione del lettore. Si distingue per la completezza dei temi trattati all’interno del grande campo delle correzioni e per la fluidità del discorso, nonostante il carattere scientifico.

 

       Il volume si conclude con quella che si sarebbe potuta immaginare come la premessa, ovvero la descrizione dei principi costruttivi delle diverse parti del tempio, evidenziando le difficoltà e proponendone le probabili soluzioni, seguendo le logiche della tecnica e della prospettiva. La tecnica è quindi poi protagonista dell’ultimo capitolo, Il tempio greco: la tecnica come forma d’arte, riproponendo fino all’ultima riga il monito ad una lettura non pregiudizievole dell’architettura. 


N.B. : Mme Olimpia Ratto Vaquer prépare actuellement une thèse de doctorat intitulée "Le statut de l'antique dans les dessins de Giuliano da Sangallo" sous la co-direction de Mme Sabine Frommel (EPHE-PSL) et Mme Emanuela Ferretti  (université de Florence).