Katz, Dana E.: The Jew in the Art of the Italian Renaissance, 248 pages, 6 x 9, 70 illus., Cloth 2008, ISBN 978-0-8122-4085-6, $55.00, £36.00. A volume in the Jewish Culture and Contexts series
(University of Pennsylvania Press 2008)
 
Reviewed by Eva Renzulli, Venice International University
 
Number of words : 2102 words
Published online 2009-01-15
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=449
 
 

Questo studio investiga il concetto e le dinamiche di tolleranza nei confronti degli Ebrei nel contesto del Rinascimento Italiano attraverso un attenta lettura comparata di documenti, testi letterari e testi figurativi da un punto di vista socio-storico.  Dana Katz concentra la sua attenzione sulle signorie di Urbino, Mantova e Ferrara - dove tra Quattro e Cinquecento fioriscono delle comunità ebraiche prosperose – ma include, per contrasto, anche i casi della repubblicana Firenze e dell’imperiale Trento.


Opere conosciute quali la pala della Madonna della Vittoria di Andrea Mantegna, o la predella che narra il Miracolo dell’Ostia Profanata di Paolo Uccello vengono poste in un contesto più ampio di opere minori, ma altrettanto significative, e quindi insieme a queste, rilette e reinterpretate.


Sebbene come sottolinea l’autrice, là dove fiorisce la promozione di immagini aggressive nei confronti degli ebrei i sovrani sembrano essere più tolleranti, questa incoerenza, dopo una attenta analisi si rivela solo apparente. Infatti secondo Katz le comunità cristiane rinascimentali definiscono se stesse e la propria religione attraverso la produzione di immagini finalizzate ad umiliare gli ebrei e in tal modo inducono coesione sociale all’interno delle comunità. Definendo la propria posizione, e allo stesso tempo, canalizzando la violenza contro gli ebrei verso lo spazio simbolico delle immagini, i sovrani che attuano tale approccio ritagliano un posto all’interno delle mura cittadine per “l’altro”, garantendone la sicurezza.

 

A Firenze e Trento invece la violenza contro gi ebrei non riesce ad essere canalizzata verso il piano simbolico dell’immagine e, se nel caso fiorentino la situazione sfugge al controllo delle autorità evidenziando il precario potere dei Medici l’indomani della scomparsa di Lorenzo il Magnifico, nel caso trentino sono proprio le immagini e la loro diffusione a fomentare e a far dilagare la violenza.
Diviso in cinque capitoli, il libro affronta uno o più case-study per città, considerati in una prospettiva comparativa, per poi tirare le conclusioni alla fine del libro attingendo anche alla contemporaneità: portando ad esempio la recente diatriba mantovana (1995) sulla necessità di togliere dal suo contesto ecclesiastico (nella centralissima chiesa di S. Andrea) la Madonna Norsa, che a causa della sua accezione antiebraica secondo alcuni necessita di essere trasferita in un museo per poterne spiegare in dettaglio genesi, significato e contesto storico.

 

Dopo una densa introduzione, il libro si apre con un capitolo dedicato al caso di Urbino ed alla pala e predella dell’altare della Confraternita del Corpus Christi, dipinte rispettivamente da Joos van Ghent (Giusto di Gand) e Paolo Uccello. Prendendo le mosse dal fondamentale saggio di Marilyn Aronberg Lavin che per prima, già nel 1967, aveva cercato di districare i significati sottesi di tali dipinti, leggendo insieme pala (la Cena degli Apostoli) e predella (il Miracolo dell’Ostia profanata) Dana Katz approda ad una nuova lettura. Per quanto riguarda la predella, Katz, ricordando come le sei scene della profanazione dell’Ostia non si erano verificate ad Urbino, ma derivano da una leggenda riportata in varie fonti parigine del XIII secolo riprese poi in vari testi letterari tre e quattrocenteschi, traccia la genealogia italiana del tema iconografico, in tal modo arrivando a sottolineare le peculiarità della narrazione di Paolo Ucello. Questa, a differenza di altre rappresentazioni italiane offre molti più dettagli,  illustra non solo il momento dello scambio tra la donna cristiana e l’usuraio ebreo, ma le sue conseguenze, il supplizio degli ebrei, e in particolare la redenzione della donna pentitasi del suo peccato. L’autrice vi vede, come già Lavin, il riflesso della politica federiciana nei confronti degli ebrei: disposto a tollerare gli ebrei nel suo ducato per la loro utilità economica e sociale e per l’impatto positivo che aveva sulla città  la loro professione di prestatori, purché rispettassero la religione cristiana e non si verificassero casi di blasfemia quali quello rappresentato nella predella. Ma è la lettura della pala – e di conseguenza la lettura combinata dell’insieme -  che si discosta maggiormente da l’interpretazione di Lavin. Se Lavin aveva identificato nella misteriosa figura barbuta, accanto a Federico da Montefeltro nella pala del fiammingo,  l’ambasciatore persiano -un dottore ebreo- che in visita a Roma nel 1472 si era convertito al cristianesimo, e aveva quindi interpretato il programma di predella e pala rispettivamente come il destino riservato agli ebrei che errano, e la redenzione che porta il pentimento e la conversione, leggendovi la volontà da parte dei Montefeltro di favorire la creazione di una comunità ecumenica cristiana. Nella presenza del ambasciatore persiano Katz vede piuttosto un’allusione al ruolo di Federico come protettore della cristianità contro l’infedele. Il Duca di Montefeltro, qui intento in un dialogo con l’ambasciatore, è ritratto mentre rinnova l’alleanza con la Persia contro i Turchi, una minaccia preoccupante per la cristianissima penisola italiana dopo la caduta di Costantinopoli (1453). La presenza di Federico accanto all’ambasciatore persiano -  mentre assistono alla cena in cui il pane e il vino diverranno per la prima volta corpo e sangue di Cristo a sottolineare il suo sacrificio per l’umanità - e al contempo l’associazione di tale scena alla narrazione della predella fanno del duca il garante assoluto della religione cristiana contro ogni “pericolo” infedele. Pala e predella illustrano il fulcro del programma del duca di Montefeltro: è attorno all’eucaristia che la comunità si raccoglie e si identifica ed è attraverso la sua profanazione che si definiscono i limiti di tale comunità.

 

La Mantova dei Gonzaga di fine Quattrocento è il teatro del secondo capitolo. Qui, il Marchese Francesco Gonzaga, in drammatico contrasto con la situazione contemporanea spagnola, proteggeva gli ebrei, anche dalle ingiurie dei suoi sudditi cristiani. Ma se non permetteva ai suoi sudditi di offendere gli ebrei presenti in città non si mostra flessibile quando uno di questi, il ricco banchiere Daniele Norsa (1448-1528), copre con una mano di bianco un affresco rappresentante la Vergine che si trovava su un muro esterno della sua abitazione. Nonostante il fatto che il banchiere avesse chiesto, e anche ricevuto, un permesso dalle autorità ecclesiastiche competenti, i mantovani prendono tale azione come una offesa alla religione cristiana e ingiuriano e assalgono i Norsa. Placate da Isabella d’Este, reggente in assenza di suo marito, le proteste dei suoi sudditi diventano invece l’occasione per il Marchese di deviare l’attenzione dalle recenti perdite subite dalle sue armate a causa di suoi errori strategici e celebrare la sua “discutibile” vittoria a Fornovo (1495). E quindi il Gonzaga prima accolla al banchiere Norsa  il pagamento della pala di Mantegna La Madonna della Vittoria, oggi al Louvre, quindi, espropriatolo della sua residenza, gli attribuisce le spese per raderla al suolo e costruirvi una chiesa per ospitare la medesima pala. Ma non finisce qui, in seguito infatti, al Norsa è anche richiesto di finanziare un’altra pala d’altare per la chiesa. Benché meno nota della pala mantegnesca, opera di un seguace di Mantegna e databile intorno al 1499, tale rappresentazione è analizzata in tandem con La Madonna della Vittoria evidenziando le implicazioni ideologiche e l’insidiosa e silenziosa violenza simbolica di cui le due opere sono portatrici. In entrambe i Cristiani  sono mostrati come dominanti e virtuosi, mentre gli Ebrei come perniciosi e dominati. E se la prima pala è implicitamente, ma indissolubilmente legata alla punizione esemplare del Norsa, la seconda pala concorre a contrassegnarla ancora più precisamente. Se a uno primo sguardo potrebbe sembrare una pala votiva, un’ iscrizione: DEBELLATA HEBRAEORUM TEMERITATE rende esplicito il fine della pala: mostrare che il banchiere è stato punito ed umiliato per il suo atto. Daniele Norsa, insieme alla sua famiglia,  è ritratto con un inusuale realismo ed è ben riconoscibile come individuo, ma gli sguardi, il segno giallo, e gli strani cappelli identificano chiaramente i Norsa come ebrei, ed ebrei contriti. A questo si aggiunge loro posizione sotto il livello del trono della Vergine, ai suoi piedi. Tale posizione infatti non è casuale,  ma ha origini ben precise, e per spiegarne il significato l’autrice ci guida attraverso una dettagliata e avvincente analisi della nascita e trasformazione di tale rappresentazione iconografica.

 

Il terzo capitolo prende in esame l’affresco di Benvenuto Tisi (detto il Garofalo) rappresentante una Crocefissione con Chiesa e Sinagoga per il convento agostiniano di Sant Andrea a Ferrara (1522). Katz,  riprendendo il lavoro di Stephen Campbell su Cosmé Tura, dapprima richiama alla nostra memoria il significato anti ebraico di un’altra pala d’altare ferrarese dipinta per i Roverella (1474c.). Quindi passa ad interpretare l’affresco sottolineando quanto, nonostante Alfonso I e i suoi predecessori fossero noti per la loro tolleranza verso gli ebrei,  quest’ultimo risulta di una insolita violenza simbolica. Soggetto centrale dell’affresco del Garofalo è il motivo della Croce vivente, e tipicamente pone da un lato e dall’altro della croce la Chiesa trionfante e la sconfitta Sinagoga. A destra della croce, raffigurata come una donna bendata a cavallo di un asino zoppo, la Sinagoga è trafitta da una lancia manovrata da un braccio uscente dalla croce, mentre al di sopra un altro braccio che brandisce una chiave rotta, quella del paradiso negato ai Giudei. A far da contrappunto a sinistra della croce, la Chiesa è incoronata dal braccio inferiore uscente dalla croce, mentre il braccio superiore impugna una chiave del Paradiso integra. L’inclusione di altri dettagli tratti dagli scritti di sant’Agostino nell’affresco notati dall’autrice la porta ad ipotizzare che il Tisi e i suoi committenti agostiniani con tale rappresentazione di Sinagoga non alludano direttamente alla comunità ebraica ferrarese, ma piuttosto al giudaismo come antica religione. E quindi il riferimento a delle precise questioni teologiche ancora aperte in seno all’ordine agostiniano, puntano piuttosto a chiarire le ragioni per comprendere e giustificare le scelte del loro principe nei confronti della comunità ebraica ferrarese.

 

A far da contrappunto ai primi tre capitoli stanno quelli finali (cap. 4 e 5), dedicati ai casi della Repubblica di Firenze e della città imperiale di Trento. Ancora una volta sono le immagini ad essere protagoniste, ma in modo differente. Infatti è contro un’ immagine della Vergine - la Madonna delle Rose in una delle nicchie della loggia di Orsanmichele- che si scaglia nel 1493 il marrano Bartolomeo de Cases, ma la violenza contro l’ebreo in ritorsione per il suo atto è lontana dal piano simbolico. Condannato a subire la pena di morte dagli Otto di Balia per la sua blasfemia, sarà oggetto di una violenza cruenta da parte del popolo: durante il percorso verso il suo supplizio lo sfortunato marrano verrà sottratto alla giustizia ufficiale per essere invece lapidato dalla popolazione civile e il suo corpo fatto a pezzi sarà trascinato attraverso le strade di Firenze. Come sottolinea l’autrice, le autorità sembrano non opporsi a questa violenza della folla. E in un momento non ben identificato dopo gli eventi appare per giunta un’iscrizione ai piedi della statua: HANC FERRO EFFIGEM PETIT IUDAEUS ET INDEX/IPSE SUI VULGO DILANIATUS OBIT/MCCCCLXXXXIII. Inusuale per una città pacifica come Firenze, il significato di tale iscrizione -  lungi dall’essere una mera celebrazione della punizione della blasfemia e della violenza popolare -  è, secondo l’autrice, da mettere in relazione con la difficile situazione politica creatasi dopo la morte di Lorenzo il Magnifico e alla vigilia della cacciata dei Medici. Infatti erano i Medici a concedere le condotte che permettevano agli Ebrei di rimanere in città.  Se già in precedenza in varie occasioni vi erano stati evidenti segni di intolleranza nei confronti degli ebrei, questo oltrepassare il limite, in un momento storico ben preciso, è quindi da interpretare come un monito ai protettori degli ebrei.

 

Delle altre immagini vengono a corroborare la tesi che non si tratti di una semplice punizione contro la blasfemia dell’atto in sé: come mostra l’interessante vicenda parallela proposta dalla studiosa di un blasfemo cristiano - registrata in una pittura infamante - gli Otto sapevano esercitare un pieno controllo sulla folla, se volevano. La tavoletta – pittura infamante -  difatti narra per episodi la blasfemia di un cristiano che profana un’immagine, ed è condannato a morte dagli Otto. Le immagini, lette insieme ai documenti contemporanei, infatti, ci informano di come il cristiano - piuttosto che affrontare il pericoloso percorso  attraversa la città per raggiungere il solito luogo dei supplizi, contrito, e atterrito dall’idea di essere linciato,  chiede di essere sottoposto ad impiccagione direttamente dalle finestre del palazzo del Bargello in pieno centro cittadino, ma fuori dalla portata della folla (e come mostrano documenti e immagini è soddisfatto dagli Otto).

 

Il caso di Trento, dove l’atteggiamento antiebraico nel Rinascimento è notoriamente asprissimo e diffuso, in particolare dopo i supposti supplizi subiti dal piccolo Simone Unferdrben (1475) chiude il libro. Qui Katz analizza le differenti tipologie di rappresentazione dell’omicidio rituale considerando una selezione delle innumerevoli immagini che disseminano le chiese parrocchiali della campagna trentina, e sottolineando il ruolo delle incisioni nella diffusione di tale vicenda.  Ribadendo come le immagini, anche in questo caso, servano a definire l’identità cristiana trentina, l’autrice ci ricorda come, rispetto alle altre immagini puntuali prese in esame, più che finalizzate a deviare la violenza, siano fatte a posteriori e contribuiscano quindi a ricordare la violenza già avvenuta, e renderla universale. Come infatti mostra il caso di Brescia, considerato parallelamente dall’autrice, la paura dell’omicidio rituale è perfettamente trasferibile da Trento e dal Trentino in un altro contesto proprio grazie al tipo di immagini prodotte, riprodotte e diffuse capillarmente.

 

Corredato di molti documenti d’archivio, incrociati con nuove e interessanti analisi di immagini note e meno note, questo libro offre un’interessantissima lettura di come la tolleranza e la persecuzione della comunità ebraica nel Rinascimento in Italia si rifletta nelle immagini. Accumulando attraverso i vari capitoli un’enorme quantità di elementi per illustrare i meccanismi del delicato processo di creazione delle immagini in situazioni più o meno favorevoli alla presenza ebraica Katz delinea un capitolo essenziale, e finora in parte trascurato e trattato in modo episodico, dell’arte rinascimentale italiana.


Indice
List of Illustrations


Introduction: Princes, Jews, and the Rhetoric of Tolerance
Chapter 1. The Contours of Tolerance and the Corpus Domini Altarpiece in Urbino
Chapter 2. The Politics of Persecution in Quattrocento Mantua
Chapter 3. Slaying Synagoga in Estense Ferrara
Chapter 4. The Jew, the Madonna, and the Mob in Republican Florence
Chapter 5. Searching for Simon in Trent and Beyond
Conclusion


Bibliography
Index
Acknowledgments