Caliò, Luigi M. : Romanitas. L’antichità romana e il fascismo tra Italia e Albania, (Antico), 300 p., ISBN: 978-88-5491-195-6, 24,00 €
(Edizioni Quasar, Roma 2021)
 
Recensione di Cinzia Vismara, Università degli Studi di Cassino.
 
Numero di parole: 2602 parole
Pubblicato on line il 2022-10-27
Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Link: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=4526
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       Il volume si colloca in un momento di rinnovato interesse per questi temi: si vedano i recenti studi di Simona Troilo, Pietre d’oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940), Bari-Roma 2021 e di Luca Acquarelli, Il fascismo e l’immagine dell’impero, Roma 2022. Si articola in 8 capitoli, - preceduti da un’Introduzione e seguiti da Conclusioni - corredati da un indice dei nomi e da una bibliografia di 18 pagine. Le figure (139) sono molto interessanti, numerose e varie: immagini di monumenti, riproduzioni di giornali e manifesti, fotografie di personaggi politici, di avvenimenti più e meno noti, sino a francobolli e a copertine dei quaderni di scuola, a illustrare la capillarità della propaganda.

 

       Il primo capitolo presenta la costruzione di un’immagine identitaria che nasce sin dai primi anni dell’unità e cresce poi, sostenuta da studiosi dell’antichità: esemplare è il discorso pronunciato all’alba del primo giorno di guerra, da Gabriele D’Annunzio e integralmente riportato alle pp. 28-31. Le direttive del governo fascista sulle Belle Arti risalgono alla fine del 1923 e vanno nel senso della statalizzazione e della centralizzazione di quelli che oggi chiamiamo beni culturali: già in un articolo del 1922 Mussolini aveva tracciato un manifesto della romanità. Come osserva giustamente l’A., “la definizione di nuovi modi di rapportarsi all’antico, sia a livello accademico che propagandistico, rispondono alla necessità del nuovo Stato di creare un passato di riferimento su cui poggiare l’idea dell’Italia unita e di formare una memoria identitaria collettiva che si ritrovi nell’antica unità imperiale” (p. 17).

 

       Il secondo capitolo si apre con un lungo excursus sulla definizione e la valutazione dell’arte romana - della quale proprio in quel periodo venivano alla luce molte testimonianze grazie agli scavi - e termina con l’esaltazione, da parte di importanti studiosi del Novecento, del passato imperiale che costituisce il fondamento della nazione. La proclamazione dell’impero il 9 maggio del 1936 “porta a compimento il mito fascista della romanità” (p. 35); la tradizione romana è tradizione imperiale. È questa la chiave di lettura dei numerosi e vari fenomeni di cui dà conto il volume e in particolare della strumentalizzazione dell’archeologia al fine di determinare un modello collettivo, quello dell’antichità romana, in cui riconoscersi.

 

       L’istruzione pubblica era oggetto del dibattito politico che si era sviluppato dai primi anni del Novecento tra i fautori del suo sviluppo, che avrebbe permesso la partecipazione dei ceti meno abbienti alla vita dello Stato e la preparazione alle nuove professioni, e quanti ne auspicavano una maggiore selettività per garantire la formazione di una classe dirigente di eccellenza. Il terzo capitolo fornisce un sintetico panorama delle riforme di Gentile e Bottai: la scuola diviene “una forza morale unificatrice in cui profondere le idee di una religione di stato civica e civile, secolare e laica” (p. 42). La funzione attribuita nella formazione scolastica all’eredità imperiale romana è evidente, come testimoniano i libri di testo, le copertine dei quaderni e altri strumenti di propaganda.

 

       Alla Roma augustea, nell’accezione fascista, fa riferimento la riforma dell’organizzazione dello stato e della società: una riforma “imperfetta”, come ha ben dimostrato Guido Melis (La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello stato fascista, Bologna 2018). L’A. esamina e illustra questo presunto rapporto in vari aspetti della riforma dello Stato e più in generale della società: il corporativismo, per il quale si cercano precedenti nei collegia, la pubblicistica archeologica in funzione della propaganda, che emargina il mondo greco, e l’interpretazione in questo senso di figure-chiave dell’Antichità (Scipione, con alcune pagine dedicate al celebre film, Cesare, fondatore come Mussolini di un impero, Augusto, cardine dell’ideologia, di cui verrà solennemente celebrato il bimillenario, Traiano, che porta l’impero alla sua massima espansione territoriale, Costantino, con alti e bassi a seconda del variare dei rapporti regime-chiesa, Virgilio, Livio e Orazio dei quali vengono celebrati i bimillenari) e del Medioevo (san Francesco, patrono d’Italia e Dante, che avrebbe vaticinato, nel Veltro, nientemeno che Mussolini, secondo alcuni autori) estrapolate - come avveniva per i monumenti portati in luce e quindi isolati - dal contesto storico in cui vissero e operarono. Il capitolo si conclude con un breve e interessante panorama degli echi di questa romanità mussoliniana all’estero: entusiastici nelle pagine dell’archeologo - non archeologa - statunitense Kenneth Scott (“Mussolini and the Roman Empire”, in The Classical Journal - non The Classical Review - del 1932), che paragona Mussolini ad Augusto per le politiche sulla famiglia e sulla ruralizzazione; ancorché meno agiografiche, vengono riportate alcune frasi elogiative di Eugenie Strong e di Ludwig Curtius.   

 

       Di particolare interesse è il capitolo quinto, dedicato alle grandi mostre (pp. 113-160), non solo quelle di carattere prettamente archeologico, e alla loro importanza propagandistica. Gli archeologi - già a partire dell’unità - sottolineano per lo più che la “rinascita patriottica” ha le proprie radici nella Roma imperiale: queste considerazioni divengono poi corollario alla conquista della Libia e del Dodecaneso ove ben presto hanno inizio scavi archeologici. In questo clima viene realizzata, nel 1911, la Mostra archeologica in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia, da cui nascerà nel 1926 il Museo dell’Impero, che costituirà a sua volta il nucleo della Mostra augustea della romanità del 1937, che diverrà infine il Museo della civiltà romana. La mostra, ospitata alle Terme di Diocleziano, si colloca tra il conflitto con la Turchia e la conquista della Libia: è significativo quanto scrisse Gherardo Gherardini, docente di Archeologia a Bologna, in tale occasione a proposito della Libia (cit. a p. 115): “Mi sia consentito esprimere qui oggi il voto più caldo che all’Italia e alla sua fiorente scuola archeologica sia serbato il nobilissimo assunto di esplorare quella regione disertata dalla barbarie musulmana e rimettere in luce e in onore i monumenti della sua storia che è storia nostra e del nostro passato glorioso”. Inizia ora, anche per l’Italia, l’archeologia coloniale. La mostra aveva una base documentaria eccezionale: le riproduzioni dei monumenti illustravano i benefici apportati da Roma alle province e il debito che l’Europa aveva nei riguardi della cultura romana. Le celebrazioni del cinquantenario occupavano anche un’area nel quartiere Prati, dov’era esposta la ricostruzione di una nave romana (p. 118, figg. 43-44).

 

       Un’altra mostra importante, anche se non prettamente archeologica, è quella della Rivoluzione fascista, nel decennale della marcia su Roma; il materiale esposto consisteva essenzialmente in fotografie, corredate da musiche, ove i richiami al passato imperiale erano numerosi, la sede era il Palazzo delle esposizioni, al quale venne applicata una facciata monumentale con 4 fasci e la cifra X ripetuta ai lati. Lo schema fu ripreso per il padiglione del Littorio alla Mostra internazionale di Bruxelles del 1936.

 

       La Mostra augustea della romanità, inaugurata in un anno - il 1937 - in cui ricorrevano il bimillenario della nascita di Augusto e i 15 anni dalla marcia su Roma, fu preceduta da due esposizioni, Roma nell’Ottocento e Mostra garibaldina, entrambe allestite nel cinquantenario garibaldino. Se si trattò di una realizzazione di grande importanza propagandistica, costituì nondimeno il volano di una notevole attività scientifica (pubblicazioni, calchi, plastici, tra i quali va menzionato quello di Roma, opera del Gismondi) e il frutto di un lungo lavoro preparatorio. Il materiale era presentato per classi di monumenti e per temi, a mostrare come Roma avesse fornito strumenti di civiltà, peraltro omogenei, a tutto il mondo e permesso dunque il diffondersi del cristianesimo. Se Augusto è il perno attorno al quale ruota gran parte della mostra, sono particolarmente significative le sale relative a Costantino, al cristianesimo e all’Immortalità dell’idea di Roma. La rinascita dell’Impero nell’Italia fascista: qui la continuità tra impero romano e impero fascista viene documentata da numerose iscrizioni, dal ricordo degli eroi della Grande guerra e infine dai busti del re imperatore e del duce. Alla mostra, che rimase aperta per un anno intero al Palazzo delle Esposizioni (fornito in tale occasione di un’ulteriore facciata monumentale su cui erano riportate a grandi lettere alcune fonti letterarie tradotte in italiano), si affiancarono un convegno internazionale di studi augustei, i restauri dell’Ara pacis e del Mausoleo; in contemporanea fu allestita una nuova edizione della Mostra della rivoluzione fascista nel Museo d’Arte moderna a Valle Giulia.

 

       Se la mostra della Civiltà romana, nel quadro dell’Esposizione universale del 1942, non ebbe luogo, fu invece costruito l’edificio che avrebbe dovuto ospitarla, il Palazzo della Civiltà italiana (il cosiddetto Colosseo quadrato), illustrato nel volume da fotografie e bozzetti.

 

       L’ultima mostra menzionata, mai realizzata, è la Mostra della Razza, che avrebbe esaltato quella italiana, frutto delle razze positive dell’Italia preromana; una Sala della razza era presente nella seconda edizione della mostra Torino e l’Autarchia e nella prima mostra triennale delle Terre italiane d’oltremare a Napoli.

 

       Alla ricerca di antiche radici che potessero motivare il razzismo è comunque dedicato il cap. 7 (“Antichità e razzismo”). Prima, però, viene sviluppato il tema “Romanità e modernità” (cap. 6), che si apre con una lunga citazione di Bottai sulla “funzione di Roma nella scuola”: “la romanità non si insegna; la si interpreta, la si continua, la si sviluppa, come idea, direi come cosa, insita in loro [sc. gli studenti]” (p. 162). Idea non originale, come sottolinea l’A., “ma che ripropone concetti risorgimentali come quelli espressi da Mazzini o da Gioberti” (ibid.), dei quali riporta alcune frasi significative, sottolineando che il diretto legame tra l’antico e il moderno non è, come in Gioberti, mediato dal cristianesimo e dal papato, bensì diretto. Questa continuità viene propagandata con vari mezzi e va ricordata l’inaugurazione, il 28 ottobre 1936, della quinta delle monumentali mappe marmoree dell’impero che affiancò le 4 già esistenti relative all’Antichità, successivamente aggiornata con l’inserimento dell’Albania. L’analisi prosegue con la presentazione degli istituti e delle accademie - per lo più ancora esistenti - fondati allo scopo di incanalare le ricerche degli storici dei vari periodi nelle direzioni volute dal regime. Ad esse si affiancano “riti e culti della romanità” (pp. 168-172): dallo stesso titolo di “duce” ai fasci littori, alla lupa. Da ciò derivano l’importanza attribuita alla ricerca antichistica, che conduce agli sciagurati sventramenti di centri storici (primo tra tutti quello di Roma) per isolare i monumenti, con una selezione delle “rovine” da conservare e l’imitazione dell’architettura e dell’urbanistica antiche nella realizzazione di edifici e di nuovi quartieri e di insediamenti creati ex novo. Il tutto, naturalmente con il consenso e il plauso di gran parte degli studiosi dell’Antichità.

 

       Il cap. 7 sviluppa, come si è accennato, il tema del rapporto tra “Antichità e razzismo”: le radici delle leggi razziali vengono attribuite ai Romani: “I Romani antichi erano razzisti fino all’inverosimile. La grande lotta della Repubblica romana fu appunto questa: sapere se la razza romana poteva aggregarsi ad altre razze” così lo stesso Mussolini in un discorso del 25 ottobre 1938 (cit. a p. 189). E A. Le Pera, nel primo numero di Razza e civiltà (1940), afferma: “Coscienza e sentimento di razza, in Italia, esistono sin da quando gli antichi Romani chiamarono barbari i popoli di diversa discendenza, da loro soggiogati e civilizzati” (cit. a p. 203). La “razza italica” nasce in un tempo lontano dall’unione delle stirpi italiche e determina gli eventi storici; teorie razziste vengono attribuite ad autori latini come Catone, Cesare, Orazio, Tacito: tali erano alcune delle argomentazioni di molti dei collaboratori, storici e antropologi, delle riviste La difesa della razza e Razza e civiltà, tra loro rivali, che vengono riportate dall’A. assieme a citazioni comparse anche su altre riviste e corredate da eloquenti immagini.

 

       L’ultimo capitolo, “Romanità e Albania”, si apre con la visione di questa regione nell’immaginario europeo, da Byron alle avventure a fumetti di Cino e Franco e di Tintin: un mondo lontano e misterioso. Già Ugo Ojetti, tuttavia, vi aveva effettuato un viaggio, di cui pubblicò nel 1902 un resoconto in cui trovano ampio spazio le descrizioni di siti archeologici. Le antiche memorie, la prossimità geografica e l’importanza strategica ed economica costituiscono le basi dell’interesse italiano e occupano ampio spazio nella propaganda. Una delle chiavi per assicurare la presenza italiana nella regione, che troverà pieno compimento con l’occupazione (1939), è costituita proprio dall’archeologia: lo studio dell’Antichità si propone come strumento per l’eliminazione del “ritardo” dell’Albania rispetto ai paesi che la circondano. Grande attenzione fu rivolta, già prima (e in previsione) dell’unione, al sistema scolastico, che riprese quello italiano, con l’obbligo dello studio della lingua italiana. Nel 1939 venne istituito il Centro di studi sull’Albania, che doveva promuovere ricerche archeologiche, antropologiche e storiche; pubblicazioni di vario genere sul paese si moltiplicano. A più riprese viene evocato, prima e dopo l’annessione, il passaggio di Enea a Butrinto allo scopo di legittimare l’interferenza italiana e ancora una volta l’archeologia diviene strumento di propaganda. Se le ricerche di Ugolini avevano rivelato il carattere illirico di origine ariana della popolazione, gli studi etnografici ebbero un grande sviluppo e la popolazione fu studiata in un’ottica “razziale”: significativa è la riproduzione fotografica di un articolo comparso su La difesa della razza del 1939 (pp. 238-239). Il regime non si colloca in una posizione conflittuale con l’Islam, come era avvenuto in Libia, o con altre religioni, discostandosi dall’attività missionaria cattolica. Le ricerche archeologiche, iniziate già nel 1924 dall’Ugolini, avevano avuto ed ebbero - come le analoghe imprese europee nel Mediterraneo e come era avvenuto in Libia - una valenza politica e di conseguenza un sostegno importante da parte dello Stato. Nel caso dell’Albania furono favoriti gli scavi di siti protostorici, alla ricerca delle testimonianze degli Illiri e dei loro rapporti con la penisola salentina, più ricca e “incivilitrice”, e di abitati romani non “contaminati” dall’influsso greco: “Roma costruiva per l’eternità”: così Ugolini nel 1928 (cit. a p. 203). Dello studioso va riconosciuta l’attenzione portata agli aspetti culturali dei borghi contemporanei. Per un altro dei protagonisti dell’archeologia italiana in Albania, il Mustilli, l’impulso alla romanizzazione avvenne attraverso l’immigrazione romana e il conseguente sviluppo dell’agricoltura e del commercio e la realizzazione di infrastrutture. Non mancarono comunque contributi scientifici più approfonditi su una comune cultura adriatica comune, come quelli di Pellegrino Claudio Sestieri. Il capitolo si conclude con un panorama de L’Albania in Italia: la crociera del 1930 in occasione del bimillenario virgiliano, celebrato da una serie di francobolli, mostre e manifestazioni di vario genere illustrate da significative fotografie, in particolare i padiglioni dedicati all’Albania in varie edizioni della Fiera del Levante.

 

       Le conclusioni costituiscono una lucida sintesi degli argomenti trattati nel volume. Il volume non manca di interesse: la documentazione è abbondante e varia, apprezzabili sono le ampie citazioni di discorsi e scritti di varia natura, più e meno noti, utili a illustrare la retorica e lo stile della propaganda nell’utilizzare l’Antichità romana. La parte riservata all’Albania appare tuttavia slegata dal resto e comprende notizie varie sul paese (economia, infrastrutture, edilizia, lavoro, emigrazione, turismo, attività dei fasci, visita di Vittorio Emanuele III, illustrata da ben 6 fotografie) forse troppo numerose, come altrove, nell’economia di un volume dedicato a romanità e fascismo. Poco spazio, in realtà, viene dedicato alle ricerche archeologiche nel paese (11 pagine su 54). 

 

       Spiace dover constatare l’esistenza di refusi ed errori, dei quali segnaliamo di seguito quelli che possono creare dubbi e problemi al lettore. Nel sommario, fino al capitolo 4 compreso, i numeri di pagina indicati vanno scalati di due unità (ad es. p. 17 = p. 15). L’ultima frase della p. 19 sembra interrotta, ma la parte finale è in corpo minore; p. 22, § 1: “siano due state” va letto “siano state due”, p. 24, fig. 2: 1985 è 1895. Luciano Lanciani (p. 113 e indice, p. 296) è naturalmente Rodolfo Lanciani e stupisce leggere “optimes principes” a p. 92. Purtroppo le pagine del volume si staccano facilmente dal dorso.