Laderman, Shulamit : Jewish Art in Late Antiquity. The State of Research in Ancient Jewish Art, Pp. 86, ISBN: 978-90-04-42857-7, 70.00 €
(Brill, Leyde 2021)
 
Compte rendu par Laurenzi Elsa, Roma Tor Vergata
 
Nombre de mots : 2239 mots
Publié en ligne le 2023-03-27
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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       L’opera di Shulamit Laderman consta di 80 pagine, divise in 10 capitoli e 14 pagine di bibliografia  esclusivamente in lingua inglese (“Bibliography”, pp. 65-80); come indica il titolo, il testo presenta un quadro aggiornato degli studi sull’arte ebraica antica, centrato sulle sinagoghe (40 pagine sulle 80 totali) e in particolare su quelle della Palestina. Lo stile è scorrevole, l’apparato critico nel complesso puntuale; dispiace la completa mancanza della documentazione fotografica, che sarebbe stata un valido aiuto alla comprensione delle descrizioni e delle riflessioni dell’A.

 

       Nel capitolo 1, “Introduction” (pp. 2-7), l’A. esamina la definizione di ‘Jewish Art’ e la sua evoluzione, dagli anni Settanta fino al 2013, soffermandosi in particolare su cosa permetta di definire “Jewish” una qualsivoglia produzione artistica: la religione dell’artista, quella del committente, lo scopo per cui è stata prodotta, i soggetti scelti per la decorazione, la natura dell’oggetto; propone poi una serie di domande (p. 5) che dovrebbero aiutare ad arrivare a una comprensione piena del fenomeno ed elenca alcuni degli aprocci proposti dagli studiosi. Infine esamina il valore dei dati storici e archeologici e delle fonti bibliche e rabbiniche nello studio del problema. Conclude sottolineando come a partire dal I secolo d.C. un’opera sia immediatamente identificata come “ebraica” nel caso in cui il soggetto della decorazione sia in qualsiasi modo connesso al Tempio: nel prosieguo del testo la centralità di questo simbolo sarà sempre più evidenziata.

 

       Nel capitolo 2, “The Cosmological Significance of the Tabernacle” (pp. 7-11), l’A. sottolinea il forte  legame esistente fin dalle prime attestazioni dell’arte ebraica tra questa e le fonti letterarie, e nello specifico la stretta relazione – anche linguistica – esistente nella Bibbia tra le descrizioni della creazione del mondo nella Genesi e del Tabernacolo nell’Esodo, individuando in questo rapporto il motivo del suo significato cosmologico e dunque la sua fondamentale importanza simbolica (su questo argomento l’A. aveva già scritto nel 2013: Images of Cosmology in Jewish and Byzantine Art); questa risulterebbe rafforzata anche dalla scelta divina dell’artista destinato a realizzare quanto ordinato fin nei dettagli,  che deve essere dotato non solo delle competenze artistiche necessarie, ma anche di “special divine attributes – beʾtsel El” (p. 8). Dopo la distruzione del II Tempio, il valore simbolico delle iconografie a esso legate si arricchisce inoltre di un connotato politico universale (“the thrust of Jewish art”, p. 10), vale a dire ricordare a tutti gli Ebrei, in patria e nel mondo diasporico, il proprio glorioso passato, e particolare, cioè preservare la posizione politica della classe sacerdotale. L’importanza delle iconografie legate al Tempio innesca così un dialogo con le fonti letterarie, finalizzate “to keep its memory alive through art” (p. 10).

 

       Nel capitolo 3, “Coins and Their Symbolic Language” (pp. 11-13), l’A. rafforza l’interpretazione  politica dell’iconografia del Tempio (e dei simboli di culto ad esso connessi) analizzandone la presenza tanto sulle monete di Matityahu Antigonus II (40-37 a.C.) quanto sulle tetradracme emesse da Bar Kokhba (132-135), serie entrambe coniate con la finalità di rafforzare un sentimento identitario giudaico in risposta a un’oppressione straniera. A riprova della sua teoria cita anche il celeberrimo rilievo dell’Arco di Tito, dove sono artisti non ebrei a sintetizzare il trionfo sulla Iudaea mediante la sola esposizione della menorah.

 

       Nel capitolo 4, “Burial Architecture and Ornamentation” (pp. 13-22), l’A. presenta un’ampia panoramica delle sepolture in Palestina (anche secondarie) e alcuni contesti della diaspora. Descrive i sepolcri della Kidron valley, destinati a famiglie sacerdotali, notando come struttura e apparati decorativi, pur non comprendendo rappresentazioni di figure umane, siano fortemente influenzati dai coevi modelli ellenistici dominanti nel Mediterraneo. Esamina gli ossuari destinati alle sepolture secondarie (ossilegia), illustrandone i motivi decorativi (vegetali e geometrici, con una netta prevalenza della rosetta), la committenza, di alto livello socioeconomico, le possibili interpretazioni (fede nella resurrezione?). Sottolinea la presenza presso le aree sepolcrali di vasche alimentate da sorgenti o cisterne, datate dal tardo I fino al IV secolo, che per alcuni studiosi sarebbero da interpretare come bagni rituali per la purificazione (p. 16); le stesse si ritroverebbero (p. 21) anche a Beth She’arim, dove si riscontra anche la presenza di soggetti decorativi figurati, per la quale si riportano varie spiegazioni.

 

       Meno accurata è la parte dedicata alle catacombe di Roma: parlando di sei complessi conta due volte Vigna Randanini (pp. 17-18), confondendo forse questa con le due catacombe, superiore e inferiore, di Villa Torlonia; probabilmente l’assonanza tra il nome di G.B. De Rossi, grande archeologo dell’Ottocento, e D. Rossi, una studiosa contemporanea, la porta a scambiarli nel testo e nella bibliografia, che sull’argomento è limitata e datata (per i sarcofagi ad es. cita solo il testo di A. Konikoff del 1986, e manca ogni riferimento alle opere di D. Noy o di M. Williams). Confusa la datazione della decorazione dipinta delle catacombe: “Images of menorahs decorating the walls of these catacombs appeared only some 100 years after the Romans carved an image of the menorah on the Arch of Titus” (p. 18), ma aveva precedentemente e correttamente datato l’impianto delle catacombe dall’inizio del III secolo e l’unico affresco citato, quello della dell’arcosolium Aa di Villa Torlonia, al 350-370; azzardato anche sostenere che “the images of the menorah in Via (sic!) Torlonia were based on the collective memory of the Jews who saw it engraved on the Arch of Titus” (p. 18): non solo all’epoca il rilievo era visibile ma abbiamo motivo di ritenere che lo stesso candelabro fosse ancora esposto nel foro della Pace. Un paragrafo, dedicato ai vetri dorati di soggetto ebraico, si concentra su quello rinvenuto nella catacomba dei SS Pietro e Marcellino: apparato critico e bibliografia qui sono imprecisi e datati; manca ad es. una recente e suggestiva interpretazione proposta da D. Palombi (I Fori prima dei Fori, Monte Compatri 2016, p. 283). Un interessante contributo alla discussione poteva essere inoltre offerto dall’analisi del vetro dorato con decorazione figurata (fanciullo con lepre) recentemente scoperto ancora in situ nella catacomba di villa Torlonia, che non viene citato (L.V. Rutgers, “A New Gold-Glass from the Jewish Catacombs of Ancient Rome. Reflections on Its Iconography and Meaning and on the Cronology of Gold-Glass Production in Fourth Century Rome”, in Mitteilungen zur Christlichen Archäologie 23, 2017, pp. 92-112).

 

       L’A. conclude: “From the study of images of death and burial in Jewish art, we can conclude that the Jewish approach to funerary practices changed significantly from the time of the Second Temple to the fourth or fifth century but the reasons for such a radical shift are unclear” (p. 22).

 

       Nel capitolo 5, “Ancient Synagogues in Palestine” (pp. 22-35), l’A. dopo aver fornito un sintetico quadro dell’origine e della funzione delle antiche sinagoghe esamina i dati archeologici disponibili ponendo un discrimine cronologico all’anno 70. I pochi esempi relativi al periodo precedente non permettono di chiarire quale funzione precisa avessero questi complessi mentre il Tempio viveva: se per es. fossero poli multifunzionali o solo luoghi di preghiera; pare tuttavia che non rivaleggino in alcun modo con esso. Dopo il 70, nel II e III secolo nuove costruzioni sostituiscono quelle esistenti, con una massima concentrazione in Galilea: si distinguono tratti architettonici comuni, che hanno portato alla creazione dei famosi tipi ‘Galilea’ (II-III secolo), ‘broadhouse’ (IV secolo) e ‘byzantine’ (V-VI secolo); l’A. passa in rassegna la principale bibliografia sull’argomento dalla metà degli anni Settanta agli anni 2000. Segue una più dettagliata analisi delle sinagoghe di Nabratein, Hammas Tiberias, Bar’am, Capernaum, Dabbura e Sepphoris con bibliografia ragionata.

 

       L’A. conclude dicendo che “the synagogue was in somewhat of a formative period from the time of the destruction of the Second Temple until the Islamic conquest of the land of Israel. Its architects were exploring different structures in order to find solutions for the changes the Jews’ new religious culture engendered in their liturgical and physical communal needs”, una rimodulazione che avviene anche nel dialogo con l’architettura romana e quella cristiana.

 

       Il capitolo 6, “Ancient Synagogues in Diaspora” (pp. 35-43), esamina il valore delle sinagoghe della diaspora, di fondamentale importanza come luogo di aggregazione per le comunità già prima della distruzione del Tempio: un riflesso della molteplicità delle funzioni che esse svolgevano può essere letta in quella dei termini che le indicano (p. 36, n. 116). L’A. sottolinea l’orientamento verso Gerusalemme, che ha evidentemente un valore politico, delle 11 sinagoghe che elenca (delle 25 note archeologicamente). Dedica un paragrafo alle sinagoghe di Ostia, senza citare le recenti campagne di scavo di L. M. White (OSMAP Excavations in the Ancient Synagogue of Ostia, The University of Texas at Austin) e le sue proposte cronologiche, e di Sardi (dove stupisce l’assenza in nota del volume di W. Ameling, D. Noy, H. Bloedhorn, Inscriptiones Judaicae Orientis, II: Kleinasien, Tübingen 2004 – Texts and Studies in Ancient Judaism 99). Un altro paragrafo è dedicato a Dura Europos, il cui focus sta nelle interpretazioni proposte nel tempo della decorazione pittorica e dei graffiti individuati e delle peculiarità del complesso. 

 

       Il capitolo 7, “Synagogue Art” ( pp. 44-53) è dedicato alla descrizione e all’interpretazione dei mosaici pavimentali delle sinagoghe della Palestina, divisi su base iconografica tra quelli con Zodiaco centrale, datati dal tardo IV al VI secolo, e quelli con scene bibliche attestanti il legame tra Dio e il suo popolo, datati tra fine III e inizio IV secolo. Questi soggetti offrono all’A. l’occasione di ritornare con una bibliografia ragionata sul rapporto degli Ebrei con le immagini. I complessi sono presentati in base alla data della scoperta: il secondo paragrafo è dedicato agli anni 2000, descrivendo siti come Khirbet Wadi Hamam (2007-2009) o Huqoq (2011).

 

       Nel capitolo 8, “Architectural Elements and Furnishings in the Ancient Synagogues” (pp. 54-59), l’A.   esamina gli elementi architettonici e decorativi caratterizzanti le sinagoghe, ribadendo che essi derivano dal Tempio e dalla sua iconografia. In particolare si sofferma sulla rappresentazione, diffusa in età tardo antica, della menorah raddoppiata ai lati dell’Aron: questa dovrebbe essere interpretata come speranza di costruzione di un terzo tempio, e non a caso l’iconografia si daterebbe agli inizi degli anni 60 del III secolo, cioè contemporaneamente al breve regno di Giuliano l’Apostata (361-363) e alla sua promessa di ricostruire il Tempio, presto naufragata per la morte dell’imperatore (p. 54). L’A. passa poi ad analizzare altri elementi, come il bima, di cui riporta alcuni esempi a partire da quello di Magdala del I secolo, le transenne, un apprestamento che trova riscontri nelle coeve chiese cristiane, e laron; indaga anche sulla eventuale presenza di tracce archeologiche di spazi differenziati per uomini e donne nelle sinagoghe. La conclusione cui giunge l’autrice è che le differenze di pianta, di orientamento e di apprestamenti tra le sinagoghe dimostarano la mancanza di un’autorità religiosa centrale che indichi regole univoche.

 

       Il capitolo 9, “The Seven-Branch Menorah” (pp. 59-61), presenta le proposte di alcuni studiosi sull’interpretazione di questo “collective religious and national momentum reliquiae of zecher ha ʾmikdash” (p. 59); un refuso alla n. 210 p. 61 impedisce di riscontrare a fondo pagina il testo citato di G. Noga Banai (2008), correttamente citato però nella bibliografia finale. Stupisce che non sia citato il catalogo dell’esposizione curata da A. Di Castro, F. Leone, A. Nesselrath, “La menorà. Culto, storia e mito” (Roma 2017), peraltro con testo inglese a fronte, che avrebbe fornito altre interessanti riflessioni. Interpretata come simbolo cosmologico già nelle fonti antiche, attestata nel I secolo a.C. sui coni di Matityah Antigonus (39 a.C.) e nei graffiti della Jason’s Tomb, e in seguito su tipi quanto mai vari di supporti (“on stone capitals, columns, lintels, chancel screens, walls, and mosaic floors as well as on small objects in both Palestine and the Diaspora”, p. 60) la menorah diventa nell’età tardo antica il simbolo dell’arte ebraica par exellence.

 

       Nel capitolo 10, “Conclusions” (pp. 62-65), l’A. riprende i temi presentati nell'introduzione e fa un bilancio di quanto emerge dall’ampio catalogo: ne risulta che uno degli obiettivi principali dello studio dell'arte ebraica è tentare di capire il significato dell'identità ebraica e della percezione ebraica dei concetti di idolatria e aniconicità.  L’arte ebraica antica si sviluppa con più finalità: didattica, “to teach the meaning of the ‘word’ (the literal Jewish sources) with the aid of the ‘image’ (the visual expression)” (p. 63),  storico-politica, mantenere la memoria visiva del Tempio distrutto, ed escatologica, portare avanti la speranza della sua ricostruzione; gioca a vario titolo un ruolo nel rapporto col mondo pagano, con quello cristiano e con i due insieme.

 

       La Laderman propone una serie di domande (p. 63) che i futuri studiosi di arte ebraica potrebbero usare come guida per affrontare nuovi studi in questo vitale campo, e sottolinea l’opportunità di evolvere dal “book-codex format to databases” (p. 64), strumenti più flessibili e più utili per la consultazone e l'incrocio dei dati, citando per es. l’Index of Jewish Art dell’omonimo Centro, diretto da B. Narkiss.  Conclude infine ricordando l’importanza di calare lo studio dell’arte ebraica antica nel giusto contesto storico e “of the tradition of religious practice” (p. 65), auspicando lavori interdisciplinari che ne possano ampliare la comprensione.

 

 

Indice

 

1 -  Introduction, pp. 2-7

2 -  The Cosmological Significance of the Tabernacle, pp. 7- 11

3 -  Coins and Their Symbolic Language, pp. 11-13

4 -  Burial Architecture and Ornamentation, pp. 13-22

5 -  Ancient Synagogues in Palestine, pp. 22-35

6 -  Ancient Synagogues in Diaspora, pp. 35-43

7 -  Synagogue Art, pp. 44-53

8 -  Architectural Elements and Furnishings in the Ancient Synagogues, pp. 54-59

9 -  The Seven-Branch Menorah, pp. 59-61

10 -  Conclusions,  pp. 62-65

Bibliography