AA.VV.: Christof, Eva - Lehner, Gabriele - Lehner, Manfred - Pochmarski, Erwin (Hrsg.),
ΠΟΤΝΙΑ ΘΗΡΩΝ. Festschrift für Gerda Schwarz zum 65. Geburtstag (Veröffentlichungen des Instituts für Archäologie der Karl-Franzens-Universität Graz 8)
ISBN 978-3-901232-82-4. 480 Seiten, zahlr. SW-Abb. im Text, 29 x 21 cm, kartoniert. 69 Euro
(Phoibos Verlag, Wien 2007)
 
Compte rendu par Maurizio Buora, Civici Musei di Udine
 
Nombre de mots : 6654 mots
Publié en ligne le 2009-12-18
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
Lien: http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=544
Lien pour commander ce livre
 
 

          “Nel nostro tempo, che con l’umanesimo ha smarrito anche il senso dell’umano, i ‘Festschriften’ sono rimasti tra i pochi fora della scienza” riconosce Hugo Meyer alla p. 217 di questo volume. Esso  precede di un anno la miscellanea in onore del prof. Pochmarski di cui abbiamo già riferito nei Comptes rendus di Histara (http://histara.sorbonne.fr/cr.php?cr=543). Rispetto a quello si  limita a soli  49 saggi che si sviluppano per 480 pagine, scritti per lo più da autori operanti in Austria, che toccano  temi di argomento greco e romano, poiché, come scrive Elisabeth Walde a p. 445, Gerda Schwarz nella sua attività scientifica unì nella maniera più armonica l’archeologia classica e quella provinciale. Conformemente a uno degli interessi di Gerda Schwarz  alcuni contributi sono dedicati alla pittura vascolare. Si tratta spesso di saggi puntuali, non di rado dedicati a un singolo oggetto o a un singolo aspetto, propri di persone – in maggioranza donne - che lavorano all’interno di istituti universitari, in modo particolare dell’Austria. Per dare un’idea precisa dei contenuti abbiamo raggruppato gli argomenti in ordine cronologico, infrangendo l’aurea regola della pubblicazione di disporli per ordine alfabetico degli autori.

 


A) Interventi diacronici.

 

          Ben noti all’antropologia e alla storia delle religioni  sono i parasole che caratterizzano alcuni personaggi,  i quali  per J. Borchhardt ed E. Bleibtreu, Der Sonnenschirm als Zeichen der Herrschaft, pp. 29 – 68 rappresentano un chiaro segno di dominio, a partire dall’antica Licia, passando per la Mesopotamia, l’Egitto, la Grecia (da Micene all’età tardo classica), con inclusione dell’Etruria, l’Asia Minore, gli Achemenidi, l’arte greco-persiana, Cipro.  La dottissima analisi arriva fino a Roma (Cleopatra sotto l’ombrellino) corredata da una sessantina di immagini.

 

          P. Mauritsch, „Den Tod verachten“ – Anmerkungen zum antiken Faustkampf, pp. 261-269, parte dal gesso della famosa rappresentazione del pugile seduto e da una raffigurazione di pugilato su una lekythos, entrambi conservati nel museo dell’istituto di archeologia di Graz., per un’indagine che  si snoda attraverso le fonti letterarie del pugilato (non molte per la verità) in special modo relativamente al possibile esito mortale della contesa, che pare documentato solo in quattro casi. Vengono presi in esame possibili assimilazioni con la pratica della guerra, la capacità di sopportare il dolore e l’atteggiamento degli spettatori della lotta o degli ascoltatori della loro narrazione.

          La trattazione di B. e R. Porod, So schenk mir doch ein in den Becher! Tipologische Durchlässigkeit zwischen Herakles und Polyphem, pp. 343- 352 ha carattere letterario  e si articola in tre momenti, ovvero genesi della figura del ciclope, quindi di quella di Eracle e confronto tra le due figure in Euripide.

          Il cortissimo contributo di A. Bammer, Dionysos auf dem Felsen der Akropolis, pp. 27-28 potrebbe essere in qualche modo considerato come storia del paesaggio. Esso si sofferma, curiosamente, sull’ipotetico profilo di un uomo barbuto che con fantasia l’A. vede sulla pendice orientale dell’Acropoli di Atene.

 

B) Pittura vascolare

 

             Non meraviglia che, per questo che fu uno dei temi prediletti della carriera universitaria di Gerda Schwarz (p. 279), vi siano numerosi studi.

 

          E. Trinkl, Alltagslebens in der attisch geometrischen Vasenmalerei, pp. 415-425 ricorda che, accanto alle scene più consuete di esposizione del defunto e dei funerali, nella pittura vascolare geometrica vi è spazio (ancorché ridotto) per scene di vita quotidiana. Immagini di navigazione, sport, caccia, danza e culti, espresse con una notevole libertà e cura., a partire dal così detto Rattle Group, successivamente suddiviso in più articolazioni, forse per mano di maestri diversi. Il testo fa riferimento a numerosi vasi e per la comprensione del discorso sarebbero state necessarie più illustrazioni. In conclusione l’A. ritorna a una vecchia proposta e suggerisce di vedere in questi problematici oggetti (“rattles” appunto) non strumenti musicali, bensì rocca e fuso, più facilmente comprensibili in un contesto funerario o in doni accessori per la tomba.

 

          Gradevole, ancorché piuttosto cursorio, l’intervento di H. Dourdoumas, Zu Großeltern in der griechische Mythologie, che alle pp. 83 – 90 si occupa del problema degli anziani (= dei),  ripercorrendo in parallelo alcune vicende mitiche (Rea, Zeus etc.)  con l’ausilio della documentazione della pittura vascolare. Lo scarso interesse per la rappresentazione dei rapporti (anche feroci) tra nonni e nipoti può derivare dal fatto che la vita media in Atene era alquanto ridotta e che solo il 40 per cento delle madri e appena il 22 dei padri potevano divenire nonni.

 

          Cinque anfore attiche di identico soggetto (nascita di Atena) a figure nere sono attribuite da H. Mommsen, Der Maler von Philadelphia MS 3440, pp. 279-291 a un medesimo pittore che ella definisce pittore di Philadelfia MS 3440 e  pare in grado di raggiungere un buon livello artistico. Nell’analisi si riuniscono  sulla base della morfologia dei recipienti e dei caratteri stilistici della decorazione altre anfore non dipinte dallo stesso pittore, ma appartenenti al medesimo gruppo.

 

          Können Götter Kinder sein?, ovvero "Possono gli dei essere bambini?" si chiede M. Poulkou alle pp. 353 – 356 a proposito di un’anfora del pittore di Nikoxenos di Monaco, nella quale sotto il trono in cui siedono Zeus ed Era si trovano due ragazzi nudi, strettamente intrecciati per le braccia. Presso gli artisti in genere l’infanzia degli dei trovò scarsa attenzione, salvo rari casi che riguardano coppie di gemelli, con Zeus ed Era e Artemide e Apollo.

 

          Un tema che risale ancora alla pittura a figure nere viene individuato in un breve contributo da E. Böhr, Ein Jüngling beim Fest der Oschophoria?, pp. 69-73 su una coppa da Vulci ora a Monaco, la cui parte più interessante è rappresentata dalla figurazione sul tondo interno ove, a detta dell’A., comparirebbe uno dei due giovinetti vestiti da donna che partecipavano a quella processione. Ciò ricorderebbe anche il ritorno di Teseo che giunse ad Atene, secondo Pausania, proprio vestito da donna. Da questa individuazione l’A. si spinge, persuasivamente, a tratteggiare brevemente il rituale, modificatosi nel tempo, di questa festa ateniese.

 

          Un lungo e denso  saggio  è dedicato a Hermes der Kleiderdieb, da A. Kossatz-Deissmann alle pp. 181-194. L’argomentazione riguarda un furto di abiti e oggetti personali a una donna che fa il bagno, raffigurata con i toni spiritosi della commedia,  in un cratere a calice del museo di Lecce, dell’ultimo quarto del V sec. a. C. attribuito al Pittore di Hearst. In maniera suggestiva si evocano richiami rituali, come la festa samia di Hermes Charidotes [su cui peraltro ulteriore ampia bibliografia  nel saggio non citata] in cui un furto veniva ritualmente effettuato, allo scopo di ricordare i dieci anni di carestia subiti o il rituale del bagno prima del matrimonio, nonché tutta una serie di sottintesi maliziosi ed erotici.  Vi è anche un possibile riferimento a opere teatrali perdute, magari un dramma satiresco, come non manca neppure la raffigurazione di satiri in abiti femminili, che richiamano scene analoghe. Ma tornando al cratere di Lecce l’A. vede nel satiro la proiezione del desiderio maschile di poter vedere il corpo nudo femminile.

 

          A. Lezzi-Hafter studia il Kinderfreund Hermes, pp. 225 – 227, come appare su una brocca a bocca trilobata di proprietà privata attribuita al pittore di Frauenbad (ultimo quarto del V sec. a. C.). La raffigurazione presenta Ermes in piedi, che tende un braccio verso un bambino in fasce su una parete rocciosa. Dopo aver passato in rassegna varie ipotesi l’ A. ritiene che il bambino sia il piccolo Arcade, figlio della ninfa Callisto e da questa abbandonato.

 

          L’articolo di F. M. Müller, Subgeometrisch Daunische Keramik aus der Siedlung am Colle Serpente in Ascoli Satriano (Provinz Foggia/Italien), pp. 293 – 303 riguarda gli scavi, qui condotti fin dal 1997 dall’istituto di archeologia dell’università di Innsbruck, che hanno interessato un insediamento frequentato dall’VIII fino al IV sec. a. C.  Dopo una sintesi dell’evoluzione della ceramica daunia, l’A. illustra, in maniera molto tecnica,  la produzione di Ascoli, del V e soprattutto del IV sec. a. C., che si differenzia da quella di Ordona e di Canosa. L’articolo tratta delle varie forme (olla, cratere, stamnòs, brocca, coppa, craterisco) e della loro decorazione.

 

          S. Karl, Omphale? Die Darstellung einer griechische-orientalischen Liebesbegegnung. Gedanken zu einem apulisch-rotfigurigen Fragment im Antikenkabinett des Landesmuseum Joanneum in Graz, pp. 163 – 172 propone di interpretare come Onfale la raffigurazione di una donna, in abito orientale,  seduta su un trono in un vaso apulo a figure rosse finora trascurato, di ignota provenienza. Lo stile permette di datare il recipiente, presumibilmente un cratere, intorno al 360/350 a. C. Il contributo è sostanzialmente diviso in due parti: nella prima si discute della diversa interpretazione della vicenda di Onfale nelle fonti letterarie, nella seconda delle sue rappresentazioni figurate. A parte le monete (di Focea) la regina compare finora in meno di una decina di pitture vascolari, che partono dal 440-420 e si attestano soprattutto verso la metà del IV sec. Queste permettono all’A. di ipotizzare lo svolgimento dell’intera scena e la presenza di altri personaggi.

 

          A. Larcher -  Eine Pantherschale aus einem daunischen Grab, pp. 211-215 - pubblica una coppa rinvenuta nel 1997 in una tomba a fossa di Ascoli Satriano nel corso degli scavi effettuati dall’Istituto di archeologia di Innsbuck. Il corredo constava di 18 vasi, appartenenti alla seconda metà del IV sec. a. C.  Tra questi una lekanis appartenente alla koiné ellenistico italica con decorazione a foglie e con due pantere in posizione araldica (chiara connotazione dionisiaca), riparata già in antico, che l’A. avvicina alla produzione del gruppo del “cigno rosso” e data negli anni 325-320.

 

          E. Simon studia dopo attenta autopsia Ein pästanischer Lebes Gamikos (pp. 377 – 381) noto a Trendall solo dalle fotografie. Nella bella analisi sono messi in evidenza tutti gli elementi che richiamano Afrodite, ovvero la sua testa, l’uccello, le conchiglie, le onde del mare qui in funzione decorativa. L’A. ipotizza che sul lebete siano raffigurati da un lato Afrodite con un erote e dall’altro la stessa dea fidanzata ad Adone, in veste di cacciatore. Da questo suppone che l’immagine stessa di Adone, qui raffigurata da Assteas, si possa ritrovare in numerose altre pitture vascolari della Magna Grecia.

 


C) Scultura

 

          Ermes pare  un tema prediletto dai contributori di questa Festschrift. H. Froning, in Die Sandale des Hermes in Olympia, pp. 95-102 sceglie il notissimo gruppo di Ermes a Olimpia, variamente giudicato un originale di Prassitele, intorno al 330 o un’opera ellenistica o una copia romana. La trattazione dell’argomento è ampia, benché non si prospettino soluzioni rilevanti ai problemi considerati.  L’analisi della tecnica esecutiva, comune sia a esemplari greci che romani, non porta elementi decisivi: la parte posteriore, non finita, è comune ad altre opere del IV sec. Per la politura della superficie rimangono valide per il periodo intorno al 330 osservazioni già espresse da Gerda Schwarz. Pausania comunica che al suo tempo, quando l’Heraion presentava una sorta di allestimento museale, accogliendo statue trasportate da altri luoghi, il gruppo era considerato opera di Prassitele. Indizio della possibile antichità del gruppo è stato considerato un dettaglio del sandalo al piede destro di Ermes, con tracce di doratura. Il rientro della suola tra il primo e il secondo dito del piede, già ritenuto elemento postclassico, si riscontra  in statue più antiche e  postclassiche, per cui esso non impedisce di pensare che l’opera sia un originale di Prassitele.

 

          Thuri Lorenz riprende la tematica policletea, a lui cara fin dal 1972, con Polyklet- Alterswerk und Schüler, pp. 235 – 245. Nell’ampio articolo esamina le osservazioni critiche degli antichi sull’arte policletea, sui suoi possibili discepoli  e analizza soprattutto le immagini di giovinetti (tra cui l’efebo Westmacott e il giovinetto di Dresda). In tre appendici si sofferma poi sull’Amazzone del tipo Sciarra (che non ritiene policletea), sui dati biografici dell’artista e sulla statua di culto di Era nell’Heraion di Argo.

 

          L’avvio  di H. Meyer (Meleager in Aithàleia. Zur Identitätdes Westmacottschen Epheben, pp. 271-278) è molto interessante: esso parte dalla  „rivoluzione“ del ‘68 che in qualche modo si estese anche agli studi di antichità, complice Ernst Buschor. In maniera gustosa e apparentemente passando di palo in frasca l’A. arriva a proporre che l’Efebo Westmacott sia la raffigurazione di Meleagro che si pulisce sull’isola di Elba lasciando sulla spiaggia il gloios ovvero la miscela di olio e sporcizia che si depone sullo strigile.

 

          E. Pochmarski, A. Schidlofski, Der Kopf vom Südabhang und seine Rezepzionen, pp. 315 – 342. Il primo autore ritorna sull’argomento già trattato nel 1975 a proposito di un originale greco, rinvenuto ad Atene nel 1876,  e delle sue copie. Una prima difficoltà nasce dal tipo di riproduzione – molto vario e con diverse inclinazioni– che si è avuta nelle diverse pubblicazioni. Sulla base di alcuni dettagli e del confronto con le figure della pittura vascolare alcuni autori inclinano a ritenere che la testa raffiguri Dioniso piuttosto che Arianna. Va detto che le repliche di questo tipo (se ne conoscono cinque) sono state interpretate dai copisti di epoca romana come figure femminili. Pochmarski ritiene in conclusione che in mancanza di proposte migliori la testa si debba ritenere raffigurazione di Arianna. Come tale poteva essere collocata nel tempio di Dioniso, intorno al 300 a. C. Ma la conclusione rimane aperta, come riconosce anche l’altro autore al termine della sua parte. Schidlofski esamina dal canto suo le copie, a partire da quella, tardoantonina, del museo di Berlino. Questa parte del saggio, relativa alla “Kopienkritik”,  è tutta giocata tra antico e moderno, tra originali, imitazioni antiche e creazioni  “all’antica”. Molto interessante è l’accostamento tra le varie imitazioni (gli autori parlano di “ricezioni”) dell’antico nell’età adrianea e nella seconda metà dell’Ottocento.

 

          Una statua rinvenuta a Magnesia – in circostanze non del tutto note (forse in un santuario?) - nel 1885 e da allora ritenuta da alcuni, forse a torto, immagine di Alessandro è oggetto dello studio di U.-W. Gans, Der Alexander aus Magnesia – doch ‚nur’ die Statue eines jugendlichen Heros?, pp. 115 – 122. La tesi indicata già nel titolo, sia pure in forma dubitativa, si appoggia su alcune considerazioni. Si è supposto che il braccio destro tenesse la lancia e che i fori sulla testa servissero a fissare non già un diadema, come comunemente si crede, quanto una corona, come ritiene anche l’A. Il rinvenimento di un’iscrizione con il nome dell’autore – uno scultore pergameno del II sec. a.C. – pone il problema dell’eventuale riproposizione del ritratto di Alessandro nei secoli successivi. Ma com’è questo ritratto, si chiede Gans? Giovane, con folta capigliatura, atteggiamento eroico, sguardo verso l’alto etc. ovvero caratteri assolutamente indeterminati. Mancano nella nostra statua dettagli propri del vero Alessandro, come il lungo naso, gli zigomi marcati etc. mentre la posa, il resto della spada appartengono al tipo generico di un generale in posa eroica. L’origine pergamena dell’artista induce l’A. a concludere che la statua poteva appartenere a un anathema che ricordava i mitici antenati della casa regnante di Pergamo oppure raffigurare un eroe locale.

 

          Appartiene al periodo tardoellenistico  una statuetta di nudo, in marmo forse proconnesio,  studiata da J. Bouzek, Hermes. Torso einer späthelleinistischen nackten männlichen Statuette mit Mantel in der Prager Universitätsammlung, pp. 75 -78. Il torso, le cui origini sono incerte, fu forse acquistato dal precedente proprietario da un venditore di tappeti dell’Asia Minore. Infatti il prof. Salač era un noto collezionista di tappeti micrasiatici. Nell’analisi della statuetta l’A.  trova confronti con il tipo Andros-Farnese, anche se riconosce delle differenze. Ipotizza, poi, che essa si trovasse originariamente nella casa di un ricco mercante, forse a ricordo di qualche fortunato commercio.

 

          Alexandra Puhm, Ein Löwe aus Tavium, Provinz Yozgat, Türkei, pp. 357-360, pubblica un leone in marmo proveniente da uno scavo clandestino nel tumulo di Danaci, presso l’antica città di Tavium. Nonostante l’insoddisfacente stato di conservazione e i danni provocati da scavatori non autorizzati, la scultura, in origine certamente parte di una coppia, rivela caratteri stilistici di buona qualità che l’A. colloca nell’ellenismo, trovando confronti specialmente nell’altare di Pergamo, il che la induce a ritenere che nel tumulo fosse sepolto uno dei membri dell’”élite” galata di età pergamena.

 

          Un tema di grande interesse – e qui passiamo al mondo provinciale romano - è il „costume“ norico che secondo alcuni studiosi  sarebbe raffigurato nei monumenti funerari del Norico, specialmente di Virunum e di Flavia Solva. Ne tratta E. Hudeczek, Wie norisch waren due „norischen“ Madchen?, pp. 143 – 162. L’approfondita trattazione mostra le difficoltà interpretative di immagini che a loro volta possono aver fatto parte di un repertorio tradizionale, forse dipendente da tradizioni diverse. Dopo aver passato in rassegna le varie ipotesi proposte, l’A. riconosce in M 1 l’abito di festa locale – che sarebbe stato portato per più secoli, sia pure con alcune variazioni - e non una livrea del personale di servizio, come riteneva la Walde. Effettivamente da due rappresentazioni si ricava come le fanciulle noriche potesse avere avuto qualche funzione al momento del sacrificio. A questo si connetterebbero grembiuli e utensili adatti alla bisogna. Per la raffigurazione della dama si discute se abbia in mano uno specchio o un  ventaglio. Le dame, che  indossano un abito pienamente romano, come sulle are di Aquileia, rivelano la ricezione  di modelli che venivano dal sud. In qualche modo i tipi desunti dall’arte greca e transitati in quella romana, come la donna con velo e brocca, potevano venir tratti dall’arte di Aquileia o dai libri di modelli che potevano venir mediati da questa città; per quanto i problemi di datazione rimangano in larga parte ancora insoluti, si reputa che i migliori lapicidi locali abbiano saputo in un secondo tempo variare i modelli, ad es. adottando per le fanciulle una posizione speculare   e un costume tipicamente norico. Purtroppo non si è qui tenuto conto della piccola zona tra Camporosso e Tarvisio che fa parte dell’Italia solo dal 1918 e che in epoca romana era a tutti gli effetti Norico. Qui si trova ancora una raffigurazione di fanciulla sul fianco di un’ara,  ben nota fin dal Cinquecento (CIL III, 4712 = 11470), posta da Iulia Stratonice che pare la stessa persona  che pone un voto al santuario del Timavo tra 161 e 168 d. C. (CIL V, 706). L’interesse di questa immagine è  dato dal fatto che essa è speculare ad altra rinvenuta ad Aguntum: dunque a ridosso del confine con l’Italia in età medioimperiale questo schema si impose con una certa forza.

 

          C. Maier studia  Ein Stein aus dem kaiserlich ottomanischen Museum in Stambul, pp. 247 – 260. Il monumento funerario, rinvenuto nel 1870 ad Amarsa e pubblicato  da Ernst Kalinka nel 1898, è la base di una statua, vista già nel XV secolo da Ciriaco di Ancona e successivamente riadoperata. La statua sovrapposta era stata dedicata dal liberto Sesto Vibio Cocceiano al suo patrono Sesto Vibio Gallo. Una particolarità del monumento sono le raffigurazioni sui tre lati intorno all’iscrizione: su uno compare una classica scena di un cavaliere che predomina sui barbari, come in un rilievo del vallo antonino del 142 d. C. Possono entrambi derivare da un unico modello? Questo potrebbe essere il tropeum Traiani, che forse il lapicida del monumento di Vibio Gallo poté aver visto. Sulla base dell’appellativo Gemina Gallien(ica?) della legione XIII l’A. stabilisce definitivamente la sua appartenenza al periodo gallienico.

 

          Elisabeth Walde, Panem et Circenses - Spielgeber im römischen Österreich, pp. 445 – 451 analizza i magistrati  che effettuarono munera e appaiono rappresentati nell’arte romana e in quella provinciale, che la rispecchia, a partire da un’iscrizione dell’anfiteatro di Virunum di recente rinvenimento. La menzione in questa di una pittura fatta a spese di colui che volle restaurare una parte dell’anfiteatro stesso porta l’A. a supporre che sia parimenti un donatore la persona raffigurata nell’atto di offrire un sacrificio a  Nemesi, in un rilievo dal medesimo luogo. Ciò porta a una nuova interpretazione di un rilievo di Spittal, finora inteso come votivo, mentre l’A. lo collega alla volontà del finanziatore dei giochi di perpetuarne la memoria.

 

          Una testa in grandezza naturale dall’antica città di Tiana, considerata espressione della plastica ideale del primo periodo antonino nel secondo quarto del II sec d. C. viene ricondotta da E. Christof, Spätantike Idealskulptur: Ein neuer Kopf aus Tyana, pp. 79 – 81 al periodo intorno al 400 d. C. sulla base di stringenti osservazioni di dettaglio. Ciò comporta il riconoscimento di una certa vitalità e  capacità di elaborazione, secondo lo stile sovrarregionale, anche nelle piccole officine provinciali.

 

D) Artigianato

 

          Conosciamo una topografia degli antichi mestieri? Se lo chiede H. Grassl, Köhler und Walker. Zum Problem der antiken Gewerbetopographie, pp. 131 – 134 che parte da una favola di Esopo, la cui morale è che la diversità non conviene. D’altra parte, osserva Grassl, nel caso di associazioni o di vicinanza di artigiani della stessa specialità vi sarebbe stata una sgradita concorrenza (ma tale, aggiungiamo noi, non era sentita in Italia, ad es. nel medioevo, ove compaiono spessissimo le vie degli speronari, degli spatari etc.). Il breve saggio è occasione per un veloce e simpatico excursus nel mondo greco e romano tra le attività dei due artigiani, saggio in cui i problemi topografici sono trattati in maniera marginale.

 

          Di Ingrid Weber-Hiden, Mykenische Terrakottafiguinen aus der Sammlung des Instituts für Archäologie der Universität Graz, pp. 453 – 462 è il catalogo di sette terrecotte, la cui produzione divenne per così dire di massa nel periodo tardomiceneo in Grecia e il cui rinvenimento in piccoli santuari e nelle tombe non lascia dubbi sulla loro funzione religiosa. Quelle della collezione di Graz, presenti negli inventari già dall’Ottocento, sono di provenienza ignota. Il presente studio reca qualche luce, a questo proposito, su quelle così dette a T che in base a considerazioni statistiche possono essere indicate come presumibilmente provenienti da Tirinto o Micene, ove aveva scavato lo Schliemann.Un frammento raffigura un animale, altro un letto o barella, quindi due un trono e infine l’ultimo un auriga (tipo attestato specialmente nell’isola di Melo e a Tirinto).

 

          Dagli scavi condotti a Velia tra 1997 e 1999 proviene Eine spätarchaische weibliche Protome aus Velia, di cui si occupa alle pp. 123 – 130 V. Gassner. La protome si rinvenne nelle sabbie marine al di sotto della torre B 5 (qui una planimetria del complesso sarebbe stata opportuna). Per dimensioni corrisponde a quelle definite “piccole” a Locri. Il corpo ceramico ha il colore dei prodotti locali. La protome si riconduce senza difficoltà all’arte ionica, ma la valutazione del pezzo è resa difficile dal fatto che oggetti simili e contemporanei sono stati finora editi solo per la Sicilia o la parte meridionale della Magna Grecia, mentre la situazione per la parte centrale e settentrionale della costa tirrenica rimane poco chiara. Il rinvenimento pone il problema della diffusione locale di modelli ionici tramite Velia e capovolge un giudizio consolidato, valido per il periodo successivo, di supina aderenza agli schemi apprezzati localmente. Infatti  la produzione ceramica inizialmente si rivolse ai beni di prima necessità mentre per gli oggetti di pregio si ricorse all’importazione. La presenza della protome, che pure potrebbe provenire da Poseidonia, si spiegherebbe nell’ambito di un’area funeraria o sacrale di Velia. Per nessuna delle due città finora esistono elementi certi, che solo la futura ricerca potrà offrire. Dunque il rinvenimento appare problematico.

 

          Un bell’articolo di G. Koiner, Aphrodite Kourotrophos in den Archäologischen Sammlungen der Universität Graz. Vierzig und eine Statuette oder Ein versprenges Mitglied der „Grazer Gruppe“?, pp. 173-180, parte dalle missioni scientifiche ottocentesche indette anche allo scopo di incrementare le collezioni universitarie. Così giunse a Graz da Cipro nel 1862 la statuetta  di Afrodite kourotrophos con un gruppo di una quarantina di esemplari. Benché la tradizione delle kourothophoi risalga a Cipro almeno all’età del bronzo, esse sono attestate in special modo dal VI sec. a. C., forse per influsso di importazioni dall’Egitto. Per quanto concerne la classificazione tipologica l’A., sulla base della quarantina di esemplari conservati a Graz, suggerisce di riconoscere come dirimente la posizione e l’andamento del bambino posto sulle ginocchia, la cui diversità potrebbe dipendere da “atelier” diversi. L’analisi minuziosa dei dettagli morfologici e la loro sinossi permette all’A. una collocazione cronologica alla metà del V sec. o poco più tardi.

 

          Eine Glasschale für Artemis: Neue Evidenz zur Verbreitung von klassischen Luxusglas in Griechenland, pp. 371 – 376, di C. Schauer, presenta il frammento di una coppa di vetro chiaro con decorazione incisa trovata nel 1987 nel tempio di Artemide di Lousoi, nell’Arcadia settentrionale. Benché proveniente da un contesto disturbato, la coppa può essere attribuita al tempo della costruzione del tempio protoellenistico. Essa fu prodotta probabilmente in un’officina greca orientale nel IV sec. a. C. (Rodi?). La pubblicazione è occasione per una carrellata sulla datazione e sui luoghi di produzione di oggetti di vetro chiaro, sulla base specialmente della decorazione. La coppa in esame deriverebbe forma e decorazione dall’area achemenide.

 

          W. Artner, Ein keltisches Armreiffragment aus Graz, pp. 21-26 si occupa di un bracciale che rientra tra i pochi oggetti della seconda età del ferro finora noti dalla Stiria, e dal territorio di Graz in particolare. Esso, in proprietà privata, si conserva per un moncone di soli 2,5 cm, sufficienti tuttavia all’A. per analizzarne le caratteristiche: egli suppone che si tratti un oggetto rotto ritualmente e deposto con funzione votiva, forse sul percorso di un antico tracciato.

 

          La seconda edizione del Corpus Vasorum Arretinorum (2000)  curata da Patrik Kenrick,  ha rimesso in discussione alcuni problemi della ceramica bollata romana. Uno che da tempo interessa gli studiosi riguarda le impressioni di gemme e precisamente la loro parentela con le vere e proprie gemme intagliate, la cronologia, l’area di diffusione e infine anche l’analisi della raffigurazione. Su uno di questi soggetti, rinvenuto a Efeso, interviene S. Lädstatter, Viktoria, Apollon oder doch ein Athlet? Überlegungen zu den IST-Stempeln OCK type 2574, pp. 195-199, che lo ritiene prodotto dell’Italia centrale, forse in una officina di proprietà imperiale. Nello stampo, impresso da gemma, si vede una figura stante che tiene con una mano una corona, per incoronarsi e con l’altra si appoggia  a un’asta. Mancano le ali che sono caratteristiche della Vittoria, anche sulle monete, per cui dopo una serie di persuasivi confronti – che portano a escludere la raffigurazione di Apollo, pur comprensibile in un contesto augusteo - l’A. propone di vedervi la rappresentazione di un atleta che si incorona.

 

          Rimane  nel tema del sacro R. Wedenig, che pubblica Eine beschriftete Statuettenbasis aus Flavia Solva, alle pp. 463-467, rinvenuta negli scavi del 1989. Essa fu dedicata (d.d.) da un Aulus Iunius Car(---) a C(--) da intendere forse come Cerere. La presenza dell’iscrizione fa pensare a una collocazione in un santuario pubblico anziché in un larario privato, nell’avanzato I o nel II sec. d. C.

 

          U. Lohner-Urban, Eine bemerkenswerte Terra-Sigillata-Imitation aus Flavia Solva, pp. 229 – 233, sceglie di presentare, tra i circa 600 frammenti di terra sigillata liscia e decorata  dall’area urbana, uno rinvenuto nel 2003 che non sembra attribuibile ad alcuna officina. La raffigurazione della metopa (una figura che si inginocchia dinanzi ad altra seduta) e la sua cornice richiamano i prodotti di Natalis attivo a Banassac. Dopo aver esaminato le produzioni  della Pannonia orientale e centrale imitanti la sigillata decorata della Gallia centrale e meridionale,  nonché la cronologia dell’officina di Natalis e di quella di Cinnamus – la quale ha molti elementi in comune – l’A. propende per una datazione nel secondo quarto del II sec. d. C., prima che nel territorio arrivassero i prodotti di Rheinzabern e di Westerndorf. Da questo prodotto di buona qualità, di un’officina che certo ebbe una durata limitata, si illumina meglio il quadro della circolazione delle ceramiche nel Norico e nella vicina Pannonia.

 

          Più tardi ci porta Michaela Fuchs, che pubblica Ein goldenes Münzkollier severischer Zeit in Princeton, pp. 103 – 114, ovvero uan collana formata da medaglioni che richiamano monete di età severiana recente acquisizione del museo dell’Università di Princeton. Nulla sappiamo della sua provenienza, argomento che accuratamente l’A. evita di trattare. L’interesse maggiore consiste nei cinque pendagli, tratti da monete e inclusi in  cornici di opus interrasile tra loro diverse. Alcune imprecisioni rispetto alle monete si spiegano mediante la tecnica della copiatura, che dovette far uso di un positivo su cui la lamina d’oro fu modellata con l’uso di strumenti in legno o avorio. I copiosi confronti numismatici portati riconducono spesso a monete emesse nell’area alessandrina, per cui l’A. ipotizza che il collier sia stato realizzato in Egitto.

 

E) Sopravvivenza dell’antico


          Due orbiculi, o applicazioni per vesti, del Louvre sono studiati da Renate Pillinger, Das nackte Jesus, pp. 309 – 313 in un contributo fitto di rimandi iconografici. Essi hanno avuto varie interpretazioni, ma il fatto che rappresentino un bambino nudo nimbocruciato fa supporre senza dubbi all’A. che si sia inteso raffigurare il Cristo, l’unico cui sia confacente un tale attributo. Pur rilevando affinità con i testi dei Vangeli apocrifi, l’A. riscontra indubbie tangenze con le immagini di Dioniso nudo (che compare ad es. in un orbiculus di Düsseldorf), ma soprattutto con quella di Adamo, circondato dagli animali. Pertanto il „secondo Adamo“ ben si presenta allo stesso modo.

 

          Un disegno di Dürer, conservato all’Albertina, firmato e  datato 1515, è il soggetto di uno scritto di J. K. Eberlein, Eine Bemerkung zur Dürerzeichnung W 258 in Wien, pp. 91 – 94. Di classico qui c’è una figura femminile, secondo il tipo della Venere di Cnido, che sporge una mano verso un monaco (?) che scrive. Essa è affiancata dal diavolo per cui è stato dato alla scena il nome di “Tentazione”. In effetti le tre figure potrebbero a prima vista rappresentare la musica, l’amore e la filosofia pagana, - intese come tentatrici rispetto allo spirito medievale -  però alle spalle figura un esempio di architettura moderna, per nulla medievale, con una scala che di per sé è segno positivo. Perciò l’A. interpreta – persuasivamente - in senso positivo la scena, come ascesi tramite l’antico.

 

          N. Hebert, U. Steinklauber, Locus Ganymedi indicatus, pp. 139-142 traggono pretesto da una iscrizione di metà Ottocento sul Platbusch presso Graz per esaminare parte del gruppo di Ganimede di recente rinvenimento (2004), come spoglia, a St. Veit am Vogau. I due autori concludono che era adatto a Ganimede  un luogo elevato esposto all’aria, come indica appunto l’epigrafe “Biedermeier” citata.

 

          Il contributo  di Ingomar Weiler  presenta Überlegungen zur Physiognomie und Ikonographie in der antiken Sklaverei, pp. 469 – 479, ovvero espone considerazioni sulla fisiognomica e sull’iconografia degli schiavi.  Esso parte dalle raffigurazioni scultoree di Spartaco nel XIX secolo e di Euno nel XX  per esaminare l’influsso delle moderne teorie sulla schiavitù – dall’illuminismo al marxismo - nell’iconografia dei grandi ribelli e liberatori, ben diversa dall’immagine usuale antica, costante,  degli schiavi. Da Aristotele e dallo pseudo-Aristotele si ricavano alcuni connotati “naturali” degli schiavi, benché i trattatisti non si curino del fatto che tuttavia anche i liberi possono divenire schiavi. Se la schiavitù  appare opposta alla kalokagathia, tuttavia anche alcuni schiavi possono raggiungere una bellezza ideale, ad es. nelle lapidi funerarie o nelle raffigurazioni degli amasii, come in molti moderni film, sicché non è sempre facile nella immagini antiche distinguere una tipologia della schiavitù.

 

          Da Scott Fitzgerald a Fellini, da Asterix a Bruno Maderna la danza di Fortunata, immortalata nella cena di Trimalchione, ha ispirato numerosi artisti moderni, come ricorda B. Hainschek, A capillis usque ad ungues, pp. 135 – 138. I gioielli ricordati da Petronio trovano riscontro nei rinvenimenti  dall’area vesuviana, in genere molto più leggeri, oltre che da altre fonti letterarie. Ma l’A. si diverte a commentare il costume di Fortunata (Magali Noel), disegnato da Danilo Donati per il Satyricon di Fellini accostandolo a gioielli veri di varie aree e tempi, al fine di recuperare quell’assoluto ignoto, che è sepolto profondamente dentro di noi, come ebbe a scrivere lo stesso regista.

 

F) Varia

 

          I carri da guerra erano così importanti e comuni dal XVI secolo a. C. nel Vicino Oriente che l’età del bronzo secondo alcuni potrebbe essere definita anche il tempo dei carri da guerra. Ne tratta K. Tausend, Zum Kampf der Wagen. Bemerkungen zur Verwendung des mykenischen Streitwagens, pp. 383 – 393. Punto di partenza è la battaglia di Kadesch (1275 a. C.) quando furono impiegati circa 5000 carri, dopo di che essi acquistarono importanza, seppure minore, anche nella Grecia micenea: ve n’erano circa 660 a Cnosso,  120 a Pilo. Ciò corrisponde al complesso delle armate micenee che raggiungevano forse un decimo di quelle ittite o egiziane. Anche lo sviluppo tecnico dei carri da guerra micenei era inferiore. L’A. rintuzza tutte le opinioni secondo le quali l’uso dei carri da guerra sarebbe stato ridotto  nelle operazioni militari della Grecia micenea. Proprio il riferimento ad alcuni passi omerici permette di riconoscere la diversa tattica usata dai Greci rispetto agli Egiziani e agli Ittiti. L’A. introduce, poi, come elemento decisivo la ricostruzione di un affresco della parete nord del megaron di Micene. Di più si deve osservare che il numero dei carri, indicato dai testi in lineare B, rivela che essi non erano proprietà di pochi solo per ostentazione, ma in quanto conservati a palazzo avevano una destinazione  (bellica) precisa. Seguono alcuni dettagli di carattere tecnico che indicano, ad avviso dell’A., l’usuale utilizzo dei carri in guerra da parte dei Micenei nonché il deciso cambiamento di tecnica militare nella fase  SH III C, quando si ricorre allo scudo, il che presuppone che i guerrieri scendano dal carro per combattere a piedi.

 

          B. Otto, Il santuario di Demetra ad Herakleia in Lucania: elementi comuni con il mondo indigeno, pp. 305 – 308, tratta di alcuni  interscambi culturali tra il santuario italiota di Demetra, nell’attuale Policoro, e i vicini santuari indigeni. Tra questi la scelta di un luogo, per lo più vicino a sorgenti – presso cui si trovavano vasche e pozzi - da cui fosse possibile salire con la processione fino al tempio,  su un pendio esposto a sud. Altri elementi affini al mondo italico sono la presenza fisica o di offerte di militari, il culto di Atena Bendis. Comune ad ambienti greci e italici è il sacrificio di cani, praticato anche a Policoro. Infine gli ex voto anatomici del santuario di Demetra attestano la funzione guaritrice della dea stessa. Le didascalie delle fig. 3 e 4 sono  invertite.

 

          In S. Tausend, Taube-Kuckuck-Pfau?, pp. 395 – 402, una raffigurazione su un altare dell’Heraion di Argo già interpretata (1902) come una colomba  e poi come un cuculo (2003) viene discussa. L’A. che propone di vedervi piuttosto un pavone, animale legato proprio al culto di Era, in special modo a Samo e anche di riflesso ad Argo. Per quanto si discuta ancora sul momento di introduzione di questo animale in Grecia, il riconoscimento (indubbio secondo l’A.!) di esso in alcune immagini come la più antica raffigurazione del giudizio di Paride (terzo quarto del VII sec.) offrirebbe un  punto certo di appoggio. Il saggio è pretesto per esaminare i molteplici legami tra il pavone ed Era, che specialmente nell’iconografia di epoca romana (II sec. d. C.) si rafforzano, anche in relazione alla consecratio delle Auguste.

 

L’unico contributo di storia dell’architettura si deve a H. Thür, che esamina il ginnasio (Das Gymnasion an der oberen Agora in Ephesos, pp. 403 – 414), già oggetto di numerosi studi. Come dice il titolo, in base al riesame dei resti rinvenuti, anche al di sotto dello strato romano, e al confronto con altre città greche, l’A. ipotizzza che lo spazio non fosse un’agorà, come ipotizzato dall’Alzinger (mancano infatti costruzioni relative al culto e all’amministrazione), bensì un gimnasion. La presenza di un edificio con questo nome e funzione è del resto attestata in zona da ben sette iscrizioni, spostate al momento del loro riutilizzo, databili dal periodo postlisimacheo all’età augustea. Di più il porticato superiore aveva la lunghezza di uno stadio, perfettamente adatta a questo scopo. La sua collocazione – aggiungiamo noi - era peraltro compatibile per una eventuale funzione come luogo di raccolta di numerosi spettatori in occasione delle processioni annuali.

 

U. Schachinger, “Frauentugenden” im Münzbild römischer Kaiserinnen der Prinzipatszeit, pp. 361-370 ovvero si sofferma sulle „virtù femminili“ sulle monete delle imperatrici romane. L’espressione virtù femminili può, all’inizio del XXI secolo, apparire  alquanto datata perciò l’A. si preoccupa (p. 361) di inquadrarla nel contesto storico, in special modo nell’ambito delle monete fatte coniare dalle imperatrici romane, tema questo caro alla moderna “Frauenforschung”. La trattazione elenca le principali virtù, quali la Concordia (divinità di ambito per più vasto di quello strettamente famigliare). Sulle mani congiunte (p. 363) si potrebbe citare bibliografia vastissima. Tra le virtù femminili si ricorda il primo luogo la Fecunditas, su cui si basa spesso la Felicitas. Le donne dei Severi accentuano specialmente la loro funzione di madri degli imperatori, talora, come nel caso di Giulia Domna, con l’accostamento a Cibele, madre degli dei. Il saggio si conclude con un acceno a Severina, che le epigrafi indicano con il titolo di mater castrorum et senatus et patriae, la quale seppe far continuare la coniazione di moneta dopo l’assassinio di Aureliano da metà settembre 275 fino all’ascesa di Tacito a metà novembre  novembre dello stesso anno (cfr. per queste puntualizzazioni S. Estyot, D. Modenesi, Il ripostiglio della Venera: nuovo catalogo illustrato, Aureliano, Roma 1995, vol. 2, parte I, p. 9).

 

          R. Lafer, Spectacula in der Provinz Africa Proconsularis/Numidien im Spiegel der lateinischen Epigraphik, pp. 201-209., parte dall’intensa romanizzazione della regione che produsse molti monumenti per gli spettacoli (60 anfiteatri nel Nordafrica) e  favorì la presenza dei giochi nell’arte  e nella letteratura. Gli spettacoli – come quelli chiamati gymnasia - si svolgevano anche talora anche nelle terme. Il ricco “dossier” epigrafico attesta la presenza di luoghi di spettacolo nelle principali città, anche per intervento diretto degli imperatori e della loro famiglia, con azioni di restauro e  di abbellimento specialmente nel II (vedi il teatro di Cartagine, di cui parla anche Apuleio), ma anche nel IV sec.. Alcuni testi sono dedicati a pantomimi e a gladiatori. Altri parlano di giochi  atletici (gymnasia e pugila) svolti anche in onore dei defunti. Non mancano spettacoli gladiatorii et Africanarum (= bestie, a Cartagine). Il  richiamo ai testi di Tertulliano fa comprendere quanto fossero amati gli spettacoli nell’anfiteatro alla fine del I e all’inizio del III sec. d. C.

 

          M. Vomer-Gojkovič e S. Rindler, Ergänzungen zur Forschungsgeschichte Poetovios, pp. 427 – 436, con apppendice di M. Vomer-Gojkovič su Das Hajdina-Dreieck, appartiene a quel genere di studi, sempre più frequenti e molto utili che vogliono recuperare i dati di una tradizione storica e anche archeologica (con l’esecuzione di scavi) che non sono molto presenti nella letteratura. L’importante sito di Poetovio noto fin dalla fine dell’Ottocento fu scavato più volte da più archeologi, tra cui ricordiamo Michele Abramić e Rudolph Egger. La nota si concentra specialmente sugli scavi di Walter Schmidt nel triangolo di Hajdina, ove si rinvenne negli anni Trenta del Novecento un ampio horreum, e tracce di botteghe, con indizi anche della lavorazione dei metalli e della fabbricazione di fibule, in un’area frequentata dal I almeno al IV sec. d. C. Tre tavole danno un’idea del materiale allora rinvenuto.

 

             Di seguito Susanne Rindler pubblica Die Grabung Rudofl Eggers 1917 im Garten Gojkovič, pp. 437-444, con notizie tratte dai suoi diari di scavo depositati nell’archivio dell’Istituto archeologico austriaco e con riferimento ai materiali allora rinvenuti, inediti, conservati nel museo di Ptuj. Il confronto permette una pubblicazione postuma dello scavo che si realizzò mediante l’esecuzione di sei trincee.

 

          Uno spiritoso contributo di Manfred Lehner pone Unbequeme Fragen der Keramikforschung oder Versteckte Notizen zur Inexistenz von Frauenfeindlichkeit ind er Archäologie, pp. 217 – 223 si articola in cinque punti, che sono rispettivamente archeologia come scienza dello spirito, archeologia come scienza dei cocci, „cocciologia” come scienza non esatta, scienze naturali come sussidio, sussidio per le scienze naturali, conclusione.

 

 

          La miscellanea contiene una notevole quantità di testi puntuali e spesso molto brevi, per lo più dovuti a studiosi austriaci e ovviamente in larga parte di Graz, cosa che rende manifesto il livello degli studi lì condotti e degli studiosi lì operanti.

          A riprova dell’accuratezza dell’edizione consideriamo la scarsità degli errori di stampa. Tra i pochi rinvenuti citiamo “Anstolé” al posto di “anastolé” a p. 118, “Mongrafies” in luogo di “Monografies” alla not. 23 a p. 126; alla stessa pagina alla nota 26 non “archaiche” ma “arcaiche”, a p. 135 not. 8 “Gioelli” invece di “Gioielli” (idem alla nota 16 di p. 136), infine a  p. 136 non “quartodicenne” ma “quattordicenne” alla nota 15. A p. 310 Flozenz per Florenz.