Bouabdellah, Malika: Femmes d’Alger dans leur appartement de Delacroix, collection SOLO n°39, 14,2x21,5 cm, 56 pages, ISBN 9782757202395, 90,5 euros
(Somogy, Paris / Musée du Louvre 2008)
 
Compte rendu par Laura Fanti, Università La Sapienza (Roma)
 
Nombre de mots : 1106 mots
Publié en ligne le 2009-05-14
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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Il breve testo di Malika Bouabdellah sul noto dipinto di Eugène Delacroix (1798-1863) è volto a ricostruirne l’ideazione, la realizzazione e a svelarne i segreti: tutto quello che sta dietro il capolavoro che oggi vediamo e che per molto tempo abbiamo dato per scontato. Le donne di Algeri (1834) è, infatti, un’icona e l’autrice lo spiega bene nel paragrafo “Après Delacroix” dove afferma che molti dipinti ad esso ispirati si presentano come fredde e “modaiole” repliche di un primo geniale soggetto.

Bouabdellah ripercorre la storia del dipinto, risultato finale di impressioni di un giorno di permanenza ad Algeri (dalla notte del 25 a tutto il 26 giugno 1832) durante il viaggio di ritorno dal Marocco in missione diplomatica con il conte di Moulay. L’intento del libro è quello di dimostrare che l’opera non è stata improvvisata ma è la summa di riflessioni, di esperienze precedenti e dello studio di altri artisti; l’autrice dimostra inoltre che un soggetto apparentemente “locale”, di genere, diventa un capolavoro se dietro c’è la mente di un genio. Il rischio di essere percepito come un dipinto di genere nasce dalle prime critiche addotte al momento dell’esposizione al Salon parigino del 1832 che furono molte, tra queste: “algériennes”, “turques”, “sultanes”, “odalisques”, “juives”…(p.6).

E allora cosa rende capolavoro un dipinto in cui sono rappresentate alcune donne in un interno? Delacroix ha voluto rappresentare un harem? Vide un harem?

 

La dettagliata indagine storica sulla situazione di Algeri all’epoca, già in gran parte occidentalizzata, arriva persino a soffermarsi sulle piante della città e a confrontare gli appunti di Delacroix con i dati topografici, dimostrando come l’artista sia stato realmente ad Algeri e permettendo un gran passo in avanti nella conoscenza dell’opera : per lungo tempo si è creduto che l’artista visitò solo il Marocco e che quindi avesse rappresentato un interno marocchino. Addirittura alcuni ornamenti del dipinto trovano origine in scritte e decorazioni di moschee algerine, come quella di Sidi Abderrahmane, e nelle architetture di abitazioni, come quella di Mustafa Pacha, ricchissima di mattonelle di varie forme e colori. L’autrice si chiede se Delacroix sia riuscito a vedere le mogli degli ultimi corsari (p. 9) e abbia quindi voluto immortalarle, indaga su quello che ancora rimane un mistero e uno dei fascini dell’opera: cosa vi è rappresentato? È un harem? Un bordello? Come ha fatto l’artista a vederlo se i contatti con l’esterno erano proibiti per paura del colera? I nomi assegnati alle donne nei carnets non aiutano a sciogliere questi dubbi, perché sono stati aggiunti a posteriori e non sono veritieri; due di loro, Mouney e Zera, dovrebbero designare donne ebree mentre altri elementi, che non sono di fantasia, come le scritte e i serouel (pantaloni) ci riportano a un ambiente musulmano. Il fatto che non ci siano bambini conduce, a ogni modo, più a un bordello che a un harem, che (l’autrice finalmente chiarisce anche questo) non è la casa dove vivono le spose di un solo uomo ma è un’abitazione collettiva occupata da donne e bambini quando gli uomini sono fuori tutto il giorno (p. 11).

Altro tema affrontato è il fascino esercitato dall’Oriente su Delacroix, ben precedente al dipinto in questione. L’artista voleva imparare l’arabo e ripeteva spesso che “Rome n’est plus dans Rome” e che il Marocco sarebbe divenuto fonte di ispirazione per venti generazioni di artisti. Delacroix cercava nella luce orientale, nei costumi e nelle architetture, una “vivificazione” della classicità, che la Grecia e l’Italia rischiavano di perdere, e il suo intento era quello di far rivivere il fascino per l’esotico e far splendere le sue origini classiche piuttosto che considerarlo come un genere folkloristico.

 

Da pagina 14, Bouabdellah si concentra sull’esecuzione del dipinto, avvenuta in Francia dopo due anni di studio degli appunti e degli schizzi acquerellati in atelier. Alla donna seduta “alla turca” (autentica novità) Delacroix dedica molti disegni ma anche la donna nera è stata studiata a lungo. Il fatto di dipingere una persona di colore contraddiceva le norme sul bello accademico e in questo Delacroix è un innovatore. Si prosegue quindi con una minuziosa lettura iconografica del décor, composto di diversi ambienti, tunisini, napoletani, dove ci sono anche omaggi a Venezia, nella vetreria di Murano esposta nella nicchia sull’armadio, uno degli oggetti portati dalle ricche famiglie algerine di ritorno dall’Italia. La scritta a destra in calligrafia Thoulut ricorda la seconda parte della professione di fede islamica. Prosegue la lettura di tutto l’ambiente, dai tappeti marocchini a ogni particolare dell’abbigliamento; è molto interessante come ogni parte abbia il suo significato, come il meherma, la fascia sul capo simbolo di dignità di donna sposata, indossato dalla donna sulla sinistra. Grazie a questo studio si può finalmente a leggere il dipinto nella sua interezza e capire che Delacroix non ha dipinto un’opera di costume o di abbaglio, di innamoramento dell’Algeria, ma ha quasi fotografato le donne, la loro vita, i loro abiti.

Nel 1847 l’artista dipinge una seconda versione del dipinto, ora al Musée Fabre di Montpellier, in cui si è sufficientemente distaccato dal soggetto e procede verso un’apoteosi della pittura: i dettagli sono sacrificati per l’insieme e la luce è rembrandtiana, più calda e avvolgente, le pose delle donne più disinvolte, la schematizzazione in triangoli abolita.

 

Delacroix diventa un modello per molti, per aver smontato un marchingegno, per aver utilizzato un metodo analitico basato sulle linee di forza e sull’unità dell’insieme. Dirà Cézanne: “Tutto è cucito, lavorato d’insieme. È per questo che torna[1]”. Molti ne terranno conto, soprattutto i Cubisti e Picasso, che sarà quasi ossessionato dall’opera, fino alla riattualizzazione di Guttuso incentrata sui drammi della guerra in Algeria. D’altronde lo stesso Delacroix scrisse: “Se, ad una composizione interessante già per la scelta del soggetto, vi aggiungete una disposizione di linee che aumentano l’impressione, un chiaroscuro coinvolgente per l’immaginazione, un colore adattato ai caratteri, voi avete risolto un problema difficile e, ancora una volta, siete superiori: è l’armonia e le sue combinazioni adattate ad un unico canto [2]”.

Il libro è molto interessante, non lascia nulla in sospeso, purtroppo è poco scorrevole, sono pesanti i rimandi dei termini arabi e delle note a fine testo. L’apparato iconografico è ottimo se si pensa che il testo è di sole trenta, intense, pagine.



[1] “Tout est cousu, travaillé d’ensemble. Et c’est pour ça que ça tourne”, Citato in Joachim Gasquet, Cézanne, Paris 1981, p.108.


[2] “Si, à une composition déjà intéressante par le choix du sujet, vous ajoutez une disposition de lignes qui augmentent l’impression, un clair-obscur saisissant pour l’imagination, une couleur adaptée aux caractères, vous avez résolu un problème plus difficile, et encore une fois, vous êtes supérieur : c’est l’harmonie et ses combinaisons adaptées à un chant unique”, cit a p.29.