Renaux, Alain: L’Herbier du Roy, Exposition Cabinet d’Histoire du Jardin des Plantes du Muséum d’histoire naturelle, Paris, 24x32 cm, 144 pages, 80 ill., ISBN 978-2-7118-5365-6, 38 euros
(Rmn, Paris 2008)
 
Compte rendu par Laura Fanti, Université La Sapienza (Roma)
 
Nombre de mots : 953 mots
Publié en ligne le 2009-08-28
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          L’Herbier du Roy è il catalogo di una mostra su quello che sarebbe dovuto essere il più grande e più bell’erbario del XVII°sec, che purtroppo non vedrà mai la luce. Di esso restano 319 incisioni di piante (conservate alla Calcografia del Louvre) di cui 58 in mostra al Muséum d’histoire naturelle di Parigi.

 

          L’idea iniziale era dell’Académie Royale des Sciences (fondata nel 1666 da re Luigi XIV, insieme a quella di Belle Arti) ed appare oggi come un prototipo di Encyclopédie, comprendente la storia delle piante e degli usi terapeutici, l’etimologia dei nomi e così via, corredata da incisioni di altissimo livello. La parte scientifica era presieduta da Claude Perrault (1613-1688), fratello dello scrittore Charles, e da Denis Dodart (1634-1707); il primo medico ed architetto (sua un’ala del Louvre), l’altro medico e botanico, con la collaborazione di altri sapienti, scienziati, umanisti e artisti, in uno degli ultimi vagiti dell’unità del sapere, prima dell’inizio dell’iper-specializzazione del Settecento. Le incisioni, realizzate da Abraham Bosse (1604-1676), Louis de Chastillon (1639-1734) e Nicolas Robert (1610-1685), sono tutte lavorate al bulino e all’acquaforte, tecniche che permettono precisione di dettagli ma anche sfumature.

 

          Sembra che l’interesse di re Sole per le piante nasca da una guarigione avvenuta grazie alla cinchona,  una polvere che i Gesuiti nel Cinquecento (per inciso, molti missionari catalogarono le piante che andavano a scoprire nel nuovo mondo) chiamarono “polvere della contessa” in onore della moglie del vicerè del Perù Ana de Chinchon, dalla quale Linneo deriverà l’attuale denominazione. Dalla sua corteccia ancora oggi si estrae la chinina che ha proprietà antimalariche, analgesiche ed antipiretiche.

 

          Nella breve introduzione che precede l’erbario vero e proprio, Renaux fa notare la familiarità dell’uomo con le erbe, il quale se ne serviva quotidianamente in totum, secondo il precetto di Avicenna: “Le tout est plus grand que la somme des parties” (p.12). Le piante erano anche temute, soprattutto quelle del nuovo mondo, a riguardo racconta molti episodi divertenti, tra cui quello legato alla scoperta del tabacco da parte di Rodrigo de Jerez, il quale, di ritorno da una spedizione a Cuba, visto fumare, fu rinchiuso dagli inquisitori perché creduto in possesso del demonio! Naturalmente, quando la pratica del fumo fu tollerata venne liberato… Il catalogo è pieno di storie, aneddoti, miti e leggende, anche all’interno delle schede vere e proprie e questo ne fa un testo di agevole e preziosa lettura.

 

          Renaux delinea le tracce della storia della classificazione, ossia di come si è iniziato a catalogare le piante e ricorda come già Teofrasto nel IV sec. a.C. affermava che le piante agiscono secondo una loro natura e non per essere utili all’uomo, quindi aveva intuito che costituiscono un regno a sé stante. Le loro proprietà curative hanno una storia difficile da ricostruire, che si perde nella notte dei tempi, in parte la loro importanza sull’uomo si può intuire se pensiamo alla novità delle piante americane introdotte nel XVI° secolo: Renaux scrive che possiamo capire la portata rivoluzionaria delle scoperte botaniche solo se oggi immaginiamo di trovare su nuovi pianeti della piante in grado di guarire malattie ritenute incurabili.

 

          L’autore fornisce i nomi dei primi classificatori: Joachim Jung (1587-1657), che introdusse la terminologia, Pierre Magnol (1638-1715), che introdusse il termine “famiglia” e considerò la pianta nella sua interezza dalle radici alle fiori, e Joseph Pitton de Tournefort (1656-1708), il primo a parlare di “genere” e di “specie” (p.20).

 

          Si passa poi al progetto vero e proprio dell’erbario, che fu realizzato grazie ad un serio lavoro di équipe, a causa della consapevolezza dei limiti dei propri sistemi e dei propri mezzi. Il primo libro uscirà nel 1676 con il titolo Mémoires pou servir à l’ <Histoire des plantes> dressez par M.Dodart, de l’Académie royale des Sciences, Docteur en Medicine de la faculté de Paris. Non sappiamo il motivo per il quale questo rimase il primo ed unico libro.


          Le tavole sono una vera gioia degli occhi! Dei capolavori artistici inconsapevoli, quasi dimenticati dagli artisti del tempo e da quelli immediatamente successivi; per ritrovare la freschezza di queste incisioni dobbiamo aspettare la metà dell’Ottocento ossia gli artisti giapponesi e gli Impressionisti. Le immagini sono riprodotte a piena pagina, come se si trattasse di un erbario vivente sotto il nostro sguardo, con tutte le informazioni storico-scientifiche nella pagina a fianco. L’origine del nome è sempre spiegata, con interessanti voli d’uccello verso la lingua latina, araba, ebraica e sanscrita. Tra le più interessanti, l’etimologia di “anemone” derivante dal greco anemos (vento) e dal sanscrito âni-ti (soffiare), termini che hanno dato vita ai nostri “anima” e “animo”. La pianta si chiama così perché si muove al minimo soffio di vento ed è associata al mito di Adone, di cui è tratteggiata un’interessante leggenda (nacque dalla mirra). L’alchimilla deriva, invece, da “alchimia”, a sua volta derivante dall’arabo Al-Kimiyâ, la pietra filosofale (da Kama = tener segreto), in un viaggio a ritroso molto interessante.

 

          A volte gli artisti sbagliano a dare il nome alle piante, come Chastillon che scrive “aubepine” (biancospino) sull’incisione di un melo cinese (Malus Spectabilis) che non ha nulla a che vedere con il biancospino (p.61). Per il coriandolo (Coriandrum Satiumm L.) Renaux fornisce un interessante elenco di utilizzi nella medicina ayurvedica che vanno oltre alle note proprietà carminative. Sulla mandragola si ricordano tutte le leggende legate alla sua radice antropomorfa e al cerimoniale che avveniva durante la raccolta. A volte le piante più belle sono quelle più pericolose, come il Convulvus cantabrens L. (p.88).

 

          Tra i capolavori, l’incisione del papavero di Robert (p.35), che ha reso benissimo le ombre e le luci e il contrasto tra il verde e il rosso, quella del curioso Melocactus di Chastillon (p.37), uno dei primi ad essere visto in Europa, dalla curiosa forma fallica, il pruno di Chastillon (p.61), dal rigore e dalla poesia che ritroveremo solo in Hiroshige nel XIX secolo e infine l’Arisaema triphyllum (L) Schott di Robert, che coglie in pieno la complessità della pianta, elegante e affascinante ma tremendamente pericolosa.

 

          Insomma, un libro che unisce ottima informazione con eccellenti illustrazioni e che si gode benissimo anche se non si è visto la mostra. Interessante sia per i botanici sia per gli appassionati d’arte, unico neo la bibliografia, piuttosto ridotta per un tema così ampio e importante.