Capecchi, Gabriella - Marzi , Maria Grazia - Saladino, Vincenzo : I granduchi di Toscana e l’antico. Acquisti, restauri, allestimenti, (Biblioteca dell’ «Archivum Romanicum». Serie I, vol. 352), 17x24 cm, viii-344 pp. con 78 tavv. f.t. di cui 16 a colori, isbn 978 88 222 5855 7, euros 40,00
(Olschki Editore, Florence 2008)
 
Compte rendu par Giulio Bodon, Boston University CIES di Padova
 
Nombre de mots : 2612 mots
Publié en ligne le 2009-10-23
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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      L’opera miscellanea raccoglie tre saggi di altrettanti Autori, che si differenziano per argomento e per angolatura critica, ciascuno esplorando peculiari risvolti di un medesimo fenomeno storico culturale, per mettere in luce significativi aspetti variamente correlati alla presenza dell’antico nelle collezioni granducali di Firenze, lungo un ampio arco cronologico, dal XVI al XIX secolo.

 

      Il volume si apre con il saggio di Vincenzo Saladino, dal titolo “E intanto inparano quella bella maniera”: gusto e fantasia nel restauro dei marmi antichi per il giardino di Boboli (1587-1670). Tra le residenze medicee, che, di pari passo con l’incremento del patrimonio antiquario in proprietà della famiglia, furono destinate a svolgere funzioni di carattere ‘museale’ – dal palazzo in via Larga, poi ceduto ai Riccardi, a Palazzo Vecchio, sede della Guardaroba, e alla Galleria degli Uffizi, con la celeberrima Tribuna – uno dei poli più interessanti, per la ricchezza e per la qualità degli apparati espositivi, si individua a buon diritto in Palazzo Pitti, soprattutto nel giardino di Boboli, che, con i suoi splendidi arredi architettonici e naturali, rivela una spiccata vocazione di spazio d’eccellenza deputato all’allestimento di collezioni scultoree; l’ampio parco, che si sviluppa sulle pendici della collina di Belvedere, rappresenta non soltanto un modello esemplare di giardino ‘all’italiana’, ma anche un contesto espositivo en plein air, il cui complesso apparato si giova di un nucleo rilevante di opere antiche. L’attenzione rivolta nel tempo dalla committenza medicea a quello che sarebbe divenuto un vero e proprio gioiello fra i suoi possedimenti più preziosi si tradusse in una serie di interventi, per larga parte concentrati appunto sul gruppo delle statue antiche poste a decoro del giardino.

 

      Il lavoro davvero notevole di Saladino si struttura in modo che l’approfondimento di diverse tracce tematiche risulti dalle vicende dei numerosi maestri impegnati per generazioni dai Medici a Boboli, vicende che l’Autore ripercorre attraverso una meticolosa quanto suggestiva lettura della documentazione d’archivio, integralmente riportata in Appendice al saggio stesso (dopo due postille, l’una sull’uso dei modelli nella fontana dell’Oceano, l’altra sul Prato di Madama, gli Orticini e l’Orto del Buontalenti). Ne emergono così, sbalzate con grande ricchezza di dettagli, alcune figure che, per il percorso formativo e per i caratteri della produzione, si possono considerare a tutti gli effetti emblematiche di un’epoca e del suo gusto estetico, soprattutto per quanto concerne la particolare sensibilità nei confronti dell’arte antica.

 

      Il primo caso proposto come esemplare è quello della carriera di Andrea Ferrucci, che, avviato giovanissimo, sulle orme del padre, all’attività di scalpellino, non tardò a manifestare, lavorando per la committenza granducale, fianco a fianco con maestranze ben affermate, un certo talento per la scultura, attitudine applicata fin quasi dagli esordi con una notevole versatilità, quanto a materiali e tecniche di esecuzione. Il corposo elenco delle sculture antiche da lui restaurate per Boboli, in gran parte sotto Cosimo II, comprende pezzi come l’Aristogitone, copia romana d’uno dei Tirannicidi di Kritios e Nesiotes, che all’intervento integrativo del Ferrucci deve la testa attualmente visibile, di indubbio vigore espressivo, e ancora una Pallade, identificata nella copia colossale della cosiddetta Hera di Efeso, nonché una Igea, ora collocata nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti; si segnala anche la Diana che era in origine a Poggio Imperiale, e di qui passò agli Uffizi, per essere poi trasferita a Boboli.

 

      Di diverso carattere sono le considerazioni che Saladino sviluppa intorno a un’altra personalità della stessa generazione, Giovanni Caccini, responsabile della principale bottega scultorea attiva nel restauro dei marmi antichi dai quali nacque la Galleria degli Uffizi; le carte d’archivio forniscono un’abbondante messe di informazioni preziose circa il funzionamento di questa officina, che ebbe una parte non secondaria nel processo di codificazione di alcune tipologie di busti, soprattutto maschili, eseguiti a integrazione di teste ritratto antiche: significativi, a titolo d’esempio, i modelli creati per Vespasiano, Tiberio e Marco Aurelio, ottimi saggi di emulazione e reinterpretazione dell’antico. I registri della Guardaroba Medicea offrono l’opportunità di gettare uno sguardo ravvicinato all’attrezzatura e alla tecnica del restauro, soffermandosi anche sui costi relativi alle varie fasi della lavorazione, compresa la finitura, la politura e la patinatura, senza trascurare peraltro le operazioni di spostamento e trasferimento dei materiali. Di estremo interesse appare poi la possibilità di ricostruire i criteri di arruolamento delle maestranze che componevano una squadra di lavoro, suddivise per competenze specifiche, dallo scultore all’intagliatore, dallo scalpellino al lustratore, dal segatore al trasportatore.

 

      Di vent’anni più giovane rispetto ai due artisti sopra trattati, Giansimone Cioli è protagonista del successivo capitolo nel saggio di Saladino, ove si discutono e si argomentano i problemi di identificazione delle sculture da lui restaurate, tra le quali sicuramente un Esculapio, tuttora a Boboli, e un Ercole con Cerbero, nel cortile dell’Ammannati di Palazzo Pitti.

 

      Nelle pagine che seguono, la scena si popola di una folla di personaggi, tutti esponenti della scultura toscana, ingaggiati dalla committenza medicea in diverse occasioni, spesso a più riprese, durante l’età di Cosimo II, il periodo della reggenza e il granducato di Ferdinando II: Romolo Ferrucci del Tadda, Chiarissimo Fancelli, Orazio Mochi, Felice Palma, Raffaello Petrucci, Antonio Susini, Agostino Ubaldini; tra i più giovani, particolare attenzione è dedicata ai fratelli Domenico e Giovan Battista Pieratti, artefici di numerosi interventi tra Palazzo Pitti e Giardino di Boboli, dalla grotta del cortile al Vivaio Quadro, fino alla vasca dell’Isola. Sotto la guida dei maestri, molte nuove leve posero mano al decoro del parco fiorentino, che durante la prima metà del Seicento rappresentò una sorta di campo d’addestramento per tanti giovani apprendisti, come Bartolomeo Rossi, Cosimo Salvestrini, Raffaello Curradi; a questi si aggiungono gli scultori dell’età di Ferdinando II, la cui produzione appare quanto mai multiforme e variegata, anche grazie a una particolare perizia maturata nelle difficili tecniche di lavorazione del porfido e delle pietre dure.

 

      È da sottolineare l’importanza del paragrafo conclusivo, che l’Autore riserva a considerazioni di carattere metodologico e a riflessioni generali su un indirizzo di ricerca forse meno frequentato rispetto a quanto meriterebbe per interesse scientifico; eppure, come ben evidenzia Saladino, il filone ha tutt’altro che esaurito la sua ricchezza, se si ragiona intorno alle potenzialità applicative degli studi sui restauri storici di sculture antiche, riconoscendone l’apporto non già solo per quanto concerne il fenomeno del collezionismo come espressione di un gusto estetico e di una cultura antiquaria, in relazione alle vicende espositive dei materiali, ma anche sul terreno della stessa critica stilistica, cui senza dubbio soccorre l’analisi ‘stratigrafica’ condotta sui singoli pezzi, onde desumere una virtuale restituzione dei nuclei originali, senza peraltro trascurare risvolti ancor più sofisticati, giacché anche le interpretazioni, le trasformazioni e perfino le deformazioni prodotte dagli artisti nel corso dei secoli possono contribuire alla nostra comprensione delle creazioni antiche, soprattutto in merito al tema del rapporto tra le opere e lo spazio circostante.


      E appunto su un gruppo di esemplari scultorei antichi che conobbero ampia fortuna nella Rinascenza si concentra il secondo saggio del volume, firmato da Gabriella Capecchi, intitolato I Barbari Daci fiorentini. Forma e colore di un’immagine di vittoria. In esordio, l’Autrice, con una rapida ma esaustiva carrellata, riepiloga le informazioni disponibili circa la presenza a Roma, nel panorama del collezionismo antiquario rinascimentale, di sculture antiche, affini per soggetto e per caratteri iconografici generali, identificabili come Barbari: due statue, in bigio morato, erano presso i Cesi, nel giardino di Borgo, a un certo punto composte nel gruppo ‘d’assemblaggio’ della Roma triumphans; due altre, una in pavonazzetto e una in marmo bianco, collocate dai Colonna nella loro loggia al Quirinale, passarono ai Farnese, per giungere poi a Napoli; una coppia, in porfido, che faceva mostra di sé nel palazzo dei Savelli, costruito sulle rovine del Teatro di Marcello, arrivò al Louvre dalla collezione Borghese; quattro esemplari, tre in porfido e uno in marmo bianco, figuravano agli angoli interni del giardino pensile voluto dal cardinale Andrea della Valle, progettato dal Lorenzetto.

 

      Queste ultime sculture, dopo il passaggio in proprietà della famiglia Capranica e l’acquisizione da parte di Ferdinando de’ Medici, furono trasferite presso la villa sul Pincio, dove trovarono sistemazione, l’anno 1584, nel magniloquente apparato decorativo della facciata interna, rivolta verso il giardino: un allestimento rimasto immutato sino alla fine del XVIII secolo, allorché il granduca Pietro Leopoldo di Lorena ne ordinò lo smantellamento, mirando a ricomporre presso il capoluogo toscano tutte le collezioni medicee, con la conseguente rimozione dei Barbari, che presero la via di Firenze.

 

      L’avvincente e dettagliata esposizione dell’Autrice continua a seguire le sorti di questi esemplari, per i quali si pianificò in un primo momento una destinazione, come per molte altre sculture antiche della raccolta granducale romana, alla Loggia dei Lanzi, divenuta contesto espositivo dalla forte pregnanza ideologico politica; rimasti però sulla carta i vari progetti, le quattro statue vennero accantonate in magazzino, fino al 1810, quando ricomparvero nel nuovo assetto napoleonico di Palazzo Pitti, insieme alle ‘basi’ con Vittorie, Prigioni e Dioscuri, che ancor oggi sostengono una coppia di Barbari in porfido, ai lati dell’ingresso aulico di Boboli: si tratta degli stessi piedestalli impiegati, con identica funzione, prima a palazzo della Valle, poi a villa Medici, come si desume da una preziosa documentazione iconografica.

 

      Un’attenta disamina dello stato di conservazione degli esemplari fiorentini, che rende pieno conto dei restauri, delle integrazioni e delle manomissioni, permette all’Autrice di ragionare approfonditamente, anche mediante un puntuale confronto con le statue Borghese, su questioni di tipologia, di collocazione e di destinazione (inclusa quella originaria) delle figure, non senza rilevanti implicazioni per la definizione di un ambito cronologico; tra i risultati più felici, vi è senz’altro la conferma che i Barbari in porfido potrebbero essere effettivamente pertinenti a un medesimo ciclo decorativo o complesso monumentale.

 

      L’attenzione si sofferma quindi sul Barbaro in marmo bianco, collocato all’interno di Palazzo Pitti, nella sala Castagnoli, dopo la Restaurazione, insieme all’Imperatore cui fa da pendant, a inscenare una sorta di ‘trionfo’ stilizzato, ridotto allo schema più semplice, e perciò reso d’immediata ricezione; forse, come suggerisce Gabriella Capecchi, a una rilettura delle testimonianze, si può ipotizzare la presenza della statua anche nei progetti di allestimento messi a punto in precedenza per Napoleone.

 

      Dopo aver affrontato con notevole acribia la problematica questione delle teste dei Barbari e della loro pertinenza ai corpi, l’Autrice conclude il saggio esplorando un aspetto fondamentale della fortuna post-antica dei Daci, riflettendo cioè sul potenziale valore simbolico assunto da queste immagini nei diversi contesti decorativi cui furono destinate fin dalla Rinascenza. Ne scaturiscono spunti di grande interesse, a cominciare dall’idea, senz’altro pienamente condivisibile, di una potenziale valenza ideologica in funzione politica e religiosa insieme, dal momento che con facile sovrapposizione metaforica era possibile adombrare temi cari alla propaganda antiturca e controriformista, affermando la propria appartenenza alla Cristianità e l’ortodossia della fede cattolica: su questa linea, per esempio, appare eloquente il ruolo del cardinale Scipione Borghese, cui non sfuggì la possibilità di interpretare le valenze semantiche dei Barbari in chiave auto-celebrativa. Ma l’acuta indagine di Gabriella Capecchi, che con felice intuizione riesce a cogliere alcuni elementi in precedenza trascurati, attraverso una rilettura dei programmi ‘antiquari’ del Cinquecento, in particolare quello della Valle, e una disamina delle testimonianze iconografiche rinascimentali, giunge a prospettare anche altri possibili significati, restituendo alle immagini dei Daci – come prigioni o pilastri della fede, profeti o sostegni della grandezza dell’Urbe – una valenza ben più complessa e articolata, ricca di seducenti sfumature.

 

      Su uno scenario diverso, ma altrettanto suggestivo, conduce il lettore Maria Grazia Marzi, con l’ultimo saggio del volume, Dall’Etruria e dalla Tessaglia: acquisti e doni per la Reale Galleria di Leopoldo II, che ripercorre in un excursus storico gli episodi più significativi per le collezioni ceramiche granducali nella prima metà dell’Ottocento.

 

      Assecondando una tendenza già delineata alla fine del XVIII secolo, allorché si poté assistere a un progressivo dilagare della moda della ceramica nelle collezioni di antichità, i direttori e conservatori delle raccolte granducali manifestarono un certo interesse per questi materiali, inizialmente in un tono sommesso, a partire da Luigi Lanzi, poi in forma sempre più decisa, con il suo successore Giovan Battista Zannoni. Nel 1826 si registra il primo acquisto considerevole, che segna l’ingresso in collezione di un lotto proveniente dalla Val di Chiana, comprensivo di un vaso attico, di alcuni esemplari etrusco-corinzi, di ceramica d’impasto e di buccheri, questi ultimi molto apprezzati in quel periodo. Ulteriori acquisizioni di rilievo si susseguirono nei tre anni seguenti, con una graduale estensione degli ambiti di provenienza, fino alle terre di Puglia; eppure i criteri selettivi erano improntati a una certa severità, se, come rimarca l’Autrice, proprio in quella stessa congiuntura furono scartati alcuni pezzi da Orbetello, offerti da uno scopritore d’eccezione, Alessandro François, allora agli esordi della sua attività archeologica.

 

      Dopo questa parte introduttiva, il lavoro di Maria Grazia Marzi prosegue, alternando per ogni acquisizione un dettagliato resoconto delle vicende storiche a un completo elenco dei pezzi di pertinenza, strutturato per schede succinte ma esaurienti, che includono informazioni circa il registro inventariale (riferito al Supplemento al Catalogo della Galleria, riportato in Appendice), la collocazione attuale, la denominazione dell’oggetto, i soggetti pittorici rappresentati, la definizione dell’ambito cronologico e la bibliografia relativa.

 

      Nel 1830 le raccolte granducali acquisivano un gruppo di venti vasi, in gran parte attici a figure nere, dal territorio di Vulci, lotto identificato come collezione Moretti di Montalto di Castro, dai nomi rispettivamente del contadino che effettuò la scoperta e del podere che restituì alla luce i manufatti. Da allora in poi l’incremento appare davvero considerevole, sia per quantità, sia per qualità dei pezzi; determinante a questo proposito fu l’opera di Michele Arcangelo Migliarini, divenuto conservatore nel 1832: l’anno successivo il patrimonio si arricchiva delle collezioni Guarducci di Pitigliano e Bocci di Sovana, entrambe caratterizzate da una netta predominanza numerica della ceramica attica a figure nere, pur se in compresenza con materiali eterogenei, soprattutto esemplari etruschi.

 

      Dieci anni più tardi era la volta del cratere attico a colonnette decorato dal maestro che oggi identifichiamo appunto con la denominazione di “Pittore di Firenze”: l’Autrice, grazie anche alle lettere del Migliarini, ripercorre le vicende dell’acquisizione, conclusa nel 1843, seguita poi dall’episodio della scoperta del celeberrimo cratere François, firmato da Ergotimos e Kleitias, capolavoro che richiamò il conservatore a un sopralluogo già sullo scavo, per l’esame dei primi frammenti recuperati, e fu aggiudicato dopo circa due mesi di trattative, malgrado il totale disinteresse del Granduca. Era il 1845; cinque anni dopo entrava in Galleria un altro prezioso frutto delle ricerche di Alessandro François, l’anfora attica a figure nere del Pittore di Acheloos, recuperata, come già il cratere, nella tenuta di Dolciano presso Chiusi.

 

      Il saggio non tralascia infine di mettere in luce gli effetti che l’impatto di questi materiali produsse nel coevo sviluppo degli studi, in un fecondo rapporto di interazione tra collezionismo e cultura antiquaria; così, parallelamente alle iniziative intraprese per l’ampliamento della raccolta ceramica granducale, le ricerche condotte dal Migliarini su alcuni pezzi d’eccellenza, in particolare le osservazioni sul cratere François, si traducevano nell’enunciazione di una teoria sui “vasi dipinti”, che costituisce una tappa importante nel percorso critico moderno. In questa prospettiva risulta ancor più decisiva la svolta rappresentata dal primo arrivo di materiali dalla Grecia, nel 1859, con l’acquisizione del nucleo offerto da Salomone Fernandez, console toscano a Salonicco, giacché i vasi, attribuiti alla “scuola antichissima di Corinto”, appartenevano a una classe di cui era allora recentissima la scoperta della provenienza. Alla luce delle successive indagini archeologiche, fino alla metà del Novecento, il luogo di rinvenimento è forse ipotizzabile nella zona di Farsalo; ma, anche a prescindere da questo pur considerevole dato, come giustamente insiste l’Autrice, è essenziale attribuire il dovuto peso al ruolo svolto nell’orientamento delle scelte collezionistiche da una personalità come quella del Migliarini, ben aggiornata sulle principali questioni che animavano il dibattito tra gli studiosi dell’epoca.

 

      La prima Appendice al saggio della Marzi propone, come si è già accennato, una trascrizione del Supplemento al Catalogo generale della Reale Galleria di Firenze, del 1825, mentre la seconda presenta le relative tavole di concordanza con la numerazione inventariale del Museo Archeologico; una terza riporta il testo di alcune note, dall’Archivio Storico delle Gallerie di Firenze, riguardanti l’acquisizione della raccolta Fernandez.

 

      Esteso si presenta l’apparato illustrativo del volume, che consiste di centoquaranta riproduzioni fotografiche, ventisei delle quali, relative al contributo di Gabriella Capecchi, sono a colori; oltre alle immagini dei manufatti scultorei e ceramici diffusamente trattati nel libro, compare anche, sempre in rapporto ai Barbari Daci, una corposa documentazione iconografica di corredo, costituita in buona parte da disegni e stampe.

 

      L’opera è ulteriormente impreziosita da una vasta bibliografia generale, nonché da quattro indici: dei nomi di persone e istituzioni; dei nomi geografici, luoghi e complessi; delle raccolte d’arte, edifici, musei e opere; dei materiali, strumenti e tecniche.

 

      Per lo spessore scientifico dei contenuti, come per la ricchezza degli apparati, e, non da ultimo, per il peculiare taglio dei tre diversi saggi, che, pur organizzandosi ciascuno autonomamente, trovano valenti denominatori comuni sia nei principi metodologici, sia nella profondità della lettura critica, così da allargare gli orizzonti di ricerca e al tempo stesso moltiplicare gli spunti d’interesse, la miscellanea rappresenta un’opera brillante e ragguardevole, degno omaggio di tre studiosi dell’antico al patrimonio di una città come Firenze e al ruolo centrale che esso svolse nella storia della nostra cultura.