Garbati, Giuseppe: Religione votiva: per un’interpretazione storico-religiosa delle terrecotte votive nella Sardegna punica e tardo-punica, 121 p., € 160.00., ISBN 9788862270779
(Fabrizio Serra Editore, Pisa - Roma 2008)
 
Compte rendu par Antonella Pautasso, Consiglio Nazionale delle Ricerche, I.B.A.M. - Catania
 
Nombre de mots : 1613 mots
Publié en ligne le 2010-01-25
Citation: Histara les comptes rendus (ISSN 2100-0700).
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          Frutto di diversi anni di studio condotto nell’ambito di un Dottorato di Ricerca, il libro di Giuseppe Garbati affronta, dal punto di vista dello storico delle religioni, la lettura della documentazione offerta dai doni votivi nella Sardegna punica e tardo-punica, tra il IV ed il II sec. a.C., periodo cruciale per l’isola, che passa dalla dominazione cartaginese a quella romana.

 

          Obiettivi e metodologia della ricerca sono chiariti nel Cap. I, all’inizio del quale si viene delineando la struttura del lavoro nel quale, partendo da una revisione contestuale del materiale votivo, l’A. arriva a enucleare alcuni fondamentali problemi e a discutere delle linee interpretative. La difficoltà di tale operazione, come rileva immediatamente Garbati, risiede nello stato incompleto e lacunoso dell’edito e spesso nella mancanza di dati stratigrafici che ancorino l’inquadramento storico-artistico dei manufatti a contesti precisamente datati. A ciò si aggiunge la tendenza a classificare come “votivo” ogni rinvenimento di gruppi di terrecotte, trascurando l’eventualità di variabili nella funzionalità del contesto (nel caso, ad esempio, di aree artigianali/fornaci). Particolarmente interessanti sono il paragrafo relativo alla definizione di “religione votiva” e quello dedicato alla fondamentale distinzione terminologica (e di conseguenza concettuale) tra “favissa” e “stipe”, termini talvolta utilizzati indifferentemente, ma profondamente distinti.

 

          Il Cap. II (“La documentazione archeologica. Distribuzione e fisionomia”) punta l’attenzione sul dato archeologico, attraverso una precisa raccolta dei contesti votivi a oggi noti nella Sardegna tra IV e II sec., ordinati topograficamente dal Sud verso il Nord dell’isola. Siamo così in grado di apprezzare la quantità ma anche la varietà dei rinvenimenti, i diversi gradi di concentrazione dei complessi e soprattutto la coesistenza di diversi linguaggi figurativi (espressione forse preferibile a quella di “corrente artigianale”, usata dall’A.). Nella esaustiva carrellata che l’A. ci offre, corredata da varie immagini nel testo (sia foto di manufatti che planimetrie di edifici), emergono dati di notevole interesse: la particolare concentrazione dei rinvenimenti nelle aree urbane e suburbane (con una maggiore intensità nella zona dell’Oristanese), la tendenza a riutilizzare a fini religiosi le strutture nuragiche (Genna Maria di Villanovaforru e Su Nuraxi di Barumini, per citare solo due esempi), la coesistenza di modelli stilistici di riferimento assai diversificati tra loro; tutti elementi che, messi ben in evidenza dal Garbati, concorrono a tracciare un quadro preciso della specificità della religione votiva della Sardegna nel periodo in esame.

 

          A un più approfondito esame del dato materiale è dedicato il Cap. III (“La documentazione archeologica. Le terrecotte votive”), nel quale l’A. seleziona alcune classi particolari di votivi che consentono di mettere a fuoco l’importanza della coesistenza di diversi temi e modelli all’interno della produzione coroplastica sardo-punica. Così, ad esempio, la classe dei “devoti sofferenti”, molto diffusa nell’area Bitia-Neapolis, dichiara la sua derivazione dal modello dell’orante fenicio, assimilato e rielaborato secondo un linguaggio locale; le statuette e i busti femminili con fiaccola e porcellino, e i thymiateria a testa femminile trovano la loro collocazione nella diffusione di temi e iconografie greci (o meglio sicelioti), diffusi in tutto il Mediterraneo occidentale e veicolati attraverso canali punici (Cartagine certo, ma un ruolo importante è stato svolto dalla parte punica della Sicilia); i votivi anatomici, alcune teste e i bambini in fasce (che sembra di poter individuare nella fig. 8,e) sono invece espressioni di un artigianato di stampo italico, alla cui diffusione concorsero, anche nel caso della Sardegna, stanziamenti di gruppi di origine romano-italica. A questi modelli stilistici e iconografici esterni, si deve aggiungere il solido substrato sardo, nel cui linguaggio figurativo, a sua volta fortemente diversificato, emerge una tendenza all’astrazione e allo schematismo che si conserva nel corso del tempo.

 

          E’ dunque in questo particolare eclettismo che si esprime la peculiarità della produzione coroplastica dell’isola, nell’ambito della quale più che parlare di un “filone popolare” e di una “corrente colta” (che sembrerebbero semplificare in senso oppositivo i termini della questione), dobbiamo invece tentare di distinguere l’identità culturale (ed etnica ?) espressa dalla committenza di un determinato manufatto e dall’artigiano che tale manufatto deve plasmare. Fenomeni come la coesistenza di diverse manipolazioni e interpretazioni di alcune tipologie in uno stesso contesto denotano la coesistenza di diverse identità, in continua interferenza, che si esprimono attraverso linguaggi figurativi differenti. L’assimilazione dei modelli esterni è più facile laddove l’identità culturale di committenti e artigiani risulta più permeabile alla loro recezione: è il caso di Tharros, di Cagliari e di Santa Margherita di Pula, di Olbia, ad esempio, per i modelli greci; di Bitia, Neapolis e dei loro territori per quelli punici. Laddove, invece, esiste una  tradizione figurativa saldamente ancorata a una identità locale, abbiamo espressioni come le placchette di Linna Pertunta, che coesistono nello stesso deposito con votivi espressi in linguaggi figurativi del tutto differenti. Tuttavia, a parte alcune eccezioni, il quadro che le terrecotte votive restituiscono è quello di una religiosità semplice, che l’A. definisce “popolare”, strettamente connessa alle preoccupazioni quotidiane di ceti socialmente non emergenti soprattutto per quanto riguarda le aree rurali : la salute e la fertilità dei campi.

 

          Su questo argomento si incentra il Cap. IV, nel quale l’A. affronta il concetto di “religione popolare”, mettendo preliminarmente in evidenza la derivazione di tale definizione dalla denominazione di alcune categorie archeologiche, in particolare quelle relative a manifestazioni artigianali non di alto livello, raccolte in genere sotto l’etichetta di “corrente popolare”. Attraverso la riconsiderazione della storia degli studi sull’argomento e sulla base di alcuni esempi trattati nel volume, l’A. giunge a riconoscere alla definizione un valore di “fluidità funzionale” e di varia applicabilità che ne rende necessaria, di volta in volta, la formulazione concettuale in relazione alle caratteristiche del contesto.

 

          Alle due principali manifestazioni cultuali della Sardegna di età tardo-punica sono dedicati i Capp. V e VI. Nel primo di essi (“Le divinità femminili e i culti agrari e fertilistici”) Garbati ripercorre la vexata quaestio dell’introduzione del culto di Demetra e Core a Cartagine attraverso l’analisi delle fonti e delle testimonianze epigrafiche e archeologiche, dalle quali sembra emergere che l’istituzione di un culto ufficiale per le due dee si collochi in età tardo-repubblicana e non nel IV sec. a.C., come tramandato da Diodoro. Le testimonianze archeologiche relative a culti fertilistici sono per la massima parte rappresentate da due categorie di oggetti: statuette femminili (con fiaccola e porcellino) e thymiateria a testa femminile, sui quali si possono fare alcune osservazioni. Le statuette con porcellino, o con porcellino e fiaccola, creazioni degli artigiani sicelioti - alle quali è dedicato un fondamentale lavoro di Michel Sguaitamatti del 1984 – sono generalmente da interpretare come rappresentazioni di offerenti. In questo senso, la loro presenza all’interno di un contesto sacro, qualora manchino tutti i vari elementi che lo connotino come demetriaco, può essere interpretata come una espressione di devozione personale. Allo stesso modo, i thymiateria a testa femminile, più che rientrare strettamente nella categoria dei votivi, fanno parte di quella serie di oggetti che svolgendo potenzialmente anche una funzione rituale (la combustione di sostanze profumate in onore della divinità), se non iconograficamente caratterizzati (quale è il caso di quelli con corona di spighe), possono essere utilizzati e dedicati a varie divinità. E’ quindi il contesto, considerato nella sua complessità di dati e oggetti, e non la singola tipologia coroplastica, a dare le informazioni necessarie alla corretta interpretazione della divinità. E in effetti, l’A. sottolinea giustamente che, a fronte della diffusione delle statuette con porcellino e dei thymiateria in vari luoghi di culto dell’isola, a tutt’oggi due soli casi possono essere con sicurezza considerati come santuari di Demetra: Santa Margherita di Pula, per la lampante evidenza restituita dai frammenti delle statue di culto, e Terreseu di Narcao.

 

          Nel capitolo successivo (“Tra Oriente e Occidente: la sanatio e il «culto delle acque»”) l’A. affronta il problema della diffusione dei cosiddetti “culti terapeutici” nell’isola. Anche in questo caso, la tendenza a una certa generalizzazione ha portato a considerare l’associazione di “devoti sofferenti” e votivi anatomici con la presenza di acque e sorgenti, come indizio certo della presenza di culti salutari. Tuttavia, come rileva Garbati, il quadro restituito dai rinvenimenti non è così chiaro e definito, e la presenza di tali categorie di votivi non qualifica automaticamente il contesto come santuario di divinità salutare, con le due eccezioni di Bitia e di Neapolis, dove tale qualifica è supportata da varia documentazione. La diffusione in Sardegna della religiosità salutare, che nell’indigeno culto delle acque  trova la sua espressione locale, è legata alla crescente importanza che il culto di Eshmun ebbe nel Mediterraneo punico nel corso del VI e V secolo e dalla sua assimilazione con quello di Asclepio, passato dal mondo greco a quello romano nel corso del III secolo a.C. Attraverso la riconsiderazione delle manifestazioni del culto delle acque in età nuragica, a chiusura del capitolo, l’A. ne presenta una suggestiva proposta di lettura come espressione di una forma di religiosità in cui culto dei defunti e sfera della guarigione sono strettamente connessi.

 

          Se culti agrari e “terapeutici” sembrano connotare forme di religiosità “popolare”, essi non esauriscono il quadro della religione votiva nella Sardegna tardo-punica. L’ultimo capitolo del volume, infatti, è dedicato alla religione “ufficiale” (Cap. VII, “Religione votiva e sistema religioso «ufficiale»”) esemplificata dal caso di Antas, santuario eretto dai cartaginesi nel corso del V secolo e dedicato a un antenato progenitore (Sardus Pater) strettamente legato al dio “nazionale” dei Fenici, Melquart e a suo figlio Sid. Il luogo di culto è a tutti gli effetti un santuario interregionale, funzionale a un’integrazione ufficiale tra le diverse popolazioni, per le quali riveste un indiscusso valore politico, etnico e ideologico, non scevro da connotazioni di carattere terapeutico insite nella figura di Sid. Più incerta sembra invece la possibilità di rintracciare la figura di Demetra ad Antas, sia per quanto abbiamo detto precedentemente sul rapporto tra votivi e contesto, sia perché l’interpretazione (che giustamente l’A. presenta dubitativamente) della figurina di bronzo (fig. 78) come Baubò sembra che debba essere considerata con una certa prudenza.

 

          In conclusione, il volume di Giuseppe Garbati, inquadra bene la complessità della religione della Sardegna tardo-punica, mettendone in evidenza il carattere composito derivante dall’interferenza e dalla stratificazione di culture e tradizioni differenti. Il lavoro, condotto con rigore e scritto in forma chiara e piacevole, offre al lettore una ampia documentazione sull’argomento trattato ed è ricco di spunti di discussione non solo per gli storici della religione fenicio-punica, ma anche per gli archeologi che si occupano dello studio di altre civiltà del Mediterraneo antico e, in modo particolare, per gli studiosi di coroplastica, ai quali offre l’opportunità di riflettere su alcuni aspetti generali di carattere metodologico e terminologico.